Repubblica 10.3.18
Alla ricerca di un mistero perduto
Milano-Africa, caccia al tesoro di Rimbaud
d Edgardo Franzosini
Per
avere qualche probabilità di ritrovare delle tracce concrete,
tangibili, che testimonino il passaggio e il soggiorno dell’“angelo in
esilio” Rimbaud a Milano, magari proprio quella copia della Saison en
Enfer data alla signora, o magari una qualsiasi altra reliquia per
quanto piccola, bisognerebbe avere forse la stessa caparbietà, la stessa
ostinazione di Paul Boens.
Boens è un belga che è stato un tempo
istruttore di scuola guida. Da qualche anno ha abbandonato questa
attività e si è dedicato interamente, con una dedizione ingenua e
irremovibile, alla ricerca dell’oro di Rimbaud.
Ricerca che fino ad ora, a dire la verità, si è dimostrata inutile.
Dopo
aver acquistato quel che era rimasto della fattoria dei Rimbaud a Roche
(questo luogo come ha detto bene Julien Gracq “totalmente
insignificante”), Boens ha iniziato a scavare, prima con il badile, poi
pare con una scavatrice meccanica, nella certezza di ritrovare prima o
poi quei sedicimila e rotti franchi-oro che Rimbaud avrebbe portato con
sé dall’Abissinia (li teneva nascosti dentro la cintura, pesavano otto
chili e gli fecero venire un po’ di dissenteria, tutti particolari che
qualcuno commenterà in questo modo: «Era diventato avaro come la
madre»).
Ma il “tesoro” milanese di Rimbaud in cosa potrebbe
consistere? Forse nel letto dove ha dormito, nelle stoviglie o nelle
posate che ha usato. Forse nella sedia o nella poltrona in cui si sarà
seduto, o nei mobili che avrà toccato. Mobili che avrebbero potuto forse
ispirargli dei versi – come è accaduto per «l’ampia credenza scolpita…
dalle grandi porte nere», che Rimbaud vide a casa del suo compagno di
collegio a Charleville Léon Billuart e che gli suggerì un sonetto ( Le
buffet), così almeno sostengono i discendenti di Billuart – o mobili
sopra i quali dei versi avrebbe potuto scriverli direttamente (se non si
fosse già, come sappiamo, stancato della letteratura) come successe sul
tavolo di mogano dal piano rotondo di marmo grigio e dal pesante
treppiedi che si trovava nel salotto delle sorelle Isabelle, Henriette e
Caroline Gindre, le zie di Georges Izambard, e sul quale Arthur ricopiò
quell’insieme di poemi che vengono indicati come i Cahiers de Douai. Il
mobile, che rimase di proprietà degli Izambard sino al 1979, veniva
chiamato in famiglia semplicemente «la table de Rimbaud».
In casa
Gindre, ma stavolta direttamente sul legno della porta d’ingresso,
Rimbaud scrisse a matita anche un poemetto. Versi che Izambard non si
curò di ricopiare, e che scomparvero poco tempo dopo, presumibilmente
sotto l’azione della spazzola, e dell’acqua saponata, di una delle sue
zie (sul legno di una panchina di un giardino pubblico a Charleville,
Rimbaud avrebbe invece scritto o inciso con un coltellino, su questo
particolare la testimonianza di Delahaye benché sia diretta è incerta:
«Merde à Dieu» o forse – anche qui il ricordo di Delahaye non è preciso –
«Mort à Dieu»). Paul Boens, l’uomo che cerca l’“oro di Rimbaud”, ha
compiuto gran parte della sua ricerca e scavato con particolare
ostinazione nei pressi di un muro – che è tutto ciò che rimane della
fattoria di Vitalie Rimbaud a Roche – e attorno a un lavatoio che si
trova poco distante. Un cartello turistico collocato di fianco a questo
semplice impianto di pietra, coperto da un tetto di legno a spiovente,
informa il visitatore che «La frequentazione di questi luoghi avrebbe
ispirato Rimbaud». L’iniziativa di collocare il cartello è stata assunta
qualche tempo fa dal Conseil général des Ardennes, a seguito della
decisione di ricostruire il lavatoio com’era ai tempi di Arthur. Il
Conseil ha anche il merito o, per alcuni, la responsabilità, della
creazione di una Route Rimbaud Verlaine che, sconfinando in territorio
belga, si snoda per circa 200 chilometri da Juniville a Givet.
A
Juniville, in fondo a una strada diritta e piuttosto stretta, lungo cui
si allineano irregolarmente villette col giardino e case rurali che
hanno l’aria di essere state abbandonate per sempre, nel luogo dove una
volta sorgeva la locanda Au Lion d’or, c’è oggi il Musée Verlaine. Un
tempo c’era la casa in cui Verlaine abitò per qualche tempo (a detta di
Mallarmé aveva anche messo a punto un metodo di pronuncia inglese a uso
dei francesi basato sull’imitazione del tono gutturale e dell’abitudine
che avrebbero gli inglesi a serrare i denti mentre parlano, in una
parola sull’imitazione della loro difettosa pronuncia allorché cercano
di esprimersi in altre lingue, un esercizio che avrebbe aiutato, secondo
Verlaine, i suoi allievi del Collège ad acquisire un corretto accento
britannico).
Nelle sale del museo sono esposti alcuni oggetti
appartenuti al poeta: un cappello a cilindro, un bastone di bambù, un
calamaio, il tavolo su cui Verlaine, guidato, come disse lui stesso, dal
«sentimento della propria debolezza», e dopo aver «a lungo errato nella
corruzione del tempo», avrebbe scritto le poesie di Sagesse, la
riproduzione di un suo ritratto in cui spicca quella sua «testa da
scheletro grasso» di cui parla Leconte de Lisle.