l’espresso 25.3.18
Reportage
L’inferno dei bambini
Droga. Spaccio. Rapine. Scommesse Così vivono in Italia migliaia di minorenni.
Pistole. Droga. Spaccio. Rapine. Scommesse clandestine. Furti. Combattimenti di cani.
Così vivono in Italia migliaia di minorenni. Dai rioni di Palermo fino alla periferia di Milano
di Floriana Bulfon
«Mi
piace sparare con la pistola. Io sono coraggioso » , giura Antonio.
«Con il mio socio siamo andati a casa di uno, se marchi male ti facciamo
secco», precisa Mattia. Antonio e Mattia hanno sedici anni e vivono due
vite parallele: uno a Palermo, l’altro a Milano. Ragazzini sospesi
nella violenza, tra un presente ai margini e il sogno di potere che
diventa ossessione da esibire. È l’Italia dei bambini in guerra (spesso
tra loro) per pochi spiccioli e un futuro da boss. Un esercito a buon
mercato per la criminalità organizzata. Da inizio anno, in appena un
mese e mezzo, in Italia sono finiti in un centro di recupero oltre 160
minorenni. Più di 200 in comunità, 145 in un istituto penale. Sono
accusati soprattutto di rapine e spaccio, ma anche di omicidio
volontario. «A Brancaccio non c’è più Cosa Nostra come una volta. C’è e
non c’è: cioè, qua si ragiona», dice Paolo. Cammina mani in tasca lungo
via Conte Federico, la “strada della morte” durante la guerra di maia.
Il silenzio è rotto dall’abbaiare dei cani rinchiusi nei garage: escono
solo per i combattimenti clandestini. «Conosco tutti nel quartiere, ma i
Graviano non so chi siano». La palazzina dei parenti di “Madre Natura”
affaccia proprio lì. «Cugi’ che vuoi?» Si sente gridare da dietro le
imposte azzurre. «Io non scendo mai a Palermo», dice Maria. Per lei il
mondo si ferma qua. Adolescente con le trecce e «un po’ di problemi con
la giustizia», ha picchiato una vigilessa e «anche il vigile, ma nel
foglio non c’è scritto», ammette con candore. Brancaccio è un’identità
scritta a forza sulle saracinesche chiuse. «Qualcuno qui dice che la
maia è bella», confessa un quindicenne. Un suo amico ha appena fatto una
rapina, la prova violenta. Del resto, l’ultimo custode del libro mastro
del pizzo aveva poco più che vent’anni. Negli “Stati Uniti”, la zona
accanto al passaggio a livello pozzanghera di povertà, si smontano
motorini, perché «le cose rubate qui ci possono stare». Giovanna ha
quattordici anni e abita dietro a una porta con il nome scritto sul
cartone. Sono in sei in una camera e cucina vista strada. Il padre, un
passato da piccolo criminale, la accompagna negli scantinati da dove si
sospetta sia partita la Fiat 126 che ha seminato la morte in via
D’Amelio. Oggi ci sono grembiuli e disegni colorati, come voleva Padre
Pino Puglisi. «Si portava i picciriddi cu iddu», ha svelato il suo
sicario Salvatore Grigoli. Questa la sua colpa: toglierli dalla strada.
«Tutti i giorni mi devo difendere», dice Rosalia, undici anni e
l’ombretto «abbinato al colore della maglietta», spiega. Frequenta la
scuola Giovanni Falcone, presidio di legalità spesso vandalizzato dentro
la Zona Espansione Nord. «Vivo allo Zen 2», spiega, «è più bello lo Zen
1, ma se parli di criminalità meglio lo Zen 2». Diciottomila abitanti
dichiarati, in realtà 30 mila, chiusi dentro palazzi di cartongesso
feriti dallo scirocco e mai assegnati. Frigo e materassi fioriscono nei
giardini e su un muro qualcuno ha scritto «la tua invidia è la mia
fortuna». Di fronte campeggia «sporchi neri no ius soli», ma i migranti
non si vedono. «Qui ci sono trecento persone che vendono cocaina»,
rivela il pentito Sergio Macaluso. I capi, Fabio Chianchiano e Tonino
Lupo, comprano ragazzini «con venti euro e due canne» per nascondere
pistole e cristalli di cocaina. Al Bar Siris c’è una squadra di
sentinelle, in fondo un’altra, lungo le scale pitbull e rottweiler. Lo
Zen, stereotipo di inferno, bisogna guardarlo «da dentro e dal basso»,
scrive l’antropologo Ferdinando Fava in “Lo Zen di Palermo. Antropologia
dell’esclusione”. All’ascolto di chi ci vive, «perché nessuno sceglie
di spacciare», spiega un’operatrice che nel silenzio cerca di riannodare
i ili e costruire alternative. Tra bottiglie di plastica che rotolano,
Luca tira un calcio al pallone. Marco gli corre dietro. È tornato da
poco dalla Germania: «A me lì non piace, perché chiamano subito la
polizia». «La polizia mi fa schifo», precisa Luca, che oggi ha vinto 120
euro. «Ho chiuso la bolletta, glieli ho dati a mia madre per la spesa».
Sale scommesse a ogni angolo per sperare e riciclare. Questi bambini di
dieci anni hanno una regola: «Quando ci fermano al centro commerciale è
meglio non scappare. Ti portano da tua madre e deve pagare quello che
hai rubato». Più in là, oltrepassata una porta di ferro sgangherata, si
frigge tra specchi dorati ed Hello Kitty. Roberta Bella, al secolo
Maranzano, canta «le delusioni d’amore, i detenuti, perché in tanti
hanno il padre o il fratello in carcere». Il neomelodico che da Napoli
si espande, via d’uscita per convivere con la povertà e ritagliarsi un
ruolo nel disagio. Intona “si-pure-me-faje-male, io te-vojo-bene” e
mostra i milioni di visualizzazioni su YouTube. Le scrivono «sei il mio
idolo, mado’ lacrime».
Stefania, sedici anni e le unghie rosse con
i brillantini, sfoggia con orgo glio un tatuaggio: «L’ho fatto uguale a
mia sorella; io la amo». La madre la sognava avvocatessa, «ma lei non
si alza al mattino». Stefania non va a scuola e Roberta è dispiaciuta:
«Io ho avuto delle difficoltà, ho solo la terza media: agli esami ho
cantato “tu si ’na cosa grande”». Stasera si esibirà in una serenata con
il suo ultimo disco “Evolution”. «Cos’è per me l’evoluzione? Quando
piace un brano, quando spopola tanto». Per pubblicarlo il padre «ha
fatto due prestiti e ancora li sta pagando». Lo stereo diffonde la voce
di Roberta tra cortili curati e campi sportivi. L’auto si ferma davanti
al circolo Eureka. Da qui, cinque anni fa, è uscito Pasquale Tatone
prima di essere ammazzato a colpi di fucile. A Quarto Oggiaro, periferia
Nord-Ovest di Milano, dove il camorrista era arrivato bambino. Accanto
al parco di Villa Scheibler, con il muro trasformato in galleria d’arte,
tre quindicenni rollano una canna sulle sedie di plastica del Bar 2000.
«Arancia Meccanica? Li conoscevamo. Hanno fatto un video musicale».
Adolescenti a far le comparse, con le pistole sul tetto di palazzoni
inneggiando alla «grana da fare con la marijuana». E poi per strada a
far rapine, tanto violenti da venir paragonati alla banda che Stanley
Kubrick raccontò in uno dei suoi film più famosi. Ai cinesi, «perché
hanno i contanti», a un ragazzo perché indossa scarpe da 530 euro. La
canna dell’arma puntata dritta in faccia, i tirapugni e le mitragliette
scorpio, tutte fedeli riproduzioni senza il tappo rosso. «Si sentivano
come dentro a un videogioco», rivela Antonio D’Urso, il dirigente del
commissariato. Sulla pista di skate che taglia il parco, Alessia e
Giulia vogliono parlare: «Quarto non è il Bronx, ci sono tante persone
oneste». Quarto con i centri di aggregazione e i murales con i simboli
del riscatto. Periferie ordinate, quartieri di tranquillità borghese e
il disagio di chi rincorre il sogno di una vita migliore comprandosi il
“ferro”. «Siamo andati al supermercato a volto scoperto. Ci siamo presi
sui cinquemila euro per andare in vacanza. In quattro giorni abbiamo
speso tutto». A sedici anni. Michele s’è ritrovato a rubare senza sapere
il perché: «I miei non mi hanno fatto mancare niente», ammette. Ora ha
detto basta, racconta con il trap, il genere musicale nato negli
appartamenti abbandonati degli spacciatori americani, «quello che i
ragazzi non riescono a dire». E poi: «Voglio fargli un po’ da padre». Da
padre a chi con arroganza diventa l’incubo dei coetanei. «Perché la
noia è un tunnel da cui non si esce», chiarisce Mario, genitori
impiegati, una sorella piccola. «Non avevo niente da fare e allora ho
detto: va beh vado». A fare furti di abiti irmati con le foto dei trofei
postate sui social. «Sono stato espulso da scuola, ho fatto un po’ male
a dei compagni», racconta. E «i miei amici hanno spaccato il cranio a
due gay». «Siamo tutti un po’ colpevoli, se permettiamo che i giovani,
da Milano a Palermo, riempiano il vuoto apparente delle loro vite con la
violenza e il guadagno facile. Dobbiamo smettere di far inta di nulla.
Loro sono il nostro futuro, non possiamo lasciarli soli», dice Paolo
Rozera, direttore generale di Unicef Italia. José è arrivato da El
Salvador per cambiare vita. Penultimo di dieci figli, abita con le
sorelle più grandi «perché mia mamma lavora come badante e la vediamo
solo la domenica». Ora sconta una pena per concorso in tentato omicidio:
«Sono uscito dalla discoteca e ho trovato un mio amico. Non so perché è
iniziata la rissa, alla fine uno è rimasto a terra accoltellato». Quel
suo amico a 16 anni è entrato nella M-13, la Mara Salvatrucha. «Per loro
portava la droga, ma prima devi superare il rito». Aggressioni con
cinture e bottiglie, pestaggi e mandibole da fratturare. Più commetti
atti violenti più ti accrediti. MS-13, Barrio 18, Latin King, pandillas
di ragazzi latini che si spartiscono la metropoli milanese, dal parco
Trotter a via Padova, da Portello a Brenta. I quartieri ghetto
nell’immaginario comune e le villette dell’hinterland. Carlo in meno di
due anni ha costruito il suo business, perché «devi saper lavorare e
rendere il cliente fedele». È la giovane imprenditoria «da dividere in
“storie” da 0,4 grammi. Non è solo questione di soldi; sapere che
dipendono da te ti fa sentire qualcuno». I suoi genitori non
sospettavano nulla: «A casa con loro non ci parlavo mai». Sul comodino
il libro “Mussolini e il fascismo” di Renzo De Felice e la maglietta di
Marilyn Monroe. «Mi piace leggere per capire in che mondo mi trovo»,
dice mentre guarda il calendario con la X sui giorni che lo separano
dalla libertà. Ha un’unica speranza: «imbarcarmi su una nave da crociera
perché ho paura di ricadere nell’errore che ho fatto».