La Stampa TuttoScienze 21.3.18
Le teorie di Stephen e gli esperimenti di Kip a caccia del Tutto
Il futuro di una sfida iniziata nel 1970 a Cambridge
di Attilio Ferrari
L’Institute
of Astronomy, una tranquilla, accogliente costruzione nella campagna a
pochi chilometri dal centro di Cambridge, un edificio su un solo piano,
di facile accesso. Spesso negli anni 1970 vi giungeva una macchinetta a
tre ruote. Accorrevano professori e ricercatori che aiutavano Stephen
Hawking a scendere e a sistemarsi sulla sedia a rotelle, che poi guidava
nel suo studio. Era appena stato pubblicato il suo libro «The Large
Scale Structure of Spacetime», scritto con George Ellis. In quegli anni
Hawking, nonostante le difficili condizioni di salute, era l’anima della
ricerca internazionale che stava affrontando in modo originale lo
studio della Relatività generale, formulata da Einstein 50 anni prima,
ma rimasta dormiente in attesa di fenomeni su cui sperimentarla.
Nel
1960 l’astrofisica aveva mostrato che l’evoluzione finale delle stelle
doveva portare alla formazione di oggetti densi ad opera della forza
gravitazionale che, non più controbilanciata da reazioni termonucleari,
ne doveva produrre il collasso: stelle di massa vicina a quella del Sole
avrebbero dato origine a stelle di neutroni, una sorta di nucleo
atomico di dimensioni di alcuni chilometri con dentro tutta quella
massa. E nel 1968 al Cavendish Laboratory, a pochi passi dall’Institute
of Astronomy, Jocelyn Bell e Antony Hewish avevano scoperto le pulsar,
stelle di neutroni magnetizzate e rotanti. Era quindi concepibile che
stelle con masse molte volte quella del Sole generassero campi
gravitazionali così intensi da non permettere di arrestare il collasso:
dovevano invece portare alla formazione di buchi neri, abissi senza
fine, in cui tutto viene inghiottito e nulla può più uscirne.
L’astrofisico John Wheeler dell’Università di Princeton li aveva
battezzati con quel nome per indicare che non potevano emettere alcuna
informazione. Uno degli studenti di Wheeler era Kip Thorne, a cui fu
affidata una tesi sul collasso di stelle verso la configurazione di buco
nero. Kip visitò Stephen a Cambridge e tra loro iniziò un lungo
dibattito e una profonda amicizia, con incontri a Cambridge e al Caltech
di Pasadena. Insieme iniziarono a cercare di comprendere come «vedere i
segni» dei buchi neri.
Stephen era essenzialmente un fisico
matematico che cercava nelle equazioni di Einstein fenomeni nuovi, forse
irraggiungibili: i buchi neri, i tunnel gravitazionali e la cosmologia
del Big Bang. Uno dei più interessanti risultati che ottenne negli anni
1970 fu che i buchi neri non sono in realtà così neri, hanno una
temperatura e quindi possono «evaporare», ritrasmettendo energia
all’esterno, diminuendo la propria massa fino a scomparire in un lampo
finale.
Kip era un astrofisico interessato a cercare i segni di
fenomeni esotici che suggeriscono la presenza di buchi neri. Giunse a
proporre che, sebbene la materia nel buco nero sia invisibile
all’osservazione, tuttavia prima di essere inghiottita verrà compressa e
riscaldata. Nel 1970 Riccardo Giacconi con l’osservatorio «Uhuru» aveva
scoperto una sorgente di raggi X nella costellazione del Cigno, le cui
caratteristiche indicavano una massa superiore a quella compatibile con
una stella di neutroni: forse proprio un buco nero. Stephen e Kip fecero
quindi una scommessa. Pur convinto all’80% dell’esistenza dei buchi
neri che così accanitamente aveva studiato, Stephen volle scommettere
(per scaramanzia?) che la sorgente non fosse un buco nero, mentre Kip
era convinto al 100% che si trattasse di un buco nero. Solo nel 1990
nuovi dati convinsero Stephen: pagò a Kip un abbonamento a «Penthouse».
«Ho perso - disse - ma ho la prova che il mio lavoro non è stato
sprecato».
Uno degli obiettivi di Stephen era l’unificazione della
teoria quantistica e della Relatività. All’interno di un buco nero, in
fondo all’abisso, la gravità diventa infinita, si incontra una
singolarità, dove la Relatività è inadeguata e deve essere riscritta,
tenendo conto della meccanica quantistica. Ma non possiamo sperimentare
laggiù le regole della gravità quantistica, perché non possiamo avere
segnali dall’interno del buco nero.
Tuttavia, secondo Hawking, già
avvicinandosi all’orizzonte degli eventi possono avvenire fenomeni
interessanti: fluttuazioni quantistiche del «vuoto», che non è mai
veramente vuoto. Si realizzano in coppie di materia e antimateria,
particella-antiparticella. Una cade nel buco nero, l’altra sfugge
portando via energia: è l’origine dell’evaporazione dei buchi neri da
lui proposta nel 1974. La produzione e annichilazione di
materia-antimateria è caotica e trasforma l’orizzonte in una sfera di
fuoco, un «fireball», con una struttura a due pareti, una interna che
corrisponde all’orizzonte della Relatività e una esterna di scala
determinata dalla teoria quantistica.
Ed ecco che torna in gioco
l’amico Kip che nel 2015 ha guidato l’esperimento «Ligo» di rivelazione
delle onde gravitazionali emesse dalla fusione di due buchi neri. Le
teorie di Stephen saranno infine messe alla prova sperimentale e, forse,
si giungerà all’unificazione Relatività-quantistica, quella su cui i
due sognavano nei prati dell’Institute of Astronomy.