La Stampa 23.3.18
Nellie Bly, più brava degli uomini nei giornali Usa di fine Ottocento
Un saggio racconta la vita della pioniera del reportage investigativo
Si finse pazza per scrivere sui manicomi, nel 1914 partì per la guerra
di Mirella Serri
La fanciulla urla e si divincola prima di essere gettata nella vasca di acqua gelida. Poi è costretta a ingurgitare una sbobba verdastra e viene chiusa a chiave in una sordida stanza. La mattina dopo nel corridoio del Women’s Lunatic Asylum nell’isola di Blackwell c’è una fila di donne legate da un’unica corda: per fortuna Nellie, l’ultima arrivata, è libera di muoversi. A un giovane medico che la tiene sotto osservazione non è sembrata affetta da alcuna malattia. Giusto: sotto mentite spoglie c’è Nellie Bly, la giornalista che denunciando le terribili condizioni in cui vivono le ospiti del manicomio di New York realizza il suo primo scoop per il New York World di Joseph Pulitzer. E taglia anche il traguardo che si era prefissata: il Comune interviene per migliorare la condizioni delle pazienti.
Nellie Bly, il cui vero nome era Elizabeth Jane Cochran, fu la grande creatrice del giornalismo investigativo: per decenni è stata dimenticata e adesso per ricordare la sua vita e le sue opere esce in Italia la prima completa biografia di Nicola Attadio Dove nasce il vento (Bompiani). Il saggio - che ha l’andamento di una vera e propria narrazione - descrive l’impegno sociale della Bly: adoperando una fantasmagoria di travestimenti - cameriera, carcerata, prostituta - Nellie mise a nudo le durezze della vita dei lavoratori di fine Ottocento. Raccontò, per esempio, con toni sensazionalistici ed emotivamente coinvolgenti, il lungo sciopero alla Pullman Palace Car Company di Chicago, l’azienda produttrice di vagoni ferroviari, oppure lo scandalo degli affitti nei quartieri modello per gli operai. Il libro di Attadio ricostruisce in maniera suggestiva anche l’epica vicenda del giornalismo americano, così cinico e spregiudicato, dominato dalla guerra delle tirature tra l’editore e giornalista Pulitzer e William Randolph Hearst, il milionario con il pallino della carta stampata.
Frangettina folta, colletti di pizzo, Elizabeth alias Nellie approdò in una redazione a seguito della drammatica esperienza personale: tredicesima di quindici figli di un facoltoso giudice, perse il padre assai presto. E si ritrovò ad aiutare i fratelli e la mamma. Molto colta e abile nella scrittura non riusciva a trovare un impiego. Dopo aver letto sul Pittsburgh Dispatch un articolo che sottolineava la «naturale inclinazione» di signore e signorine a dedicarsi solo ed esclusivamente ai lavori di casa, protestò con una lettera firmandosi «Orfanella sola». Il direttore le offrì subito un posto. Però la incaricò di redigere i soliti articoli per il gentil sesso, dalla cucina al giardinaggio. Nellie abbandonò la scrivania e se ne andò in Messico per fare la corrispondente. Finita questa esperienza, emigrò a New York. Nella Grande Mela trovò il suo mentore in Pulitzer che intuì le sue capacità. Non solo l’assunse ma nel 1888 l’incaricò di far diventare realtà Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne. Doveva battere quel record. L’inviata speciale visitò Europa, Giappone, Cina, Hong Kong e Sri Lanka. Impiegò 72 giorni e fu la prima donna a viaggiare non accompagnata attorno al mondo.
Nellie divenne un simbolo per l’universo femminile più emancipato e per le suffragette. Provata da tanti avventurosi articoli, pensò di poter fare a meno del giornalismo. Convolata a nozze con un ricco industriale, si tenne lontana dalle rotative. La professione reporter era però una droga. Allo scoppio della Prima guerra mondiale avvertì di nuovo il canto della sirena. Con un gruppo di cronisti, tutti uomini, partì per il fronte russo e serbo e inviò le sue corrispondenze lette da migliaia di persone al New York Evening Journal. Sconvolta dai massacri e dalla ferocia bellica, s’impegnò in campagne per gli orfani di guerra. Era sostenuta da una volontà incontenibile di denuncia e nutriva l’ambizione di sanare con la forza della sua penna le situazioni sociali più estreme.
Per decenni la Bly, morta nel 1922 a soli 57 anni, fu ricordata come l’eroina che aveva gettato un seme capace di germogliare: fu il modello più gettonato di decine di giornaliste d’assalto. Il suo motto era: «Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore e mai lo farò». In molte, di quella «parola», cercarono di seguire l’esempio.
Repubblica 23.3.18
La chimica dell’amore
Liv Ullmann “Caro Ingmar dì a nostra figlia cosa eravamo”
La grande attrice racconta i suoi anni tra i sogni e gli incubi di Bergman “E se tornasse per un solo giorno gli chiederei...”
Intervista di Simonetta Fiori
BERGAMO Davanti all’obiettivo dei fotografi, non sembra a suo agio. Cerca l’espressione giusta, inclina la testa di lato, accenna un sorriso incerto, come le persone che non sanno fingere.
Non si direbbe che questa splendida signora con la maglia rossa, il fisico slanciato da ragazza, abbia alle spalle una quarantina di film, un paio di candidature all’Oscar e un lungo sodalizio con un mito del cinema. Forse perché Liv Ullmann non ha mai indossato maschere, e ancora oggi se ne fa un vanto. «Il mio Stradivari», la chiamava Ingmar Bergman, alludendo al timbro prefetto con cui sulla scena riusciva a esprimere emozioni, angosce, solitudine dei suoi personaggi. Gli occhi sono quelli di sempre, lo sguardo di Marianne in Scene da un matrimonio o di Maria in Sussurri e grida, un azzurro profondo nel quale è possibile leggere ciò che le passa in mente, senza infingimenti. Gratitudine, passione, rimpianto. Quando si incontrarono sul set di Persona – alla metà degli anni Sessanta – lei aveva 28 anni, lui venti di più. La loro storia d’amore è durata cinque anni, l’intesa artistica tutta la vita. Ospite del Bergamo Film Meeting, Liv Ullmann ne parla con la serenità interiore di chi ha fatto un lungo viaggio. E dall’alto dei suoi quasi ottant’anni – li compirà a dicembre - tutto le sembra acquistare una giusta misura, anche il furore d’un genio.
Signora Ullmann, nella sua autobiografia lei ha scritto che siete entrati l’uno nella vita dell’altro troppo presto e troppo tardi. Cosa intendeva?
«È ciò che si pensa sempre quando finisce una storia. E io ho scritto
Changing subito dopo la rottura con Ingmar, più di quarant’anni fa. Oggi tendo a pensare che quello fu il momento giusto. Dal nostro incontro è scaturita un’amicizia destinata a durare tutta la vita, al di là dei nostri nuovi matrimoni».
Cosa non ha funzionato?
«Entrambi avevamo bisogno l’uno dell’altro. Ma Ingmar cercava la madre, braccia aperte solo per lui, senza complicazioni. E io non potevo essere questa figura protettiva perché anche io cercavo comprensione e sicurezza. Lui sognava la donna tutta d’un pezzo; io mi sbriciolavo in mille pezzi se non avevo la sua attenzione».
Questo da cosa derivava?
«Il nostro amore era figlio di una duplice solitudine. Ne soffrivamo entrambi, anche se eravamo già sposati. Non è un caso che a questa condizione esistenziale Ingmar abbia dedicato i primi film da me interpretati, Persona, La vergogna e
Passione. Quando ci siamo conosciuti, per la prima volta abbiamo sentito di avere qualcuno che fosse lì a rassicurarci: “ti ascolto”, “ti vedo”. Ci siamo aperti completamente l’uno all’altro».
Eravate molto simili.
«Sì. Anche ciò che Ingmar ignorava di sé stesso cominciò a vederlo in me, nonostante fossi una donna e molto più giovane di lui. Ma forse vedeva anche quella parte di sé che magari non gli piaceva. E, come uno specchio, io ero sempre lì a ricordargliela. Questa simbiosi psichica è molto evidente nei film che le ho citato prima».
In che senso?
«Io ero lui. Rappresentavo la sua immagine riflessa».
Quanto è durato questo gioco di specchi?
«Già ne L’ora del lupo, il film uscito nel 1968, smisi di essere Ingmar per cedere il ruolo a Max von Sydow, che incarnava tutti i suoi demoni. E io non capivo niente. “Ma cos’è questo? Cosa significa?”, continuavo a chiedere durante le riprese. Il mio sperdimento restituiva la relazione con lui».
Si sentiva sovrastata dai suoi fantasmi?
«Ero già incinta di nostra figlia Linn e pensavo: “Quest’uomo è troppo complicato per me”. Finito il film, me ne tornai a casa, in Norvegia. Ma Ingmar mi inseguì. Andò da mio marito e gli disse: “Io la rivoglio indietro”. E io tornai da Ingmar.
Come vede, i tempi della liberazione della donna erano lontani…». (Liv esplode in una delle sue risate liberatorie, come a disperdere tutti gli incubi del passato).
Vivevate nell’isola di Farö, una sorta di prigione.
«Ingmar costruì intorno a me un gigantesco muro. Amici e famigliari erano vissuti come una minaccia al nostro rapporto. La sua gelosia poteva essere violenta, capace di troncare ogni relazione che potesse mettersi tra noi. Mi sarei potuta ribellare, e non lo feci. E quindi sono stata io costruirmi la prigione, non Ingmar».
Come se ora volesse giustificarlo.
«Per me sono stati cinque anni straordinari. Ho imparato anche dai suoi silenzi. Ho capito che dovevo emanciparmi dalla dipendenza da lui. Certo non avrei potuto resistere oltre perché avevo bisogno di altre relazioni, mentre per Ingmar l’isola era un rifugio. Ingmar stesso era un’isola».
A un certo punto la vostra relazione trovò un equilibrio.
«Fu quando smisi di adorarlo e cominciai a vederlo. A scoprirne le insicurezze. Ad avvertire il suo spaesamento in mezzo agli altri.
Potevo sentirlo dire all’improvviso: “O dio mio, vieni, tienimi la mano”.
Iniziava l’amore più grande, quello che accoglie le ferite dell’altro».
Da dove venivano questi suoi demoni?
«Non so rispondere. Era capace di svegliarsi nel cuore della notte scosso da sensi di colpa, rabbia, ansietà. Oppure l’insicurezza, la paura di non essere protetti: penso ad alcune foto di Ingmar adolescente, l’aria smarrita di chi non ha amici. Il mio istinto era di abbracciarlo, senza troppe domande».
Ma questa fragilità aveva a che fare con i genitori?
«Non lo sapremo mai. Sia il padre che la madre erano persone adorabili. Suo padre era un pastore della chiesa luterana molto sapiente sia nell’arte del racconto che nell’ascolto, qualità ereditate da Ingmar. Ma lui parlava del padre non sempre in termini entusiastici».
Le sue ossessioni finirono per logorare il vostro rapporto. Lei una volta disse che non c’è dolore più grande di essere lasciati.
«Sì, è doloroso sentire una porta che si chiude e sapere che non si aprirà mai più. Io ho avvertito questa sofferenza, ma anche Ingmar l’ha provata. E dopo sarebbe tornato, ma a quel punto era troppo tardi perché avevo già attraversato tutto il dolore e finalmente ero libera. Lui non aveva ancora fatto lo stesso percorso. Ma fu quello il momento giusto per lasciarsi: eravamo ancora in tempo per costruire la nostra splendida amicizia».
Quanto della vostra storia d’amore è stato trasportato in “Scene da un matrimonio”, un film fondamentale per l’educazione sentimentale di più generazioni?
«È il film che ho amato di più tra quelli fatti con Ingmar. Ed è certo quello più vicino alla nostra relazione, anche per la progressiva emancipazione della figura femminile. Però il film non parlava solo di noi, ma delle tantissime coppie che vi si sarebbero identificate. Ed è questa la grandezza di Bergman».
All’inizio del vostro amore c’era stato un sogno.
«“Ho sognato che io e te siamo dolorosamente legati”, mi disse un giorno Ingmar. E fu davvero così.
Siamo stati dolorosamente legati fino alla fine».
Cosa intende?
«Sapevo che Ingmar non stava bene, ma non era così grave. Eppure una mattina di luglio, 11 anni fa, sentii all’improvviso che dovevo correre a Farö. Noleggiai un aereo privato, la prima volta nella mia vita. Entrai nella sua stanza, lui era già assopito. Gli presi la mano e gli dissi alcune cose su di noi, sul nostro rapporto, quanto era stato importante. Non so se abbia sentito, forse la sua anima sì. Sono stata l’ultima persona a vederlo. Ingmar è morto quella notte».
Come se l’avesse aspettata.
«No, non posso dire questo. Ma è stato il dolore a portarmi da lui: non riuscivo a immaginarmi una vita senza Ingmar».
A distanza di tanti anni, ha capito chi era Bergman?
«Un uomo buono che per tutta la vita ha cercato di dare un senso all’esistenza. Lui non amava l’indifferenza tra le persone. Nel Settimo sigillo, quando gioca a scacchi con la morte, il Conte dice: per favore, non portarmi via prima che io abbia compiuto almeno un’azione buona. Questo era Bergman: diceva di non credere in Dio, ma tutto quello che ha fatto è stato il tentativo di trovarlo».
Se tornasse per un giorno soltanto, cosa gli direbbe?
(Liv si commuove, come se vivesse davvero quel momento). «Ti prego, aiutami ad avere uno splendido rapporto con nostra figlia. Siediti con noi, parlale di te e di me. Sono sicura che Linn capirà. Io amo nostra figlia. Ma ci serve una terza persona. E sei tu, Ingmar, la persona giusta».
La Stampa 23.3.18
“Ecco che fine faremo con la religione dell’Io”
Edoardo Leo santone nella commedia di Alessandro Aronadio “Prendiamo di mira questi tempi fatti di cinismo e culto di sé”
di Fulvia Caprara
Sulle prime divieti e imperativi sembrano allettanti, «adorate il vostro io», «ognuno di noi è Dio», «vietiamo il tofu e i sensi di colpa». Attirati da questi nuovi comandamenti, anzi, meglio, «suggerimenti», i seguaci dello «Ionismo» continuano ad aumentare, felici di potersi dedicare senza rimorsi al culto di se stessi. Poi però, qualcosa inizia a scricchiolare. Ed è proprio Massimo Alberti (Edoardo Leo), proprietario del fatiscente bed and breakfast «Miracolo italiano» e ora venerato ideatore della religione dell’egoismo, ad avvertire forte l’incongruenza dei principi su cui sta costruendo la propria fortuna.
Con Io c’è (prodotto da Fulvio e Federica Lucisano con Vision Distribution, e, dal 29, in 350 sale) il regista del premiatissimo Orecchie Alessandro Aronadio torna dietro la macchina da presa per affrontare di petto un argomento spinoso come il bisogno della fede religiosa, declinandolo in chiave di commedia: «Da ateo - spiega l’autore - ho sempre avuto una grande curiosità per il mondo della fede. Sarebbe fin troppo semplicistico, nonché stupido, considerare i credenti soltanto come meri partecipanti di un rito collettivo. In fondo quello che fanno è credere in una storia, un bisogno che riguarda tutti noi».
Senza paura di entrare nel territorio del politicamente scorretto né di urtare radicati tabù («Quando dicevo di voler fare un film sulla fede, mi rispondevano tutti “lascia stare, queste sono cose serie”»), Aronadio, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Edoardo Leo, Renato Sanno e Valerio Cilio, apre il film con una panoramica molto scanzonata sulle diverse religioni: «Abbiamo mantenuto - spiega Leo - un atteggiamento di profondo rispetto nei confronti di chi crede in qualcosa, ma ci colpiscono certe derive che con la fede non hanno niente a che vedere. Per esempio ci ha molto toccato la visione di un documentario dedicato al viaggio che tanti poveri malati fanno, dall’America al Messico, per farsi curare da dottori cialtroni».
Seguaci, con Massimo, del neonato Ionismo, si muovono nel film le figure della sorella Adriana (Margherita Buy), irreprensibile commercialista che nel culto trova la strada della liberazione e quella dell’ideologo Marco (Giuseppe Battiston) che, nella parte del santone predicatore, si sente particolarmente a suo agio: «Mi hanno molto incuriosito - dice l’attore - le potenzialità della storia, il suo lato caustico e amaro, il fatto che la “furbata” inventata da Massimo diventi un obiettivo da perseguire, in modo lucido e anche inquietante». In quanto Paese cattolico per eccellenza, prosegue Battiston, «l’Italia non è mutata nel suo rapporto con la religione. I Testimoni di Geova continuano ad essere considerate persone strane che girano per strada cercando di convincerci di qualcosa, però è anche vero che le sedi di Scientology siano aumentate e con esse gli adepti. In un momento come questo, di forti tensioni religiose, credo ci sia anche stata, grazie alla figura di Papa Francesco, una forma di ravvicinamento al cattolicesimo, nel bene e nel male».
Per Margherita Buy sarebbe impossibile cadere nella trappola dello Ioismo: «Anche se in passato sono andata a cercare qualcosa di diverso in cui credere, no, non penso che potrei cascare in una trappola del genere. Sono abituata alla religione cattolica e quindi all’idea di un Dio non raggiungibile se non a costo di prove difficilissimo. Lo Ioismo, però, potrebbe prendere piede, perché si avvicina parecchio allo spirito di questi tempi».
Con Io c’è l’attrice torna alla commedia: «È gratificante, e anche più rilassante, lavorare in questo tipo di contesti, ne avevo voglia». Alla mobilitazione di «Dissensocomune», inevitabile tema del momento, Buy chiarisce di non essersi sottratta «ma penso anche che ci sarà un’altra occasione per appoggiare questo movimento con cui sono assolutamente solidale».
Repubblica 23.3.18
Il teatro si trasforma in terapia sociale
di Anna Bandettini
C’è più gente che fa teatro di quanta vada a vederlo. Difficile dimostrarlo con dati e numeri, ma nell’ambiente teatrale è una verità nota: compagnie amatoriali, corsi di teatro, psicodrammi… Ma non solo: i medici vanno a scuola di teatro per addestrarsi nella narrazione in modo da saper parlare ai pazienti; per le disabilità spesso il teatro e la danza sono una panacea; a Bassano del Grappa con “Dance Well” si sperimenta il ballo per le persone malate di Parkinson... Sono anni che il lavoro di palcoscenico è utilizzato come “terapia”, dispositivo perfetto per vincere o superare disabilità, blocchi fisici ed emotivi perchè il teatro e la danza, come arti del corpo, lavorano sulla consapevolezza di sé, degli altri, e di se stessi nel tempo e nello spazio. Una esperienza importante in questo senso l’ha fatta, segnando anche un ulteriore passo in avanti, l’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, dove imparare pratiche espressive come autocura. Nato un anno fa esatto a Torino, all’interno del Teatro Stabile, l’Istituto è un progetto di Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, ed organizza laboratori, seminari, “ambienti” dedicati ai cittadini, studenti, lavoratori, migranti invitati di volta in volta a eseguire una serie di esercizi.
L’apprendimento va dalle pratiche della consapevolezza (awareness) all’allenamento all’attenzione attraverso l’azione fisica, vocale, la narrazione e la “Schiera” che è «uno strumento articolato di costruzione della propria presenza e un modo di riflettere sullo spazio e sulle relazioni», spiega Gabriele Vacis.
L’insieme delle attività serve ad ascoltare gli altri e noi stessi.
L’Istituto per la Cura della Persona organizza anche “fine settimana” in cui chiunque può entrare o uscire, guardare o partecipare e un lavoro già avviato con gli studenti di un liceo e di un istituto tecnico torinese avrà anche un esito nello spettacolo Cuore/ Tenebra. Migrazioni tra De Amicis e Conrad che debutterà il 22 maggio allo Stabile di Torino.
Ma non è l’unico risultato: il teatro e la danza infatti non fanno bene solo a noi stessi.
Rafforzano il senso di appartenenza ad una comunità, favoriscono la condivisione di valori con gli altri e dunque la coesione sociale. Chi fa teatro sa accogliere le differenze, tanto che in molti ormai considerano il teatro-terapia e questi esercizi, vere e proprie pratiche di inclusione sociale, perché facendo bene “alla persona” invogliano a voler bene “alle persone”. Dice Vacis: «Più lavoro in questo ambito e più ho l’impressione che il vero teatro sia sempre più questo».
Repubblica 23.3.18
Indice Bertelsmann
Nel mondo 3,3 mld di persone vivono in regimi autoritari
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO, GERMANIA S’avanza il mondo dei dittatori, dei regimi autocratici e dei diritti distrutti. È il terribile bilancio dell’ultima edizione dell’Indice delle democrazie, elaborato ogni due anni dall’autorevole fondazione Bertelsmann. Su 129 Paesi analizzati, ben 58 sono classificati ormai come Paesi retti da sistemi autocratici o dittatori - Cina o Russia ad esempio - mentre 74 sono quelli democratici. Di conseguenza sono ormai ben 3,3 miliardi le persone che vivono sotto il giogo di un capo o di un governo che calpesta le loro libertà. Una situazione senza precedenti, quella tratteggiata dalla Bertelsmann, che sembra confermare l’ormai celebre definizione di Ian Bremmer.
Superata a fatica la crisi economica, il mondo sembra ormai precipitato in una “recessione geopolitica”.
Una tendenza preoccupante, rilevata dagli studiosi tedeschi, è che in molte democrazie si registra la tentazione dei reggenti a limitare le libertà dei cittadini per cementare il proprio potere, una volta conquistata la guida del Paese.
«Quaranta governi, tra cui alcune democrazie avanzate, hanno attaccato lo Stato di diritto, negli ultimi due anni, in altri 50 sono state limitate le libertà individuali», scrivono. E in Europa non c’è neanche bisogno di andare troppo lontano per individuarne almeno tre: la Polonia, l’Ungheria e la Turchia. Ma il rapporto cita persino il Brasile tra i Paesi a rischio.
Le uniche nazioni in cui i diritti e le libertà individuali sono migliorati, nel biennio 2015-16, sono il Burkina Faso e lo Sri Lanka. Nello stesso periodo, in ben tredici Paesi la situazione è peggiorata, tra cui la Turchia o lo Yemen. E in cinque di essi, secondo gli analisti della Bertelsmann, non sono più garantiti i diritti minimi per definirsi delle democrazie: si tratta del Libano, del Bangladesh, del Nicaragua, del Mozambico e dell’Uganda.
il manifesto 23.3.18
A sinistra dopo il 4 marzo
di Alberto Olivetti
Il Senato della Repubblica si compone di 315 seggi. Del doppio la Camera dei deputati: 630. Sono dunque 945 i parlamentari che i cittadini italiani sono chiamati ad eleggere. Nella tornata elettorale dello scorso 4 marzo 2018, gli elettori (si è espresso oltre il settanta per cento degli aventi diritto) hanno conferito ad una lista di sinistra, tra le due camere, sui 945 complessivi, 18 seggi. Altre liste di sinistra hanno ottenuto consensi di gran lunga inferiori al tre per cento, soglia al di sotto della quale non si dà accesso a rappresentanza parlamentare. Il regolamento del Senato richiede un minimo di dieci senatori eletti nella medesima lista a che si possa formare un gruppo parlamentare. Alla Camera debbono essere almeno venti i deputati. Salvo deroga alle regole stabilite, né alla Camera né al Senato, ad oggi, potrà costituirsi un gruppo della sinistra. Molte dichiarazioni, commenti e discussioni stanno animando una riflessione sui risultati ottenuti dalle liste di sinistra. Risultato che è perentorio ed inequivocabile. Sta lì, netto, e parla con l’asciutta, laconica eloquenza dei dati di fatto. Dato di fatto, quel risultato allora, che richiede d’essere tenuto fermamente presente perché non vada sfumato od eluso. Pure avviene in queste settimane, troppo spesso, il contrario. Mi è capitato di prender parte ad alcune discussioni, variamente promosse, con l’intento di procedere ad una qualche ponderata valutazione degli esiti elettorali di quelle liste di sinistra. Ebbene, mi è parso di poter constatare che, la gran parte degli intervenuti che pur dichiarano, in partenza, di voler assumere quel dato di fatto, lo sottopongono subito, invece, ad alterazioni tanto svelte quanto sommarie. Lo manipolano e lo riducono a misura tale da poterlo inserire e rendere compatibile con uno strumentario analitico e con parametri interpretativi precostituiti. Sovente, e senza avvedersene, elaborati interventi costruiscono analisi e interpretazioni che separano e, per così dire, sradicano il dato di fatto dalle sue proprie dinamiche, le reali ed effettive (quelle, appunto, tutte da individuare ed indagare) che lo hanno alimentato e determinato (e non furono previste) per ricondurlo, invece, dentro il metodo e la formula (lo schema e lo strumentario ‘politico’) consueti e adusati. Tale più o meno e diffuso, nell’interlocuzione che mi è capitato di avere in questi giorni dopo il 4 marzo, il modo di procedere ad una analisi dei risultati della sinistra da parte di interlocutori che si dicono di sinistra. È che, analizzare un dato di fatto che contraddice clamorosamente i calcoli, le previsioni e le aspettative che si ritenevano legittime perché, a nostro giudizio, ben fondate nei loro presupposti, vuole dire – né più né meno – che vanno revocati drasticamente in dubbio e verificati proprio i presupposti al rispetto dei quali ci si era attenuti. Considerare ed esaminare il dato di fatto riportandolo a quei presupposti è operare la sua alterazione fino al punto di svisarlo, fino a falsificarlo: è la sicura preparazione d’una nutrita quantità di fraintendimenti. Oltre alle inadeguatezze del metodo, altre debolezze inficiano ai miei occhi i tentativi di adeguata spiegazione dei responsi elettorali del 4 marzo. Tra le altre, una debolezza vistosa riguarda il giudizio storico relativo al ruolo del Partito comunista italiano quale si espresse fino al 1989. Tra chi ha partecipato attivamente alle vicende politiche degli ultimi decenni, affiora di frequente uno stato d’animo propenso a riconoscere, nei deputati e senatori comunisti delle legislature d’un tempo, livelli di cultura, competenze e una attenzione alla cosa pubblica che non sono oggi riscontrabili. Mi ha colpito, in una delle discussioni alle quali ho preso parte, sentir definire in un intervento “nani” gli attuali diciotto eletti, se confrontati ai «giganti» dell’antico Pci. Mi è tornato alla mente il paragone di Bernardo di Chartres relativo agli antichi e ai moderni, al vecchio e al nuovo che, intorno al 1159, Giovanni di Salisbury riporta nel suo Metalogicon: «noi siamo nani sulle spalle di giganti». Un nesso storico di cui la sinistra mostra di non aver alcuna seria politica consapevolezza.
Repubblica 23.8.18
L’analisi
La sinistra sparita dai quartieri popolari
Crollo nelle periferie e nei piccoli centri
Grandi città e alta borghesia così il Pd ha cambiato classe
di Lavinia Rivara
ROMA Trovare la sinistra non è poi così difficile, la sua casa è ormai in zone molto illuminate, nei quartieri borghesi dei grandi centri urbani, dove la sera si può uscire e vive la classe dirigente. Più difficile scovarla nell’hinterland delle città, nei sobborghi semiperiferici abitati da lavoratori dipendenti, operai, artigiani, laddove un tempo aveva il suo zoccolo duro. Sparita del tutto al sud, nelle borgate e nella provincia dove la disoccupazione morde giovani e famiglie, la convivenza con gli immigrati è difficile e la sera non si gira tranquilli. È la fotografia della sinistra scattata col voto del 4 marzo, dove i migliori risultati del Pd sono tutti nei centri storici di Milano e Torino, nei quartieri bene di Genova, Bologna, Roma, Napoli e Bari.
I dem soffrono soprattutto in periferia: scendono sotto il 17 per cento, sopra i 100 mila abitanti risalgono attorno al 20 per cento, sfiorano il 30% in coalizione quando si superano i 300 mila abitanti, come rileva una analisi di Andrea Maccagni per Youtrend.
Ma la geografia del voto è anche quella del disagio sociale e delle disuguaglianze. Se è vero che il Partito democratico ha perso oltre 2 milioni e mezzo di voti rispetto al 2013 e quasi cinque rispetto agli 11 milioni delle Europee 2014, il calo non può che riguardare un po’ tutte le fasce sociali, ma colpisce «come il consenso si sia ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storica componente del blocco sociale di centrosinistra… un cambiamento di portata comparabile al dissolversi delle zone Rosse», scrivono Matteo Cavallaro, Giovanni Diamanti e Lorenzo Pregliasco nell’instant book Una nuova Italia (Castelvecchi). Nel settore privato però non va affatto meglio. «Il picco più basso del Pd in questa fascia di lavoratori, 16%, è il più basso tra le categorie produttive e, specularmente, il più alto per i 5Stelle, dove tocca il 37%» dice Pregliasco.
Ecco la mappa del voto.
Nei due comuni più ricchi della Lombardia, Basiglio e Cusago,
nel milanese, con un reddito medio annuo rispettivamente di 43 mila e 36 mila euro, il Pd prende poco più del 21%. Ma nei due più poveri, nel comasco, la musica cambia: a Val Rezzo dove il reddito si ferma a 6 mila euro la percentuale dei dem è addirittura l’un per cento, a Carvagna (5.470 euro) siamo all’8,8%. A Milano nel primo municipio (centro storico), con un tasso di laureati che si aggira attorno al 30% contro l’11% della media, i dem superano il 30%, in coalizione addirittura arrivano al 49, grazie all’ottima performance di +Europa. Ma nell’estrema periferia di Quarto Oggiaro il Pd precipita al 19,6%.
A Torino il quadro è simile. Nel collegio uninominale 01 della Camera del centro e della Collina il centrosinistra sfonda quota 40%, i dem sono al 28,5 e Leu al 6,5.
Anche a Mirafiori tengono bene attestandosi al 27 per cento. Ma nei quartieri periferici, alle prese coni immigrazione e crisi industriali, compreso quello più problematico di Barriera di Milano, il Pd scende al 22,2. Così in provincia: a Pino Torinese, 37 mila euro di reddito, i dem sono al 28%; a Ribordone (13 mila euro)si scende fino al 12%.
Nel quartiere borghese di Castelletto, a Genova il centrosinistra è al 38,4%, il Pd al 24%. Percentuali solo leggermente inferiori nelle altre zone “bene” come Carignano e Abaro. Ma a Borzoli, quartiere dove coesitono problemi socio economici e ambientali il Democratici piombano dal 35% del 2013 al 21%, mentre i 5Stelle toccano il 49%.
Qui però va bene Leu, con il 7,4.
Ma non c’è solo il malessere sociale, dice Fabio Bordignon, politologo dell’università di Urbino: «I tassi di disoccupazione non sono l’unica spiegazione del trionfo 5Stelle, specie al sud.
Conta anche l’insoddisfazione sul funzionamento della democrazia.
Dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi il Pd è il partito che ha incarnato il sistema. Le classi sociali in maggiore sofferenza non lo votano più perché rappresenta il potere, il governo, il sistema appunto, contro cui prevale una spinta radicale di protesta».
E veniamo a Bologna, città rossa per eccellenza. Il Pd resta il primo partito pur perdendo un terzo dei voti rispetto al 2013. Ma anche qui la performance migliore è nei quartieri alti (Irnerio, Galvani, Malpighi) dove il calo oscilla tra il 4 a l’8% e dove Leu fa i suoi migliori risultati, tra il 10 e l’11%. Il crollo fino a 16 punti invece si registra nei quartieri più popolari (San Donato, Bolognina, Lame).
Tralasciando l’isola felice di Firenze (43,2%) e l’area metropolitana dove il Pd conquista ovunque percentuali molto alte (il minimo è il 32% a Campi Bisenzio, il massimo è il 48% a Fiesole), a Roma, anche se le cifre scendono, il partito tiene nel collegio Centro-Trionfale e Parioli-Trieste (28%), le zone più agiate della città. Poi si scende man mano che ci si addentra nella grande periferia: il 20% nei quartieri piccolo-borghesi di Labaro-Prima Porta, 17,6% nei più popolari Tiburtino, Prenestino, Torre Angela.
A Napoli se ci si lascia guidare dal tasso di occupazione, intorno al 40% nei rioni bene di Chiaia, Vomero, Posillipo i dem conquistano dai 24 ai 27 punti. Ma a Scampia, lì dove la quota di chi ha lavoro si dimezza, non si arriva al 9%, a San Pietro a Patierno neanche al 7. Nei comuni più ricchi della provincia, come Capri (reddito medio 17mila euro) il partito è al 19,3; a Casola dove l’imponibile non supera i 5 mila euro si precipita al 3,5.
Più si scende al sud più salgono i 5Stelle e calano i Democratici. A Bari prendono il 16% e il miglior risultato è nel seggio di Poggiofranco, una delle zone più facoltose: 200 voti al candidato Pd 190 ai 5Stelle 11 a Leu, 194 a FI. Nei quartieri più difficili e marginali quasi non esiste.
Nella terra del trionfo a 5Stelle, la Sicilia, i dem toccano il 15% a Palermo solo nel quartiere agiato e centralissimo della Libertà, nel famigerato Zen si crolla al 4,3%.
Nella aree di crisi, come Gela, è al 9,5% a Vittoria al 7,2. Un dato in controtendenza è quello di Campofelice di Fitalia, dove il reddito medio non arriva a 11 mila euro eppure il Pd è al 21,5. Ma si tratta di uno dei centri più isolati della Sicilia, 500 anime, strade impraticabili per arrivarci, un paese che muore. Vorrà dire qualcosa?
Repubblica 23.3.18
Come recuperare l’elettorato
Il senso del sud per la sinistra
di Nadia Urbinati
Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: « Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità». L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo. Con le dovute proporzioni, la sinistra del dopo 4 marzo dovrebbe saper vedere nella caduta un’opportunità. Altre volte in passato, la riflessione su “che cosa è andato storto” è stata fondamentale. È evidente che saper leggere implica avere dei criteri di giudizio come antenne; solo così la sconfitta si può fare opportunità.
La questione della rappresentanza sociale — dello schierarsi con chi — è una di queste antenne: la sinistra ha la missione di partire dalla condizione di chi sta peggio per poter correggere in positivo i rapporti sociali. In Italia, questa condizione è propria di alcune fasce (giovani e vecchi) e aree geografiche (il Sud). Ma non basta censire la mancanza cronica di lavoro e una vita di espedienti ( non sempre legittimi) come fanno gli scienziati sociali. Occorre sentire quei problemi e le loro implicazioni, poiché la politica è vicina alle emozioni che guidano le azioni. E un partito deve saper progettare le azioni, non solo dei pochi che lo dirigono, ma soprattutto dei molti che lo seguono o lo votano.
Pensiamo alla “ questione meridionale” che molta parte della dirigenza della sinistra sembra aver lasciato cadere, consolandosi col dire “basta ai piagnistei”, ci si “ rimbocchi le maniche”, “ l’Italia è ripartita”. Pochi anni fa, Roberto Saviano obiettò su questo giornale che quello del Sud «è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del va tutto bene » . Il Sud come “ palla al piede” che deturpa l’immagine di un’Italia che riparte: in anni recenti, questo è stato il sentire della sinistra. E l’abbandono del Sud è stato reciproco, un divorzio. La quasi scomparsa della sinistra era una sconfitta annunciata. Che lo si sia visto dopo, questo è il problema.
Alle origini del fascismo, Antonio Gramsci scriveva che la classe politica era fatta di “dilettanti” che si preoccupavano di eliminare dalla vista ciò che ostacolava il cammino, preferendo magari usare il piglio autoritario: « Non hanno alcuna simpatia per gli uomini [ che soffrono]... Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano » . E intanto, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fanno del Sud un’incognita. Una storia eterna.
La “questione meridionale” non è così misteriosa e neppure una “ palla al piede”: mostra come con una lente di ingrandimento la disgregazione sociale, lo sfarinamento delle forze associative, che sole possono attivare protagonismo, e opporre una politica di programmi a una di promesse assistenziali. La condizione del disagio deve poter stimolare il sentire per meglio orientare il comprendere.
Ritornare a riflettere sulle politiche sociali, per abbandonare i piccoli stratagemmi elettorali della monetarizzazione del bisogno, per riprendere la via del rilancio di politiche per l’occupazione. E collegarsi con le altre forze della sinistra europea per riportare al centro la condizione di chi è penalizzato dalla globalizzazione. E intanto, aprire le sezioni e ogni luogo di incontro per dare voce a chi è restato ai margini, e rimettere in funzione i radar; tornare a leggere un Paese del quale si sono perse le tracce. Non può essere il premio David di Donatello a farci capire che il Sud c’è e non è una “palla al piede”.
il manifesto 23.3.18
Domani saranno 74 anni dall’Eccidio delle Fosse Ardeatine, la strage simbolo dell’occupazione nazifascista a Roma e uno dei momenti fondativi della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza Partigiana in nome di un futuro di uguaglianza e libertà
Domani saranno 74 anni dall’Eccidio delle Fosse Ardeatine, la strage simbolo dell’occupazione nazifascista a Roma e uno dei momenti fondativi della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza Partigiana in nome di un futuro di uguaglianza e libertà. 335 vittime rastrellate ed uccise dagli occupanti nazifascisti. 335 vittime di rappresaglia, testimonianza eterna della barbarie della dittatura e del sacrificio per la nostra libertà.
Scolpite nella memoria collettiva di questa città, nei portoni dei palazzi, sui muri lungo le strade di Roma continuano a parlare di una storia che è parte di ognuno di noi e da qui, da Roma vogliamo ripartire: da questa città “ribelle e mai domata” che non può dimenticare per non smettere di lottare per un futuro migliore.
Non sappiamo quando ci sarà un governo in carica, ma sappiamo su che terreno si è giocata la partita elettorale nel corso degli ultimi mesi. La difesa dell’italianità e le tante dichiarazioni sul ritorno del fascismo in Italia sono stati gli argomenti su cui ogni opinione sembrava ammissibile: dalle evocazioni fantasiose di una guerra di conquista in Libia alle dichiarazioni grottesche sulla difesa della Razza, fino alla nostalgia delle “buone opere” di Mussolini, abbiamo attraversato settimane di dibattito delirante sulla Storia del nostro paese.
Il grande spettro della sostituzione etnica è diventata la carta migliore per conquistare voti mentre la cronaca quotidiana non ha smesso un attimo di raccontare una paese in preda a un’ossessione paranoica, dove non sono mancati assassini xenofobi, sparatorie, attacchi incendiari contro le comunità musulmane; dopo la tentata strage di Macerata abbiamo visto però un’insurrezione democratica che ha restituito dignità, mandando un messaggio chiaro al panorama ingessato della politica italiana con un corteo di decine di migliaia di persone.
A Roma lo spettro della paura xenofoba lavora di nuovo da tempo: qua sono tornate a fare campagne razziste le formazioni fasciste vecchie e nuove che si propongono come soluzione ai conflitti della città, qua è sbarcata la retorica salviniana ripulita dal disprezzo per “Roma Ladrona” o la fobia del degrado che fomenta la guerra agli ultimi in nome del decoro.
A Roma si sperimenta da tempo ormai una città chiusa, che respinge i rifugiati, sgombera gli spazi di solidarietà e sceglie la strada dell’esclusione di fronte alla povertà.
Come in questi mesi che abbiamo trascorso, ancora più oggi abbiamo bisogno di ridare voce all’umanità e costruire Resistenza quotidiana. Riaffermare dal basso l’identità di Roma, città antifascista, libera e ribelle. Tornare a scegliere, parteggiare, organizzare una risposta. Questo 24 marzo dobbiamo scrivere una pagina diversa. I tempi bui che ci apprestiamo ad attraversare ce lo impongono. Questo 24 marzo deve diventare non solo un’occasione di memoria, ma anche una rivendicazione di identità.
Roma ed i suoi quartieri sono antifascisti. Tanti suoi figli e figlie scelsero di rischiare la vita nella speranza di un mondo più giusto, nella difesa estrema della libertà. Oggi sta a noi raccogliere quella speranza e farcene carico. Dalla memoria antifascista alla coscienza dei tempi che arrivano, il prossimo 24 Marzo torniamo nelle strade per il ricordo di quello che è stato, per i 335 semi di libertà che le Fosse Ardeatine hanno seminato in questa città e per unire storie diverse nella storia di questa città di fronte alla barbarie che incombe.
***Coordinamento studenti Roma Sud
Aderiscono e promuovono:
Action Diritti in Movimento; Anpi Comitato Provinciale Roma (Anpi Roma); Anpi “Marco Moscati – Salvatore Fagiolo” di Albano Laziale e Castel Gandolfo; Anpi Martiri delle Fosse Ardeatine; Anpi Renato Biagetti;Ape Roma; Associazione Proletari Escursionisti Sezione di Roma; Baobab Experience; Brigate di Solidarietà Attiva – Roma; Casetta Rossa Spa; Centro Anziani Casale Ceribelli; Collettivo Autorganizzato Mamiani; Collettivo Autorganizzato Virgilio; Comitato Parco della Torre di Tormarancia; Comitato Parco Giovannipoli; Collettivo-Politico Galeano (Liceo Socrate); Collettivo Brancaleone (Istituto Rossellini); Csa Astra; Csoa La Torre (Iniziative Csoa La Torre); Cso Ricomincio Dal Faro; Esc Atelier; Il Centro Ararat; Loa Acrobax; Lucha y Siesta; Madri Per Roma Città Aperta; Nessun Dorma; Ortincomume; Potere al Popolo Castelli Romani; Potere al Popolo Roma – Municipio 8; Progetto Degage; Sapienza Clandestina; ScuolediRoma.info; Sezione “Luigi Longo” Tormarancia; Villetta Social Lab
Repubblica 23.3.18
Le false verità sulle Fosse Ardeatine
di Corrado Augias
Caro Augias, le invio un ricordo in versi sull’eccidio delle Ardeatine nella speranza che aiuti a non dimenticare le date tremende del 23 e24 marzo 1944. Ho ritrovato questi versi scritti con sdegno quando Erich Priebke fu estradato a Roma dall’Argentina. Mi lega al 23 marzo il ricordo dell’esplosione di via Rasella. Io e le mie due sorelle bambine eravamo per mano a mia madre tornando da piazza Verdi. Stavamo per attraversare via del Tritone quando il boato ci lasciò sgomente.
Svicolammo fino a casa in piazza Grazioli. Poi ci fu un grande silenzio e dopo tre giorni si seppe del massacro.
La ritorsione tedesca non si fece attendere. L’episodio della bomba e della strage è indimenticabile. Ripenso con orrore al fatto che anche mio padre era stato a Regina Coeli perché denunciato da un collaboratore infido che si scoperse appartenere all’Ovra: un’ingiustizia tra le molte.
Francesca Boesch - Roma
Pochi versi iniziali dal componimento della signora Boesch dove indignazione e dolore prevalgono: Sono passati settant’anni e più/ Da quel giorno sinistro dell’eccidio./ Un tempo lungo per dimenticare/ ma insufficiente a sbiadirne memoria./ Uomini ignari, prelevati a caso,/ dal carcere dov’erano: o da casa/ per scontare la vendetta del Reich/ che, implacabile, giunse:/ e non seppero, fino a quell’istante/ se andassero a morire — Né il perché ».
L’attentato di via Rasella e il successivo massacro delle Fosse Ardeatine è uno dei pochi episodi della guerra e della Resistenza dove la vulgata neofascista è riuscita ad avere una certa circolazione e conseguente credibilità. Sostanzialmente si riduce alla considerazione che se gli esecutori materiali dell’attentato si fossero consegnati agli occupanti nazisti, il massacro si sarebbe evitato. È una versione di comodo che ignora circostanze e tempi in cui i fatti si svolsero: i tedeschi infatti dettero l’annuncio del massacro solo a operazione conclusa. Il colonnello Kappler aveva radunato i suoi uomini comunicando che entro poche ore 320 persone dovevano essere fucilate, che bisognava fare in fretta e tenere segreta l’operazione per evitare una possibile insurrezione. I dettagli, ancora oggi mal conosciuti, dicono in quali condizioni i carnefici dovettero compiere la strage perché uccidere uno dopo l’altro 335 uomini con un colpo alla nuca è un macabro e feroce “lavoro” di ore. Gli aguzzini dovettero essere confortati con abbondanti razioni di alcol, bisogna immaginare quale orrendo volume rappresentano i cadaveri di centinaia di persone via via uccise nel soffocante dedalo di quelle gallerie. Dopo alcune ore, i poveri condannati dovevano inerpicarsi sulle salme già riverse per essere a loro volta abbattuti. Nel conto che dieci italiani dovevano essere uccisi per ogni tedesco morto, finirono cinque vittime in più perché gli uomini del capitano e criminale di guerra Erich Priebke avevano sbagliato a fare i conti. Le Fosse Ardeatine rappresentano una delle più imponenti stragi di civili dell’ultima guerra. Requiescant.
il manifesto 23.3.18
Per milioni di cittadini la sinistra ha tagliato il welfare
Dopo il voto. In Europa, nelle sue varie forme, ha percentuali a due cifre, e in alcuni paesi è al governo. In casa nostra è stata dilaniata. Come tentare di ripartire
di Luigi Pandolfi
La povertà come volano per l’economia dell’export: un modello sociale che «valorizza» le disuguaglianze nei processi di elevazione della competitività, rovesciando il paradigma che stava alla base del vecchio «modello sociale europeo».
La crisi economica che ha scosso il capitalismo mondiale tra il 2007 e il 2009 ha dato una nuova base «oggettiva» alle politiche di smantellamento del welfare state e dei diritti dei lavoratori, che, nel nostro Paese, erano iniziate già vent’anni prima. L’Italia è entrata nella crisi con un’economia in declino e ne è uscita con una società ancora più diseguale, riorganizzata in funzione del modello neo-mercantile che la Germania ha imposto, con successo, a tutta l’Europa.
È stata una rivoluzione, che non ha visto come protagonisti gli operai, i «ceti subalterni», per dirla con Gramsci, ma il capitale, per mezzo dei governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Una storia che chiama direttamente in causa la «sinistra di governo», in larga parte erede del Pci, la più determinata, la più cinica, la più arrogante, nel portare avanti la rivoluzione neoliberista.
Oggi, per milioni di cittadini, sinistra è sinonimo di contratti flessibili, di licenziamenti facili, di lavoro a termine, di pensione a settant’anni, di ticket sanitari, di aiuti alla scuola privata, di privatizzazioni. Quante volte abbiamo sentito dire negli ultimi anni, ed anche nella recente campagna elettorale, «la sinistra ci ha rovinato»? Sì, certo, il Pd non è più un partito di sinistra, a sinistra c’è anche chi si è opposto a tutto questo, ma, come il dato delle elezioni del 4 marzo ha dimostrato, non è bastato per riscattare l’onore della parola.
Eppure, se il discrimine tra destra e sinistra rimane, per dirla con Bobbio, «il diverso atteggiamento di fronte all’ideale dell’eguaglianza», come si può decretare la morte della sinistra in un paese dove l’1% più ricco dei suoi abitanti possiede una ricchezza 240 volte superiore a quella detenuta dal 20% più povero e conta 10 milioni di persone sotto la soglia di povertà?
La soluzione non può essere la flat tax di Salvini, né la flexsecurity di Di Maio. Due proposte di «sistema», a dispetto del racconto di chi ne è portatore. Ma l’inganno si è consumato: la gran parte di quei dieci milioni di poveri ha scelto la Lega e il M5Stelle, mentre la sinistra si divideva nello stesso recinto, per spartirsi le spoglie di un elettorato sempre più esiguo.
Perché tanti operai, disoccupati, casalinghe, pensionati al minimo, hanno preferito il partito della flat tax alla sinistra del welfare universalistico e dei diritti sociali? Forse perché era temperata con lo slogan «prima gli italiani»? No. Più verosimilmente, perché chi prometteva welfare e diritti non era più credibile, avendo contribuito al loro picconamento fino al giorno prima, oppure era percepito come qualcosa di estraneo al sentire popolare, nonostante il nome che portava.
Da un lato un’operazione grigia e politicista, dall’altro una scapigliatura, con tratti di freschezza, certo, ma appoggiata sulle «gambe anchilosate e affaticate», parafrasando Pirandello, di piccolissime formazioni residuali della sinistra radicale, comunque accomunate, nell’immaginario collettivo, al resto della «sinistra che ci ha rovinato».
È il caso italiano, che è diverso da quello di altri paesi europei. In Grecia e Portogallo la sinistra è al governo, in Francia e Spagna ha percentuali a doppia cifra, come in Irlanda, mentre il nuovo Labour inglese potrebbe addirittura vincere le prossime elezioni politiche. Pur con differenze significative tra Est ed Ovest, la sinistra è viva ed influente in Germania, resiste in alcuni Paesi dell’ex blocco socialista.
Parliamo di sinistra d’alternativa, affermatasi sull’onda della crisi economica e delle socialdemocrazie, che ha saputo interpretare il malessere di larghi strati della popolazione, impedendo che lo stesso defluisse tutto a destra, verso lidi populisti, xenofobi, neofascisti.
Sinistre popolari, capaci di fare politica, in un momento storico difficile, dove il tema all’ordine del giorno non è il socialismo, ma la ricostruzione delle reti di protezione sociale e degli spazi di democrazia che la rivoluzione conservatrice ha distrutto in questi anni. Il tempo è quello di conquistare «fortezze e casematte», non quello di assaltare il Palazzo d’Inverno. Di raccordare lotte sociali e rappresentanza istituzionale, di avviare poche e significative campagne su temi di maggiore impatto sociale (lavoro, sanità, pensioni).
Manca un tassello, però. Il punto da cui ripartire. Le urne sono state spietate con le due principali proposte in campo. Con un paradosso: Leu ha eletto un pugno di parlamentari ma non esiste come soggetto politico; Potere al Popolo non ha eletto parlamentari, ma esprime, a suo modo, maggiore vitalità. Non è da queste due debolezze, in ogni caso, che si può ripartire, ma entrambe (penso più alla base, agli elettori, che ai leader) potrebbero essere parte di un progetto più ampio, che non potrà nascere sedendosi a tavolino, ma sparigliando, dal di fuori.
il manifesto 23.3.18
Le scuse di Zuckerberg non bastano a rimediare
Facebook. Il social network resta nella bufera dopo lo scandalo Cambridge Analytica. Titoli ancora giù a Wall Street, tra gli inserzionisti in fuga anche Mozilla
di Marina Catucci
Dopo 5 giorni di silenzio Mark Zuckerberg ha rilasciato un’intervista alla Cnn dichiarando «Abbiamo fatto degli sbagli», un deciso cambiamento di rotta rispetto alle sue dichiarazioni all’indomani delle presidenziali Usa, quando aveva definito l’ipotesi che la diffusione di fake news su Facebook avessero influito sul risultato del voto «un’idea decisamente folle».
Alla Cnn, invece, Zuckerberg ha giocato la sua miglior faccia pulita, bisogna fare un mea culpa e cercare di rimediare, ha spiegato: «È difficile. Non saprei dire con certezza ma c’è molto lavoro da fare per rendere più complicato per nazioni come la Russia interferire nelle elezioni, impedendo ai troll e ad altri di diffondere fake news».
E ha lanciato un allarme: «Vogliono usarci per influenzare ancora il voto – ha detto il fondatore di Facebook – Lavorano a nuove tattiche in vista delle elezioni di midterm».
Tutta la strategia comunicativa del 33enne Zuckerberg è mirata a rassicurare, salvare il salvabile e cercare di ricostruirsi un’immagine, ma probabilmente ci vorrà molto di più; i titoli di Facebook continuano a scendere, il New York Times ha pubblicato una guida su come cancellare il proprio account Facebook, gli inserzionisti minacciano di abbandonare il social network.
Chi ha già sospeso le sue campagne pubblicitarie su Facebook è stata l’organizzazione non-profit Mozilla, che sviluppa il browser Firefox, dichiarando:« Se giochi, leggi notizie o fai dei quiz su Facebook, è probabile che tu stia facendo quelle attività tramite app di terze parti e non attraverso Facebook stesso. Le autorizzazioni predefinite che Facebook offre a quelle terze parti attualmente includono i dati della tua formazione e lavoro, la città corrente e i post sulla tua cronologia».
Intanto gli stati di New York, Massachussetts e New Jersey hanno avviato indagini su Cambridge Analytica, questo oltre al governo britannico, al team di Robert Mueller, al dipartimento di Intelligence della Camera e quello del Senato Usa.
La Bbc ha rivelato che dal canto loro gli inserzionisti britannici hanno affrontato la questione in una riunione speciale dell’organismo che rappresenta le maggiori agenzie pubblicitarie nel Regno Unito, l’Isba; la conferma che «la minaccia di passare ad altre piattaforme non è un bluff» è arrivata dal capo di M&C Saatchi, David Kershaw, che ha fatto capire che accorate scuse non bastano.
«Dal punto di vista dei consumatori – ha detto Kershaw – i social network restano un servizio straordinario in cambio del quale tu condividi i tuoi dati. Ma credo sia un accordo che la maggior parte dei consumatori accetta solo finché quei dati non vengono fatti oggetto di abuso, come accade ora».
Il Fatto 23.3.18
Caso Facebook, Il nuovo segreto di Pulcinella
di Roberto Faenza
Scoprono gli scandali quando i buoi sono scappati dalla stalla. Le notizie che in queste ore hanno investito Facebook e gli altri social hanno aperto una voragine. Le anime candide la scoprono solo ora. Non sapevano di traffici ancora peggiori? I guai sono iniziati anni fa quando alcune case farmaceutiche, entrate in possesso di dati sensibili che ci riguardano, hanno costruito immense banche dati del nostro vissuto. Una volta che queste informazioni vengono registrate nei loro archivi, non ci appartengono più. Fare norme per proteggere la privacy è pia illusione, anche se la raccolta si ammanta del ruolo di “ricerca a scopo scientifico”.
Tempo fa Jessica Hamzelou, giornalista specializzata in scienze mediche, ha raccontato su New Scientist che la multinazionale 23andMe possiede informazioni riservate di milioni di persone, senza che lo sappiano. Per farne che? Per venderle al migliore offerente. Altro che “fini politici”, come nel caso odierno di Facebook. Nessuno al mondo, lo spiega John Perry, scienziato genetico all’Università di Cambridge, è in grado di reclutare tanti dati personali. Sanno di noi tutto, dai gusti alimentari sino alle nostre tendenze sessuali. Una parte viene resa nota ai ricercatori scientifici, “ma i rapporti con le case farmaceutiche sono molto più redditizi”. Veniamo così a scoprire che le nostre informazioni sono immesse sul mercato a chi le paga di più.
Vogliamo parlare di cifre? La rivista Forbes ha scoperto che la Genentech, altra multinazionale delle biotecnologie (con ramificazioni anche in Italia) “ha pagato 60 milioni di dollari per avere l’intero genoma di 3 mila clienti della 23andMe”. Fate un po’ di calcoli, moltiplicate per milioni di profili e vedrete quanti miliardi incassano. Domanda: perché a guadagnare è solo chi si arricchisce grazie ai nostri dati? Se proprio non vogliono riconoscerci un equo compenso, diciamo 50%, almeno una piccola percentuale neppure? Nessuno si pone questi quesiti, ma lo scandalo Facebook dovrebbe aprirci gli occhi. Cambridge Analytica, di cui si parla ora, ha fatto lo stesso: ha venduto milioni di profili, utilizzati durante la campagna presidenziale per far prevalere Trump sulla Clinton.
Secondo me è uno scandalo di portata più devastante del Watergate, che nel 1972 segnò la caduta di Nixon. Là c’era lo spionaggio, qui c’è il furto di identità di milioni di cittadini, i quali ingenuamente hanno consegnato vita, morte e miracoli personali a compagnie da cui sarebbe meglio stare alla larga. Mi sorprende che il mondo si sia stupito solo ora, quando è da anni che sappiamo una scomoda verità: i social network cedono i nostri segreti persino alle agenzie di spionaggio. Lo ha dimostrato Julian Assange, allorché fece divampare Wikileaks, evidenziando come l’intelligence di mezzo mondo registri le nostre conversazioni, mail e quant’altro. Alle sue rivelazioni, sono seguite quelle dell’ex agente Cia, il giovane Edward Snowden.
Eppure già nel 2016 si era saputo, dagli atti del Comitato del Congresso americano, come Facebook avesse venduto 100.000 dollari di spot elettorali a una compagnia legata al Cremlino, in occasione delle elezioni presidenziali americane. Trump “ha pagato 15 milioni di dollari a Cambridge Analytica (eccola tornare), per profilare e targetizzare milioni di americani”, carpendo da Facebook i loro profili. È di queste ore la notizia che sia Obama che la Clinton hanno fatto altrettanto, lui nell’elezione del 2012, lei nel 2016. Ha ragione un giovane commentatore di laggiù, Will Oremus, quando scrive che “il vero scandalo non è quanto ha fatto Cambridge Analytica, ma che Facebook l’abbia reso possibile”. Infatti, commentando le elezioni del 2016, Newsweek ha scritto che i big della rete “hanno usato i dati personali di milioni di persone per manipolare le notizie e influenzare il voto”. Chissà quando smetteremo di affidare a simili malandrini il nostro privato.
La Stampa 23.3.18
Silvio mette in trappola i due vincitori
di Lucia Annunziata
Per diciannove giorni esatti, due uomini, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno girato l’Italia in lungo e in largo, in un tour della vittoria, raccontando a tutti di aver vinto le elezioni. Intessendo intorno a questo concetto un racconto fatto di emozioni («saremo sempre fedeli a chi ci ha scelto») e parole d’ordine («nulla sarà come prima») che ha rapito anche le migliori menti nella seduzione di una idea - l’inevitabilità di un governo Lega-M5S, dannazione, disperazione, entusiasmo, come preferite, in Europa, in Usa, in Russia.
Ma, come nelle favole, a 24 ore dall’inizio della prima scelta che avvia la strada per formare un esecutivo, tutto svanisce, e i due uomini, Salvini e Di Maio, come la ragazza che porta la ricottina al mercato, scoprono che la vittoria nelle urne è stata solo un rapido sguardo riflesso in uno specchio. Avevano fatto un accordo che contentava entrambi: al primo la presidenza del Senato, al secondo la presidenza della Camera. Intesa viatico di un futuro accordo di governo.
Salvo scoprire che per fare un governo ci vuole ben altro dei voti fin qui raccolti, e molto molto altro che una semplice somma numerica.
È bastato che si rialzasse dal suo dispiacere il vecchio leone della politica italiana, per scompigliare ogni progetto.
Nelle prime ore dopo i risultati sembrava morta, Forza Italia. Vergognosa, schiacciata dal sorpasso inflittogli dalla Lega. Poi, tre giorni fa l’arrivo a Roma di Silvio Berlusconi.
A differenza degli altri leader che hanno solo partiti, il Cavaliere può contare anche su una poderosa macchina che ha costruito negli anni, e che, sebbene sminuita di peso, schiera un’ampia articolazione di ruoli e intelligenze, come Ghedini e Letta, giornali e televisioni, relazioni istituzionali e fedeltà consolidate. Fili sono stati tirati da questa macchina, progetti sono stati abbozzati. Discreti approcci, telefonate, amicizie riascoltate, una tela è stata sistemata, a Roma, per provare a rimettere l’esuberanza salviniana in un progetto logico. Un richiamo al realismo di un accordo: alla Lega l’incarico di governo, a Forza Italia la presidenza del Senato. Carica, quest’ultima da non sottovalutare, essendo la seconda dopo il Presidente, e la guida della più incerta delle ali del Parlamento, dove le maggioranze sono più ristrette e dunque più decisive.
Come mai questo ovvio accordo fra alleati non fosse stato definito finora, è una domanda superflua. La matematica anche in politica è una scienza esatta: un Salvini in uscita dalla coalizione con Forza Italia, per fare un governo con i Cinquestelle sarebbe stato il leader di una forza politica del 18 per cento che si univa a una forza politica con il 33 per cento. Un progetto suicida per se stesso e per tutta la destra.
L’accordo con i Cinquestelle era dunque, dopotutto, solo un po’ di scena, da parte di Salvini, per spingere la coalizione ad assicurargli l’incarico di fare il governo.
E per rendere nullo ogni accordo fin qui fatto tra Lega e Pentastellati non è stato nemmeno necessario fare una telefonata o mandare una nota: per Di Maio una cosa è giocare con Salvini, altro è allearsi con Berlusconi. L’intesa che doveva sconvolgere l’Italia si è rivelata alla fine solo un classico «teatrino» politico.
Potremmo persino felicitarci per questa lezione di realismo che scuote tutti ancora prima dell’insediamento del nuovo Parlamento. Se non fosse che ora sul tavolo non rimane uno straccio di idea su future maggioranze. Il Pd ex partito di governo oggi disorientato, diviso, è senza una strategia. Certo non gli sarà facile accodarsi a un centrodestra unito; d’altra parte non è nemmeno pronto a costruire un rapporto con l’acerrimo nemico M5S. In ogni caso, la lacerazione interna, dopo la sconfitta, lo tira su aree politiche opposte.
Gli M5S che finora pensavano di poter giocare usando i due forni, la Lega e il Pd, magari mettendoli su piani di competizione, oggi si ritrovano a dover cambiare del tutto schema.
Se il voto per le presidenze di Camera e Senato che inizia stamattina vedrà un centrodestra compatto sul nome di Romani, come è stato detto ieri sera dopo il vertice dei capigruppo, la destra sarà l’unica area con una strategia chiara.
Se c’è un incrocio dove nei prossimi giorni ogni accordo sarà fatto o disfatto, questo è l’incrocio fra piazza Venezia e via del Plebiscito, dove si erge Palazzo Grazioli, da anni casa del Cavaliere.
Repubblica 23.3.18
Tre scenari nel gioco del potere
di Piero Ignazi
Oggi si alza il sipario sulla nuova legislatura. Il sistema partitico è stato sconvolto dalle elezioni del 4 marzo. In virtù della nuova legge elettorale sono radicalmente cambiati i rapporti di forza in Parlamento: la pattuglia Pd si è ridotta drasticamente a favore dei 5 Stelle e della destra, leghista in particolare. Ora il sistema partitico è di fronte a un bivio. O si congela nell’assetto tripolare dove ognuno rimane impermeabile agli altri, oppure passa a un confronto bipolare, vale a dire, ritorna a quelle alternanze di schieramenti che abbiamo conosciuto dal 1994 al 2013.
In questo caso abbiamo due ipotetici fronti contrapposti: da un lato, una configurazione che ricalca in qualche misura la divisione destra-sinistra; dall’altro, una che passa per la nuova frattura che attraversa tutta Europa, quella tra establishment e anti- establishment.
La prima rimanda a una confrontation tra, da un parte, il centro- destra, ora a trazione leghista ma tutto sommato compatto in quanto condivide il governo di tre Regioni e, soprattutto, è composto da elettorati alquanto omogenei; e, dall’altra, una inedita alleanza tra Pd e 5 Stelle.
Su quest’ultima ipotesi si è molto ricamato considerandola lo sbocco naturale della crisi del Partito democratico. In realtà questa opzione non originerebbe affatto dai democratici che possono invece permettersi il lusso di stare alla finestra per un giro e guardare dall’alto gli affanni degli altri. Si tratterebbe semmai di una richiesta quasi disperata dei 5 Stelle che non sanno come utilizzare il loro 32% e sono quindi costretti a chiedere aiuto al Pd pur di formare un governo.
A favore di questa soluzione gioca la maggiore sensibilità dei pentastellati nei confronti di temi classicamente di sinistra ( welfare universale, ad esempio) o condivisi dalla componente cattolica dei democrat ( aiuti alla natalità, ad esempio). Ovviamente le due formazioni sono divise da una profonda, reciproca, diffidenza e dalle scorie di una conflittualità violentissima, oltre che da vari punti programmatici divergenti. Tuttavia, nel sentire della sinistra, l’opposizione alla destra è molto più radicata per motivi storici — dalla acquiescenza verso il neofascismo di Berlusconi e Salvini ( per non dire della Meloni) al ventennale antiberlusconismo — rispetto a quella verso i “populisti” grillini. A meno di considerare il successo del Pd nei quartieri ricchi delle metropoli un segno della mutazione del partito verso ambienti e preferenze così moderati da orientarlo preferibilmente verso Forza Italia piuttosto che verso il M5S.
A questo scenario, che richiama per certi versi la classica divisione destra- sinistra, si contrappone quella tra partiti dell’establishment (Forza Italia e Pd, pur nelle loro differenze) e partiti anti- establishment ( Lega, FdI e 5 Stelle). Questa diversa configurazione ha un terreno comune assai più ristretto, limitato ai temi anti- politici ed euroscettici, ma condivide la spinta innovatrice, e persino disgregatrice, del “vecchio ordine”. Si tratta però di un’unione dal carattere strumentale, priva di un terreno programmatico comune, volta piuttosto a sviluppare una nuova dinamica politica, nuovo contro vecchio.
Ma se il M5S accettasse l’alleanza con i leghisti manderebbe all’aria tutto lo sforzo di accreditamento come forza “responsabile” intrapreso a tappe forzate negli ultimi mesi. Anche la Lega pagherebbe dei prezzi perché la rottura con Forza Italia trascinerebbe con sé la fine dei governi locali amministrati dal Carroccio. Inoltre, l’alleanza con Di Maio è una strada senza ritorno per Salvini: o vince la sfida con i 5 Stelle per l’egemonia nella futura alleanza di governo e diventa centrale nel panorama politico italiano, o perde tutto.
Nell’una e nell’altra configurazione si ritorna a un conflitto bipolare che consente di innescare nuovamente una politica di alternanza. Il tripolarismo degli ultimi cinque anni andrebbe in soffitta. I 5 Stelle, inevitabili protagonisti dell’una o dell’altra opzione, diventerebbero i principali responsabili delle politiche governative, con tutto quello che ne deriva. Sarebbe per loro la definitiva prova di maturità. Dove però si rischia anche una sonora bocciatura.
Rimane infine un’altra possibilità, ventilata nelle ultime ore, quella di un accordo tra tutto il centro-destra e il M5S. Che Berlusconi abbia cambiato radicalmente idea sui grillini nell’arco di qualche nanosecondo non sorprende; ma non basta, perché dall’altra parte non ci sono appigli per giustificare una tale scelta. L’antiberlusconismo del M5S è molto radicato in quanto il Cavaliere incarna ai loro occhi la quintessenza dell’establishment, della corruzione, dei poteri occulti, delle collusioni con interessi inconfessabili e quant’altro. Tra l’altro, i pentastellati hanno in programma interventi sul conflitto d’interessi e sull’assetto radiotelevisivo.
Certo, la politica italiana ci ha abituato a tutto, ma è difficile che venga fatto un regalo così grande al Pd che rimarrebbe l’unico partito all’opposizione. In questo caso, ma solo in questo caso, la parola d’ordine dello splendido isolamento ha un benefit politico. Altrimenti, se questa unione “ contronatura” di centro- destra e M5S non si realizza, allora il Pd è costretto prima o poi a prendere delle decisioni. Certo però che è meglio astenersi piuttosto che entrare in gioco per ottenere le vicepresidenze delle assemblee.
Repubblica 23.3.18
Maurizio Maggiani, scrittore
Dov’è finita la Sinistra 2
“Togliatti ascoltava anche Celentano ora la sinistra non sente più nessuno”
intervista di Concita De Gregorio
Narratore e giornalista
Lo scrittore Maurizio Maggiani, 68 anni. Il suo ultimo romanzo è La zecca e la rosa pubblicato nel 2016 per Feltrinelli
Maurizio Maggiani vive tra Genova e Faenza dove a 67 anni, dice con fiero piccolo sorriso, si è trasferito per amore. È nato povero, è stato anarchico, ha venduto pompe idrauliche, ha scritto romanzi premiati coi premi maggiori, ha ascoltato storie e raccontato utopie. Nel Romanzo della Nazione ha descritto che Paese avrebbe potuto essere l’Italia se solo, se magari, se invece. «Mio nonno era anarchico. Poco prima di morire, io avevo 16 anni ed era il ’68, mi ha detto: “Ricordati che siamo tutti uguali. Ma non perché siamo servi come dicono quelli là. Siamo uguali perché siamo tutti dei signori”. Ecco, io ci penso spesso a questa frase. Mi ha insegnato la cosa più importante».
Quale?
«Cosa dobbiamo pretendere, e da cosa si riconosce la sinistra».
Da cosa si riconosce?
«È un fatto di una semplicità e di una chiarezza assolute. Pane, giustizia e libertà. Questo è lo scopo della sinistra. Il pane interessa al popolo, la libertà alle élite, la giustizia alle élite e al popolo assieme. Forse non ce ne siamo accorti, ma siamo stati governati dalla sinistra per lunghi periodi in questi anni. C’è stato più pane, più giustizia, più libertà? No. Ed è stato forse perché il pane era già stato distribuito la giustizia data e la libertà ottenuta? Se così fosse allora non ci sarebbe più bisogno di sinistra. Come di una sostanza chimica quando ha compiuto la funzione di catalisi, non servirebbe più. Ma no.
Rispetto a giustizia e libertà questa sinistra mi ha solo detto che le mie richieste erano fuori luogo.
Quanto al pane, cioè al lavoro: dimmi tu».
Qualche diritto è stato riconosciuto. Le unioni civili, dopo tanta attesa.
«Sì, me lo ha ricordato per sms alla vigilia del voto anche qualche propagandista che non so come sia in possesso del mio numero. Ne parlavo giorni fa con una commessa del supermercato, lesbica e precaria. Le ho chiesto se le preme di più avere un lavoro stabile o sposarsi. Mi ha risposto naturalmente: il lavoro. Nel pane c’è giustizia, e forse c’è anche libertà».
Cosa è mancato nell’azione dei governi di sinistra?
«L’ascolto. Il pensiero. La parola.
Pensavo oggi alla Chiesa. Cosa ci può essere di più drammatico per la Chiesa di un papa che rinuncia, si dimette? Sembrava il crollo, ti ricordi? I corvi, la lobby gay, i soldi. Sembrava la fine. È bastato che il nuovo papa si affacciasse alla finestra e dicesse: buonasera. Le capacità vitali della Chiesa sono straordinarie. Ma non in difesa, nella forza espansiva. Nell’impeto rivoluzionario incarnato – attenta da un gesuita: un dottrinario, un esponente dell’élite studiosa colta, attenta e attinente. Se la sinistra non funziona è perché non ha saputo costituirsi al suo interno una élite di pensiero. Di strategia, di dottrina. Ha solo gestito il suo potere. Ha preso il potere non il governo dei processi».
Stai parlando di Renzi?
«Matteo Renzi ha rubato la sinistra. Ma prima di lui Bersani.
Ha chiamato il suo partito, in pubblico, “la ditta”. Con un umorismo distratto da benzinaio, rispetto i benzinai, ne ha decretato la fine. Io non ho nessuna intenzione di affidarmi a una ditta. L’unica di cui mi fido è quella del mio aspirapolvere che continua a funzionare. E D’Alema. Tutti dicono: intelligentissimo. Ma ti pare possibile che si copra di ridicolo senza rendersi conto di quanto è sceso nel ridicolo? Le parole sono il mio lavoro. A Renzi non ho mai creduto per una questione di parole. Rottamazione, ha detto: gli uomini non sono elettrodomestici. Però capisco anche: in quella situazione, in quella pentola chiusa e tenuta sul gas il fatto che ci fosse chi diceva “apriamo la valvola”. È comprensibile che in tanti ci abbiano creduto. Ma solo perché era giovane».
L’età non è una virtù. Non è una qualità politica.
«Eppure non ha avuto altra dote se non la sua gioventù. Che cosa ha detto se non quello? Guardate come sono fresco, come sono belli freschi e giovani i miei. E qui torniamo al fascismo. Che carta ha giocato il fascismo a livello di massa? La giovinezza. Io credo con Gobetti che il fascismo non sia stato una parentesi, ma che sia nella psicologia di questo paese una presenza eterna. Come Edipo, come Elettra in ciascuno di noi. Poi la giovinezza si sa che dura un giorno».
È tornata la destra a Genova.
In tutta la Liguria.
«Ti racconto una storia. Il nuovo sindaco di Genova, la giunta, hanno avviato una procedura che punisce fino all’espulsione chi è sorpreso ad essere ubriaco, a rovistare nei cassonetti. Solo nel centro storico, in periferia naturalmente puoi fare quello che vuoi. Fino a qualche anno fa la città di Genova sarebbe insorta coralmente. Non è indecoroso frugare nei cassonetti. È indecoroso avere la necessità di farlo. Oggi l’unica voce che si è alzata è stata quella di un paio di preti. La sinistra che ha avuto potere per 30 anni è terrorizzata dall’idea di sbagliare la risposta. Di passare dal 18 al 15 per cento. Non ha saputo costruire una comunità».
Cosa pensi del successo del Movimento 5 Stelle?
«È un’azienda che conosce bene la gestione del potere nella contemporaneità. Non mi dire che esagero, ma mi pare un filo più pericoloso del nazionalsocialismo».
Esageri.
«Lo spero. Quello pure era andato al governo con un voto di massa, ma lì c’erano uomini, personalità.
Qui ci sono ombre, fantasmi. Di Maio è un’ombra. Ti sembra casuale che siano così improvvidi, inconsapevoli? Non è affatto un caso... devono essere così. Le loro regole non parlano di rappresentanti ma di portavoce.
Devono portare un’altra voce. Che non mi pare quella del popolo. Il giovane Casaleggio parla della realizzazione della democrazia attraverso la piattaforma digitale.
Lo dice nei giorni in cui è apparso palese a tutto il mondo come Facebook sia una sentina di perversione. Non ti sembra sinistro?
La democrazia non è una piattaforma in cui tutti dicono quello che vogliono».
Che cosa è, la democrazia?
«È fatica. È passare da sudditi a cittadini, attraverso la cultura.
Un peso sublime, ma un peso. Se chi governa non sostiene questa fatica quotidianamente – il lavoro della cultura - è facile che il cittadino ripieghi nella sua antica plebità. Non ti pare sospetto tutto questo denigrare la cultura? Il sapere, lo scherno dell’intelletto e di chi ne fa uso: come se sapessero che proprio quella è la chiave, il nemico da abbattere. Da quanto sentiamo parare di governabilità? Ma la governabilità passa attraverso la depressione della sovranità: la devi ridurre al minimo, la sovranità dei cittadini, per governare. Oggi è preferibile l’efficienza alla competenza.
Quindi servono servi, plebe.
Montanelli parlava di plebe borghese».
Molti tra gli elettori dei Cinquestelle e parecchi anche tra gli amministratori vengono da una sinistra da cui si sono sentiti traditi.
«Ma certo. La responsabilità è di chi ha lasciato che questo accadesse. Di chi a sinistra non ha voluto ascoltare, vedere. Di chi nei giornali ha tenuto il sacco a chi governava e non ha raccontato.
Questo è solo l’esito: una cosa quando succede è già successa, è la fine di un processo. Poi molti nei Cinquestelle vengono anche da una cultura di destra. Così come nella Lega, ma la Lega mi spaventa di meno».
Cosa si salva, nel tuo orizzonte?
«I luoghi in cui resiste un sistema di comunità. Di relazioni prepolitiche, non di partiti. Di cooperative, che non sono tutte bande di delinquenti. Le persone.
A Faenza i ragazzi richiedenti asilo puliscono le strade in campagna, i fossati. Sai chi li dirige? Il capo spazzino che è anche capo della Lega. Gli dice delle cose terribili ma poi gli insegna come fare le cose. Ci vive insieme tutti i giorni.
Faenza è uno dei non pochi luoghi dove la comunità fuori dai partiti regge. Non serve nemmeno un sindaco genio».
E di cosa si nutre, la comunità prepolitica? Cosa deve fare la sinistra politica per ritrovare quella comunità?
«Stare in ascolto. Cosa se non l’ascolto è lo stile sorgivo della sinistra? Anche Togliatti sentiva Celentano perché voleva capire.
Era in ascolto. Cosa deve fare oggi la sinistra politica non lo so. Ti dico quello che faccio io. Vado nelle scuole, dai ragazzi. Hanno bisogni di adulti, di maestri. Un bisogno disperato di parola.
Rispondo alle domande. Dico loro quello che so con onestà, disciplina, molta disciplina, e con l’umiltà di cui sono capace. Mio nonno almeno una persona l’ha educata. Se ci riuscissi anch’io, con uno solo di loro, una cosa l’avrei fatta».
Il Fatto 23.3.18
L’Europa si rassegni: ai russi Putin piace
di Gian Paolo Caselli
Come da facile previsione Vladimir Putin ha vinto di gran lunga le elezioni russe del 18 marzo, giorno in cui quattro anni fa la Crimea è ritornata russa. Al di là della grande vittoria del presidente Putin e l’avanzata oltre le previsioni del partito comunista del nuovo segretario Pavel Grudinin, è necessario chiedersi quali saranno le conseguenze per la Russia e le relazioni internazionali di una così notevole espressione di gradimento per la classe dirigente guidata da Putin.
Queste elezioni testimoniano, al di là di tutte le critiche all’amministrazione Putin, un vasto appoggio popolare che riconosce notevoli meriti al rieletto presidente. Il primo merito è quello di aver migliorato il tenore di vita dei cittadini russi ponendo fine a quello stato di povertà e di sofferenza rappresentato dagli anni eltsiniani. I russi usano per quel periodo l’espressione “smutnoe vremia”, tempo dei torbidi, espressione che indica il periodo tra la fine del cinquecento e i primi anni del seicento, quando i polacchi bruciarono Mosca e la Russia non riusciva a trovare un nuovo Zar. Il ricordo dei terribili anni Novanta del secolo scorso è diventato uno dei pilastri del sentire politico del popolo russo che chiede stabilità e un migliore tenore di vita. In Europa il momento eltsiniano al contrario viene considerato il periodo in cui il liberalismo politico ed economico era finalmente introdotto nella vita russa, non tenendo conto che per i russi invece ha significato decivilizzazione, bombardamento del parlamento ed arricchimento di pochi.
L’altro fondamento dell’appoggio popolare a Putin è il sentimento di orgoglio che la politica economica interna ed estera dell’attuale amministrazione ha ridato al popolo russo. Uno degli errori dell’ex presidente Usa Barack Obama è stato definire la Russia una potenza regionale, grande offesa a tutta la classe dirigente russa. La Federazione Russa condivide con gli Stati Uniti la quasi totalità degli armamenti nucleari, anche se da un punto di vista economico la Russia è certamente molto fragile.
Le elezioni hanno anche confermato che soluzioni di tipo ucraino, come le rivoluzioni di piazza Maidan del 2014 o quella “arancione” del 2004, non hanno probabilità di riuscire in Russia. Le fantasie anglosassoni su possibili moti popolari contro il putinismo, moti più forti delle manifestazioni del 2011 e 2012 contro i brogli elettorali , non si concretizzeranno.
Viene anche sottovalutata l’importanza del patriottismo nella scala di valori dei cittadini russi: la classe dirigente accentua l’uso politico della storia russa, ma i 28 milioni di cittadini sovietici morti nella seconda guerra mondiale non sono facili da dimenticare e il reggimento degli immortali che sfila nelle città russe nel giorno della vittoria testimonia un sentimento reale e profondo.
Putin governerà per altri sei anni ed avrà di fronte molti problemi. Il punto più debole della politica putiniana è il basso tasso di crescita reale e potenziale dell’economia che si aggira intorno al 1,5 -2 %. Se la Russia vuole migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini e conservarne il consenso deve crescere almeno al 4% e giocare un ruolo internazionale che non dipenda solo dalle proprie testate nucleari. Questo significa aumentare la quota degli investimenti sul reddito con una crescita dell’intervento dello stato. Il grande capitalismo russo degli oligarchi non è in grado di garantire questo salto nella accumulazione. Ne è pensabile che gli investimenti stranieri possano essere rilevanti, viste le tensioni politiche. L’economia resta poi dipendente dal prezzo del petrolio e deve diversificare. Ma ’unico nuovo settore esportatore, accanto a energia e armi, è il settore agricolo.
Le elezioni mettono l’Europa di fronte al fatto che in Russia non vi sono all’orizzonte forze politiche di opposizione su cui puntare per un cambiamento che porti a una europeizzazione della Russia. Ne è pensabile che l’Unione europea icontinui a seguire la linea antirussa dettata dal blocco di Gran Bretagna, Svezia, Polonia e paesi baltici, a meno di non voler rischiare un conflitto con la Confederazione Russa. Un miglioramento della attuale situazione non può prescindere da un tentativo di soluzione della questione ucraina, che ponga fine alla guerra a bassa e media intensità che si svolge nel Donbass, accettando il fatto che l’Ucraina, dalla sua fondazione nel 1991, si è rivelato un paese che difficilmente riesce ad autogovernarsi. L’Ue deve fare pressione su Kiev per giungere a una cessazione dello scontro armato, sottolineando la difficoltà, se non l’impossibilità in queste condizioni, di un ingresso di Kiev nell’Unione e nella Nato.
I cittadini russi decideranno se vorranno avanzare lungo la via di una ulteriore democratizzazione: per ora la grande maggioranza approva la attuale configurazione economica e politica.
il manifesto 23.3.18
Il Labour si «corbynizza», Formby eletta segretaria
Regno unito. Londinese, 57 anni, sposata e madre di tre figli, Formby è una figura chiave di Unite, il massimo sindacato laburista
di Leonardo Clausi
LONDRA Per la seconda volta nella sua storia il Labour Party ha eletto una donna nel ruolo di segretario generale. Si chiama Jennie Formby, è una sindacalista ed è una stretta alleata, oltre che amica personale, del leader Jeremy Corbyn.
Londinese, 57 anni, sposata e madre di tre figli, Formby è una figura chiave di Unite, il massimo sindacato laburista. È stata nominata dal Nec, l’esecutivo nazionale del partito, del quale ha fatto parte per sette anni. Il Nec è da sempre guidato da un sindacalista, a sottolineare la vocazione unionista del partito (che in questo paese nasce a tutti gli effetti come braccio politico del sindacato).
LA SUA NOMINA, oltre a zittire le speciose voci moderate che travestivano da critica alla scarsa rappresentanza femminile ai vertici del partito la propria avversione per un leader ai loro occhi esponente della cosiddetta hard left, (la sinistra-sinistra, si direbbe infelicemente in Italia) ha un chiaro significato politico. Sancisce un sostanziale passo avanti nella conquista della sala macchine del Labour da parte dell’ex-piccola enclave socialista di cui Corbyn è leader «anti-carismatico», sospinto gioiosamente in cima con uno schiacciante mandato popolare, espresso dalla base alle cosiddette primarie interne, autolesionisticamente introdotte dal suo predecessore, Ed Miliband.
SOPRATTUTTO PERCHÉ Formby – che è anche vicina a John McDonnell, cancelliere ombra dello scacchiere e massima figura di rilievo nel partito immediatamente dopo Corbyn –, oltre a essere legata all’influente leader di Unite e gran manovratore dell’appoggio sindacale allo stesso Corbyn, Len McCluskey, succede a un altro «Mc»: Iain McNicol (la proliferazione dei nomi di origine scozzese nella sinistra socialista del partito è anche un segnale chiaro delle sue origini operaie). Costui aveva dato le dimissioni lo scorso febbraio, dopo aver tenuto l’incarico per sette anni.
L’abbandono di McNicol è stato un grosso passo avanti nella neutralizzazione del muro di gomma con cui finora la recedente fazione moderata che controllava saldamente il partito aveva cercato di osteggiare Jeremy, pericoloso estremista. Era stato proprio McNicol in veste di segretario – la sua elezione risaliva alla leadership di Miliband – a cercare di impedirne la ricandidatura nel 2016, dopo che lo stesso Corbyn, in un plateale colpo di stato interno, era stato fatto oggetto di un voto interno di sfiducia da parte del Plp, la fazione parlamentare del partito.
JENNIE FORMBY sarà al vertice della macchina logistico/amministrativo/mediatica laburista, si occuperà di uno staff di circa quattrocento funzionari. Sarà responsabile delle assunzioni, delle campagne del partito e si occuperà del suo assetto giuridico e costituzionale.
Questo Labour, che si prepara a subentrare ai conservatori dell’annaspante premier Theresa May, è sempre più corbynista. Altre riforme interne, volte a sottrarre ulteriormente le leve di comando alla congrega di Westminster, che le ha sempre monopolizzate, sono imminenti.
il manifesto 23.3.18
La protesta contro Macron
Francia . Ferrovieri e funzione pubblica in piazza contro le riforme liberiste. Grossa partecipazione nel giorno anniversario dell'inizio del "maggio" '68. Prove di unità a sinistra (del Ps). Il governo cerca di contrastare la convergenza delle lotte
di Anna Maria Merlo
PARIGI Il 22 marzo ’68 iniziava il Maggio francese (con l’occupazione dell’Università di Nanterre). Ieri, 180 cortei in tutta la Francia, tre solo a Parigi, 440mila persone in piazza in tutto il paese (47800 a Parigi, secondo un calcolo indipendente), potrebbero segnare l’inizio di un forte movimento di protesta, di rigetto del ritmo forsennato di riforme imposto da Emmanuel Macron. Ieri, hanno manifestato la funzione pubblica e i ferrovieri: questi ultimi contro la riforma della Sncf, che rimette in causa lo statuto per i nuovi assunti e trasforma l’ente pubblico in società per azioni, i primi per il potere d’acquisto. Ma non solo. Funzionari e ferrovieri protestano contro una visione del mondo proposta da Macron, contro il liberismo declinato in tutti i settori, anche quelli del servizio pubblico (anche se la Sncf resta al 100% pubblica, per il momento). A Parigi, si sono uniti studenti e liceali, in un corteo la mattina, che è durato poco, a causa di alcuni scontri e dell’immediata reazione della polizia. Gli studenti individuano una selezione accresciuta con il nuovo sistema di iscrizione Parcoursup, che richiede delle conoscenze “attese” per iscriversi alle diverse facoltà (e propone un anno di recupero per chi non ha i requisiti). Ferrovieri e dipendenti pubblici avevano il sorriso ieri sera: la giornata di mobilitazione è stata un successo di piazza (a parte qualche scontro tra giovani e polizia, vicino al lungo di convergenza dei due cortei pomeridiani, a place de la Bastille). Ma il governo guarda anche altre cifre: una forte mobilitazione dei ferrovieri, più di quanto previsto, 35% hanno aderito alla giornata di protesta, mentre nella funzione pubblica ha scioperato solo il 10%, percentuale che sale al 25% (secondo i sindacati) nella scuola. Le ferrovie tornano ad essere il luogo della resistenza, come nel ’95 (ai tempi di Alain Juppé). Per la Sncf, difatti, la giornata di ieri è stata solo l’inizio. Dal 3 aprile, iniziano le giornate di sciopero dei treni, 36 in tutto, distribuite su tre mesi, fino al 28 giugno, al ritmo di due giorni di blocco seguiti da tre giorni di lavoro (con eventuali perturbazioni del traffico ad ogni ripresa dell’attività). Il braccio di ferro è appena iniziato. Molto dipenderà dalla reazione degli utenti.
Ieri, ai bordi dei cortei parigini, c’è stata anche una prima prova generale di ricostruzione dell’unità a sinistra. Su iniziativa di Olivier Besancenot, portavoce dell’Npa, erano tutti presenti, o quasi, dal Pcf, a Génération-s di Benoït Hamon, dalla France Insoumise ai Verdi, oltre a varie altre organizzazioni. Il futuro nuovo segretario del Ps, Olivier Faure, ieri ha partecipato alla manifestazione parigina, ma si è fatto fischiare e ha dovuto rifugiarsi in un caffè. Il Ps non era stato invitato dalle altre formazioni di sinistra ad unirsi alla “dichiarazione unitaria” della vigilia del 22 marzo. La presidenza Hollande pesa ancora: “ha molto privatizzato quando era al governo, quello che vogliamo dimostrare è l’unità a sinistra del Ps”, spiegano all’Npa. Jean-Luc Mélenchon è stato un po’ costretto ad accettare l’unità di partecipazione ai cortei, ma gli Insoumis non credono più al “cartello” delle sinistre e intendono unire il “popolo” contro la “casta” (e sono ormai reticenti a dichiararsi “di sinistra” nel tradizionale significato del termine). France Insoumise dovrebbe proporre una giornata di mobilitazione in un week end, per riunire più persone, anche i lavoratori del settore privato, assenti ieri. I sindacati non sono stati molto entusiasti di essere recuperati dal mondo politico, i leader dei partiti non erano in testa ai cortei, ma fermi in “gazebo” lungo il percorso. Netto rifiuto sindacale per la presenza di Florent Philippot, ex consigliere di Marine Le Pen.
L’unità sindacale è quasi completa, almeno per i ferrovieri. Invece, per la funzione pubblica, Cfdt e Unsa non hanno partecipato alla giornata di mobilitazione (contestano la precipitazione, mentre sono in corso concertazioni con i ministri). In piazza c’erano di nuovo i pensionati, che hanno già manifestato il 15 marzo contro l’aumento della Csg, il contributo sociale generalizzato, un rialzo che per il governo dovrebbe servire per favorire i giovani attivi. Tra i funzionari, c’erano di nuovo anche i dipendenti delle case di riposo, che protestano da tempo per le difficili condizioni di lavoro.
La giornata di ieri è stata la prova generale della convergenza delle lotte? Lo storico Stéphane Sirot, vede per il momento soprattutto “una sovrapposizione” delle diverse rivendicazioni. Il governo gioca la carta della divisione. Ha concesso qualcosa ai pensionati (100mila famiglie esentate in più dal rialzo della Csg). Ha appena concluso un accordo con le guardie carcerarie, che hanno protestato qualche settimana fa.
il manifesto 23.3.18
Trump firma i dazi anti-Cina. Al via la guerra commerciale
Cina vs Usa. Esentati Unione europea e altri, la Casa bianca vuole rientrare di 60 miliardi di euro
di Simone Pieranni
Dice Trump che Usa e Cina sono «in mezzo a una lunga contrattazione», ma intanto un primo atto di guerra commerciale è partito. Ieri il presidente americano pur riconoscendo la «grande amicizia» con il presidente cinese Xi Jinping e con la Cina in generale, pur ammettendo l’importanza di Pechino in merito alla crisi coreana, ha posto un «ma» che pesa come un macigno.
DOPO AVER DEFINITO «un orrore» il disavanzo commerciale con la Cina (Washington importa molto più di quanto esporti in Cina), al termine di un’indagine partita lo scorso agosto (tramite la sezione 301 dello Us Trade Act, che permette indagini e l’imposizione dimisure), ieri Trump ha dato il via libera alle sanzioni contro un migliaio di prodotti cinesi, puniti da dazi che dovrebbero avere un valore di 60 miliardi di dollari (sugli oltre 300 di disavanzo commerciale). Ora – in un mese circa – il mondo del business americano potrà commentare questa decisione che diverrà poi operativa.
LE SANZIONI vanno a colpire il cuore delle esportazioni tecnologiche cinesi negli Stati uniti, specie il settore della telefonia mobile; significa che per Huawei – ad esempio – potrebbero arrivare brutti segnali dal mercato americano. Insieme agli smartphone saranno colpiti i prodotti più innovativi, ovvero quanto costituisce lo scheletro di quel programma, «Made in China 2025», che costituisce uno dei tanti timbri di Xi Jinping alle attuali ambizioni di Pechino: robotica, aviazione, tecnologia elettronica e prodotti aerospaziali,
NON È DETTO che questo basti: potrebbero arrivare altri dazi, benché alcuni ambiti economici americani abbiano già segnalato il rischio di queste operazioni. «Non spariamoci a un piede» hanno fatto sapere alcuni congressmen con riferimento alle possibili ritorsioni: il mondo dell’agricoltura, per dirne uno, nei giorni scorsi ha fatto sapere di essere vulnerabile a eventuali ritorsioni cinesi: si tratta di una delle basi sociali del voto pro Trump alle ultime elezioni. Senza contare le «vendette» che Pechino può gustarsi contro le aziende americane in casa propria, attraverso controlli e cavilli burocratici capaci di mettere al tappeto parecchi business americani.
SECONDO WASHINGTON la decisione va a riportare «giustizia» laddove il Wto avrebbe mancato di operare («The Donald» non ha mancato di lanciare una bordata contro l’istituzione mondiale): secondo i report pervenuti a Trump, la Cina imporrebbe condizioni di svantaggio per le aziende americane, rendendo arduo l’ingresso nel mercato cinese e si eserciterebbe da tempo nel furto della proprietà intellettuale.
«TREMENDOUS», è la parola che Trump ha usato in tre occasioni, a sottolineare un passo decisivo nelle relazioni tra i due paesi. La Xinhua, l’agenzia di stampa cinese, poco dopo la conferenza ha definito «da bulli» l’atteggiamento degli Usa: un inizio del confronto niente male. Ma prima di specificare quanto trapelato da Pechino nelle ore che hanno preceduto la comunicazione di Trump (alle nostre 17 e 30, quindi di notte in Cina) è bene ricordare i tanti punti di frizione tra i due paesi; il «carico» commerciale va infatti a inserirsi in un equilibrio piuttosto fragile nonostante i tentativi di Trump di dirsi amico di Pechino. In questi giorni tra i due paesi è in corso una sotterranea battaglia su Taiwan: Xi Jinping aveva tuonato contro «chi ci vuole dividere», proprio dopo l’approvazione di un accordo tra Usa e Taiwan volto a incrementare gli incontri diplomatici.
SI TRATTA DI UN SEGNALE con il quale Washington vuole disturbare la Cina, fingendo di dimenticare il proprio riconoscimento, avvenuto nel 1979, di «una sola Cina». In tutta risposta Pechino ha spedito la sua portaerei nello stretto di Taiwan. E il Global Times – quotidiano ultranazionalista cinese – senza giri di parole ha specificato che su Taiwan la Cina «è pronta a combattere». Sulla questione coreana tutto è ancora appeso, tranne la distanza delle posizioni proprio tra Xi Jinping e Trump: la Cina vuole che gli Usa abbandonino il progetto dello scudo antimissile; ipotesi che la Casa bianca non pare proprio prendere in considerazione. Infine la questione commerciale, anticipata da mezze parole e divenuta reale – davvero – solo ieri.
Per capire la distanza concettuale: secondo Pechino «le guerre commerciali finiscono per non avere mai un vincitore». Per Trump «le guerre commerciali fanno bene e si possono anche vincere facilmente».
LA CINA durante questa settimana le ha provate tutte: prima ha messo in guardia Washington dicendosi pronta a reagire da par suo (non dimentichiamo che la Cina detiene gran parte del debito americano), poi ha provato incredibili aperture, proprio alla vigilia dell’annuncio di Trump: il console generale cinese a New York, Zhang Qiyue, aveva dichiarato che Pechino allenterà barriere commerciali all’ingresso di investitori stranieri nel settore finanziario e uniformerà gli standard per le banche nazionali e straniere: «Introdurremo molte altre misure quest’anno, e alcune di queste supereranno le aspettative di aziende e investitori». Non basterà.
Il Fatto 23.3.18
Foxtrot, “arance e soldati morti”: specchio di Israele
di Samuel Maoz
Film sull’errore, sulla deroga, sull’inevitabile senso di colpa di matrice ebraica. Ma anche sui giochi di un destino beffardo che “danza” a quattro tempi riportandoti sempre al punto di partenza, come la circolare follia dell’homo hominis lupo. E chi è causa del suo mal pianga se stesso. Foxtrot è tutto questo, ma soprattutto è l’opera che maggiormente ha diviso l’opinione pubblica israeliana dalla sua uscita nazionale avvenuta a settembre, dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria alla Mostra veneziana.
Il regista Samuel Maoz da Tel Aviv un po’ ci è abituato. Gli era accaduto con Lebanon, il suo esordio del 2009 che mostrava il mondo dal periscopio di un tank e che si era guadagnato a sorpresa il Leone d’oro sempre al Lido. Ma con Foxtrot – opera seconda arrivata ben 8 anni dopo – si è indubbiamente spinto oltre. Al centro del racconto è il destino di una famiglia che cambia repentinamente alla notizia improvvisa della morte del figlio ventenne, militare in servizio nel cuore del deserto. Una storia composta da colpi di scena (da non rivelare…) che attraversa tre generazioni e si concentra sulla nemesi “punitiva” che passa di padre in figlio.
Al controverso cineasta ex mitragliere dell’esercito non va proprio giù di vedere il proprio Paese in perenne balia dell’imprevedibilità dettata dal casus belli. Il suo cinema, rarefatto nel tempo ma pungente come un diamante, nasce per raccontare la bulimia militarizzata d’Israele, questa incapacità di concepire l’universo senza l’(ab)uso delle armi. Va da sé che a furia di sparare incappi nell’errore fatale, specie se sei poco più che ventenne e sei al presidio resiliente di un avamposto nel nulla ove i “passanti” più frequenti sono i dromedari. A insabbiare il tuo errore, poi, ci pensano i generali perché giammai l’onore dell’esercito sia infangato. Meglio infangare la coscienza. Per il 56enne regista che imbracciò il suo primo Super8 a 13 anni tutto questo è inaccettabile: ma sbeffeggiare l’esercito e attirarsi mezza nazione contro era l’inevitabile effetto. Il suo Foxtrot ha messo Israele sottosopra, dal macromondo dei media alle intimità famigliari: “Io e mio marito abbiamo litigato dopo averlo visto” rivela una giovane cineasta pacifista israeliana. Ma ben venga il dibattito laddove in gioco c’è la riformulazione morale di uno status quo. Catartico su ferite profonde e perennemente sanguinanti, Foxtrot è però anche e soprattutto una magnifica opera cinematografica. Vertiginoso di inquadrature in coerenza al contenuto, capace di sorprendere per fulminee variazioni ritmiche e stilistiche, avvalorato da un cast superlativo.
E come diversi testi imponenti, questa seconda fatica di Maoz ha spaccato anche la critica: direttamente dal capolavoro al film furbo e pretestuoso, senza passare per mezze misure. D’altra parte Foxtrot è lo specchio emblematico di un Paese fatto di estremismi e contraddizioni, quell’Israele che lo stesso regista sintetizza in un’immagine assoluta quanto ironica, “arance e soldati morti”.
Corriere 23.3.18
Elzeviro Un saggio di Morin (Cortina)
Il percorso circolare dell’umanità
di Carlo Bordoni
Edgar Nahoum, in arte Edgar Morin, classe 1921, è un intellettuale sorprendente: sociologo, filosofo, epistemologo, nella sua lunga attività ha combinato le scienze umane con la fisica termodinamica, la cosmologia, la teoria dei sistemi. Dopo averci donato quel monumento al sapere che sono i sei volumi del Metodo (1977-2004), ha applicato quel metodo in una serie di piccoli testi. Il più recente, uscito ora da Raffaello Cortina, Conoscenza ignoranza mistero (traduzione di Susanna Lazzeri, pagine 148, e 13) differisce dai precedenti per la struttura comprensiva. È in effetti un distillato del suo pensiero e ne coglie tre aspetti essenziali: la conferma del concetto di complessità, incardinato nella sequenza ordine/disordine/ organizzazione, l’illusione di una conoscenza scientifica dai presupposti razionali e infine un inatteso recupero della spiritualità.
Un Morin inedito, che si insinua nel dibattito sulla fiducia nella scienza, ma anziché indicare un ritorno alla natura, salva la scienza, condannando chi ne fa un uso deviato. «C’è un buco nero — scrive — in seno all’attività e alla mente degli scienziati quando essi sono convinti di disporre delle Tavole della Ragione».
Dietro ogni presunzione si nasconde l’ignoranza. È proprio quando il sapere raggiunge livelli elevati che sorge il dubbio, che si incrina la certezza di una conoscenza assoluta. Anzi, l’unica certezza è data dall’incertezza di ogni sapere: il sapere porta al non-sapere. Infatti le conoscenze si evolvono incessantemente, spesso contraddicendo o modificando quanto sembrava attestato.
C’è bisogno di una nuova fisica, avverte Morin, che superi quella novecentesca della relatività e dei quanti. Ed è singolare che a dirlo sia un sociologo, cogliendo in contropiede gli scienziati.
Ma la sua opera di sintesi, proprio perché all’insegna della complessità, dove non basta conoscere la parte per dominare il tutto — visto che il tutto è maggiore della somma delle parti — non si limita al mondo visibile, determinato dalla trinità scienza/tecnica/economia. Questa volta, con maggiore incisività, rivaluta il mondo interiore: dal rapporto mente/cervello alle emozioni, al mistero che si nasconde nella psiche (conosciamo più dell’universo che del cervello umano), di cui sono ignorate le potenzialità e gli aspetti irrazionali, bollati come superstizioni e credenze.
Le capacità di intuire, prevedere, creare, guarire sono anch’esse proprietà della mente. Lo sciamanismo, che in passato era apprezzato e venerato, assieme a tutte le forme di preveggenza, trance ed estasi che conducono a forme di conoscenza irrazionali, sono espressioni della cultura umana e come tali devono essere riconosciute.
Questo accorpamento «complesso» delle contraddizioni dell’esistenza, dove tutto si compie attraverso la morte (gli individui muoiono affinché sopravviva la specie, che a sua volta non sopravvivrà alla fine dell’universo), trova in Morin un fiero difensore, che sa coniugare l’incommensurabilità del cosmo (con una citazione persino del Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov) e le debolezze umane. Si arrende solo di fronte al mistero della vita, colpito dall’inquietante circolarità della storia umana, che passa attraverso dolorose fasi di affrancamento dall’ignoranza e, una volta raggiunta la luce della ragione, la rimette in dubbio, recuperando l’irrazionale. Il fascino delle origini, del dissolvimento nella totalità e nell’incoscienza sono sempre là, dietro l’angolo, a dimostrare che nulla nell’uomo è cambiato.
Corriere 23.3.18
Novecento Una rassegna a Palazzo Morando sulla mobilitazione civile guidata dal socialista Emilio Caldara
La Madonnina sulla linea del Piave Così Milano vinse la sua guerra
di Antonio Carioti
Territorio di guerra: non parliamo del Carso, ma di Milano. È il 1° dicembre 1917, poco più di un mese dopo Caporetto, quando il governo qualifica ufficialmente in questo modo la metropoli lombarda, ormai non più tanto lontana dal fronte. Così le autorità procedono a espellere molti elementi considerati politicamente infidi perché contrari alla guerra, mentre l’impegno nella produzione bellica viene intensificato al massimo.
Quel momento altamente tragico della nostra storia nazionale è il punto d’avvio della mostra in corso a Milano fino al 6 giugno, presso le Civiche Raccolte Storiche a Palazzo Morando (via Sant’Andrea 6). Fotografie, manifesti, cartoline, mappe, quotidiani e periodici raccontano la capacità di una città e dei suoi amministratori, guidati dal sindaco socialista Emilio Caldara, di reggere la durissima prova.
Milano e la Prima guerra mondiale. Caporetto, la Vittoria, Wilson è il titolo dell’esposizione, organizzata dal Comune e promossa dalla Fondazione Saragat, dalla Società Umanitaria, e dal Centro Studi Grande Milano, con la collaborazione di altri enti. «Di fatto — sottolinea l’ex sindaco Carlo Tognoli, coordinatore della mostra — la nostra città divenne in quei mesi la capitale della parte d’Italia più direttamente investita dal conflitto. In precedenza era stata teatro di violenti dissidi fra neutralisti e interventisti, ma dopo l’inizio delle ostilità Caldara, che era contro la guerra, allestì un gigantesco sforzo di assistenza ai militari e ai civili, tanto da destare anche l’ammirazione di Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera”, che in occasione delle elezioni aveva avversato l’esponente del Psi, paragonandolo a Barbarossa: nel suo libro di memorie Vent’anni di vita politica , riconobbe che Milano, governata dalla giunta socialista, aveva dato un esempio straordinario di volontà, forza e generosità».
Ci fu un enorme sviluppo dei servizi, osserva la curatrice della mostra, la storica Barbara Bracco: «Si sviluppò il soccorso alla vedove e agli orfani, si fece fronte con successo alla necessità di accogliere circa 100 mila profughi dal Veneto e dal Friuli: tantissimi per una città che aveva allora 700 mila abitanti. Anche l’eccellenza degli ospedali di Milano in fatto di chirurgia e l’ortopedia risale agli anni della guerra, quando si trattava di curare i feriti provenienti dal fronte».
Maurizio Punzo, membro del comitato scientifico della mostra e autore del libro Un Barbarossa a Palazzo Marino (L’Ornitorinco edizioni) sulla giunta Caldara, mette in rilievo l’aspetto politico di quell’azione: «Venne creato un Comitato centrale di mobilitazione civile, in cui erano presenti tutte le forze cittadine. E fu prestata una grande attenzione al rifornimento alimentare, di modo che Milano evitò rivolte per il pane come quella di Torino dell’agosto 1917. Dopo Caporetto poi, il neutralista Caldara usò apertamente toni patriottici».
Non mancarono episodi tremendi: «Il 7 giugno 1918 — ricorda Tognoli — ci fu un grosso incidente alla fabbrica di esplosivi Sutter & Thévenot, situata a Castellazzo di Bollate, dove lavoravano quasi solo donne. In Italia non se ne parlò molto, ma Ernest Hemingway, che all’epoca si trovava a Milano, ne scrisse in un racconto intitolato Una storia naturale dei morti . Morirono dilaniate, secondo i dati ufficiale, 58 operaie. Ma probabilmente il bilancio fu ancora più tragico».
Di quello stabilimento e di altre industrie analoghe, nota Barbara Bracco, ci sono rimaste foto molto belle: «L’Ufficio storiografico della mobilitazione diretto da Giovanni Borelli, creato per documentare lo sforzo bellico, costituì una squadra di fotografi incaricata di raffigurare anche gli impianti che producevano per il fronte. Gli scatti che ritraggono la fabbrica di Bollate, per esempio, sono di Luca Comerio, un autentico artista di formidabile talento».
La mostra si conclude con i festeggiamenti per la vittoria e con la visita a Milano del presidente americano Woodrow Wilson, il 5 gennaio 1919: «Fu un momento di grande entusiasmo — ricorda Punzo — in cui parve possibile creare un nuovo ordine internazionale all’insegna dei diritti dei popoli. Ma purtroppo quelle speranze sarebbero andate deluse».
Repubblica 23.3.18
A una settimana dalla scomparsa
Tutto Hawking dal big bang ai buchi neri
Il libro-capolavoro dello scienziato da domani in edicola con Repubblica
di L. F.
A poco più di una settimana dalla scomparsa, Repubblica celebra Stephen Hawking portando nelle edicole, da domani a 9,90 euro in più rispetto al prezzo del giornale, il suo libro più celebre: Dal big bang ai buchi neri. Un saggio che, quando fu pubblicato nel 1988, segnò al tempo stesso la sua consacrazione come scienziato e l’inizio della sua fama planetaria come icona pop. Nelle ore successive alla scomparsa di Hawking, il 14 marzo scorso, ci si è interrogati sulle ragioni che hanno fatto di questo astrofisico costretto su una sedia a rotelle una celebrità anche tra la gente comune. Dal big bang ai buchi neri è certamente una delle risposte.
Innanzitutto la fisica. Il libro riassume già nel titolo gli straordinari contributi che Hawking ha dato alla comprensione del cosmo. Dopo aver studiato insieme al collega e amico Roger Penrose una nuova matematica per descrivere quelle singolarità dello spazio-tempo che oggi chiamiamo comunemente buchi neri, Hawking dimostra che riavvolgendo all’indietro l’espansione del cosmo si arriva inevitabilmente a un’altra singolarità: il big bang. E poi, la seconda, clamorosa, intuizione: i buchi neri non sono poi così neri.
Mescolando meccanica quantistica e Relatività generale, Hawking spiega che i black hole, possono emettere energia, sotto forma di una radiazione (la radiazione di Hawking) che a lungo andare può persino portare alla loro scomparsa.
Le due idee del fisico di Cambridge permettono di ipotizzare una nuova storia dell’Universo, dove la fine coincide con un nuovo inizio.
Questa Breve storia del tempo racconta dunque a un pubblico di non addetti ai lavori come è cambiata la cosmologia a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. E lo fa attraverso la voce di uno dei suoi protagonisti principali.
Ma questo non basta a giustificare le traduzioni in 40 lingue e le oltre venti milioni di copie vendute in tutto il mondo. «Senza dubbio» ha scritto Penrose nella sua commemorazione pubblicata dal Guardian, «il titolo brillante ha contribuito al fenomenale successo del libro», riferendosi all’originale Brief History of Time.
«Ma in quelle pagine c’è anche una chiarezza di stile che Hawking deve aver sviluppato per necessità, vista la sua malattia.
All’epoca non aveva ancora il sintetizzatore vocale e parlava con grande difficoltà: frasi brevi che andavano dritte al cuore del problema. Inoltre, è difficile negare che le sue condizioni fisiche non abbiano colpito l’immaginario del pubblico».
E, sempre nella ricostruzione di Penrose, questo capolavoro della divulgazione scientifica sarebbe conseguenza diretta della malattia: «La diffusione del suo sapere tra un pubblico molto ampio era uno degli obiettivi di Stephen, ma a spingerlo verso la scrittura ci furono anche considerazioni economiche.
Aveva bisogno di molto denaro per la famiglia e per l’équipe che gli garantiva assistenza sanitaria».
Il fascino delle origini del cosmo, i suoi segreti svelati da una delle menti più brillanti, un linguaggio essenziale. Una vita difficile ma straordinaria. Un mix di ingredienti che continua a fare di Dal big bang ai buchi neri un grande successo editoriale e che ha trasformato Stephen Hawking in una pop star senza confini spazio-temporali.
Repubblica 23.3.18
Intervista a Guido Tonelli
“Ci insegna che è possibile spiegare l’universo con una sola formula”
di Luca Fraioli
ROMA «Nel 1988 lavoravo al Fermilab di Chicago, ma il successo di Dal big bang ai buchi neri contagiò anche gli Stati Uniti. E un po’ sorprese noi fisici delle particelle». Guido Tonelli, coautore della scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra nel 2012, oggi insegna fisica all’Università di Pisa e scrive libri di divulgazione: La nascita imperfetta delle cose
(2016) e Cercare mondi (2017), entrambi per Rizzoli.
Professor Tonelli, Hawking era già allora una celebrità tra i fisici?
«Era molto conosciuto come cosmologo. Le sue teorie erano prese sul serio e con molto rispetto ma, in mancanza di prove sperimentali, non venivano considerare così eclatanti. Paradossalmente, l’importanza del suo contributo alla scienza è diventata palese nei venti anni successivi».
Come si può riassumere?
«Hawking, come solo le grandi menti sanno fare, si è concentrato su un dettaglio che era sotto gli occhi di tutti e lo ha dilatato mostrandone la forza rivoluzionaria. Tutti sapevano che secondo le equazioni di Einstein ci possono essere singolarità dello spazio-tempo, i cosiddetti buchi neri. Ma la maggior parte della comunità scientifica li considerava delle curiosità matematiche. Hawking invece ne ha studiato le proprietà come fossero oggetti fisici.
Arrivando a ipotizzare che, anziché inghiottire tutta l’energia e la materia che gli capita a tiro, ne possono anche emettere. E a forza di emettere radiazioni possono persino evaporare. I buchi neri così diventano fondamentali nella dinamica dell’Universo. E oggi, anche se non c’è ancora evidenza sperimentale, il consenso della comunità scientifica è quasi unanime».
Torniamo all’Hawking divulgatore. Secondo il collega e amico Roger Penrose, il successo del libro fu dovuto anche a un linguaggio particolarmente semplice, dettato dalle sue condizioni fisiche.
«Condivido l’analisi di Penrose.
Ho incontrato due volte Hawking a Ginevra e mi colpì la sua prosa semplificata e condensata perché frutto di un grande sforzo, anche fisico. Stephen ha avuto la capacità di trasformare un suo vincolo in un vantaggio».
In “Dal big bang ai buchi neri” Hawking scrive: “Qualcuno mi disse che ogni equazione avessi incluso nel libro avrebbe dimezzato le vendite. Alla fine, però, ho fatto una eccezione per E=mc²”. Lei, da scrittore di scienza, cosa ne pensa?
«Che evitare le formule sia giusto. E non solo per una mera questione di copie: noi abbiamo il dovere di comunicare ciò che abbiamo capito dell’Universo al pubblico più ampio possibile.
Perché la conoscenza scientifica, presto o tardi, ha un peso sulla vita di tutti. È chiaro che per me sarebbe molto più facile usare le formule e, inoltre, il linguaggio piano spesso non riesce a contenere tutto ciò che c’è in una formula. Ma è un rischio che vale la pena correre».
E se lei, come Hawking, dovesse scegliere una sola formula da mettere in un libro?
«Il principio di indeterminazione di Heisenberg: è difficile da spiegare a parole, ma ci dice che l’Universo può nascere anche dal vuoto».
Il Fatto 23.3.18
Moro, il vecchio “album di famiglia” ha le foto sbiadite
di Miguel Gotor
Il 28 marzo 1978 Rossana Rossanda pubblicò su il manifesto un articolo in cui analizzava il linguaggio usato dai brigatisti nei loro due precedenti comunicati e affermava che le sembrava “di sfogliare l’album di famiglia”: “Chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Brigate rosse. Ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”.
In un secondo articolo sullo stesso giornale, che sin dal titolo riproponeva l’immagine dell’album di famiglia, sempre la Rossanda si chiedeva con malizioso stupore: “Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché”. La fondatrice de il manifesto si riferiva a un intervento del dirigente del Pci Emanuele Macaluso, il quale si era chiesto quale mai fosse “l’album” conservato dalla Rossanda, certamente, a suo dire, privo della foto di Palmiro Togliatti. Inoltre, Macaluso aveva fatto notare che della stessa opinione della Rossanda erano “quei fogli conservatori come il Giornale di Montanelli che si è affrettato a pubblicare questa sua ‘testimonianza’, ma anche alcuni esponenti della Dc e redattori de il Popolo”, per non parlare della campagna di stampa sullo “stalinismo” in cui si distingueva anche Lotta Continua così da realizzare una convergenza “degli anticomunisti di destra e di sinistra veramente impressionante”.
In effetti, negli anni successivi, l’espressione “album di famiglia” sarebbe diventata quasi proverbiale, conseguendo un vasto, trasversale e duraturo successo presso l’opinione pubblica italiana che cominciò a utilizzarla per accreditare la tesi di una filiazione diretta delle Brigate rosse dal Pci. Una “famiglia” da cui la Rossanda era stata radiata nove anni prima, al termine di una conflittualità interna che aveva lasciato una reciproca scia di incomprensioni e di risentimenti.
In realtà, se si eccettua Prospero Gallinari, da ragazzo militante nei giovani comunisti di Reggio Emilia e allontanato “da sinistra” dal partito in quanto tardivo epigone della tradizione “secchiana”, ostile a Togliatti prima e a Berlinguer poi, la stragrande maggioranza dei componenti brigatisti protagonisti dell’operazione Moro provenivano da diversi filoni e percorsi politici. A partire dal loro capo, Mario Moretti, che alla fine degli anni Sessanta aveva frequentato gli ambienti cattolici di “Gioventù studentesca” e si era iscritto all’Università del Sacro cuore di Milano.
La stragrande maggioranza degli altri (Rita Algranati, Barbara Balzarani, Anna Laura Braghetti, Alessio Casimirri, Adriana Faranda, Alvaro Lojacono, Germano Maccari, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Valero Morucci, Bruno Seghetti, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca) aveva militato in Potere operaio e, dopo il suo scioglimento, aveva intrapreso la strada della lotta armata all’interno di una serie di sigle, comitati e collettivi (Fac, Co.co.ce, Tiburtaros, Viva il comunismo) poi confluite nella colonna romana delle Br. Come è noto Potere operaio era sorto sul finire degli anni Sessanta in radicale conflittualità con il Pci e, sin dalle origini, aveva avversato la cultura stalinista e il modello sovietico, cui aveva preferito il marxismo critico dell’autonomia operaia e della “nuova sinistra” radicale statunitense e suggestioni guerrigliere di derivazione guevarista e terzomondista.
Di conseguenza, non sorprende affatto che se entriamo, grazie a un verbale di perquisizione dei carabinieri, in un covo brigatista nel 1978, ad esempio quello milanese di via Monte Nevoso, riaffiori dalla polvere una piccola biblioteca che non può essere ricondotta all’armamentario tipico del lettore iscritto al Pci negli anni di zdanoviana memoria come la Rossanda riusciva a far credere tra il compiacimento dei suoi avversari.
Vi troviamo, infatti, La resistenza eritrea di Piero Gamacchio, Prateria in fiamme, ossia il programma politico dei “Weather Underground” il movimento di ispirazione marxista statunitense; la Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani, teorico socialista iraniano morto nel 1975; Tupamors: libertà o morte di Oscar Josi Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas oppure La rivoluzione in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale riscoperto nel corso della Resistenza da Giaime Pintor. E ancora: l’edizione einaudiana del Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il classico del femminismo Vassilissa della rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj, allontanata dall’Urss da Stalin. In camera, in un comodino di fianco al letto, La lotta di classe in Urss con annotazioni del marxista critico Charles Bettelheim, le Opere scelte di Mao Tse-tung e il feltrinelliano Il sangue dei leoni che pubblicava un lungo discorso del leader congolese Edouard Marcel Sumbu.
Come si vede si tratta di un pacchetto di libri che costituiva le letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con influenze anticapitalistiche, trotskiste, maoiste, guevariste, terzomondiste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di certa ispirazione antistalinista e antisovietica.
Ciò nonostante la formula “album di famiglia” ebbe un duplice successo propagandistico che meriterebbe di essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale ossessione anticomunista (democratica e anti-democratica) e permetteva di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno di stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale – che in quelle ore e in quei mesi era anzitutto di carattere giudiziario e penale – del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato mondo extra-parlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica all’interno della multiforme costellazione del “Partito armato”.
Un laccio intricato e scivoloso, strettosi sempre più nel corso degli anni anche grazie a una serie di ambiguità, reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza di troppo. In realtà, Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta c’entravano assai poco e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi purificatore per non guardare in faccia la realtà, la metastasi cresciuta dentro il corpo estremistico e radicale della società italiana.
Anzi, quei percorsi biografici e quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo di giovani brigatisti non erano dei marziani scesi sul pianeta terra, ma erano a loro modo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza, dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del movimento studentesco e operaio italiano dal 1968 in poi, come se le differenti realtà ed esiti dei tanti percorsi esistenziali fossero stati però attraversati da uno stesso sistema di vasi comunicanti.
Questo è il nodo storico che bisogna sciogliere, al di là della nevrosi cerimoniale degli anniversari che ripropone ormai stancamente i soliti dibattiti, se vogliamo per davvero comprendere quegli anni: questo è l’album di famiglia che bisognerebbe avere il coraggio e l’umiltà di sfogliare.
(2/continua)
Il Fatto 16 marzo 2018
“Il Presidente deve morire”. La profezia su Moro e le Br
Il “piano b” - Nel ’69 l’articolo del “Bagaglino”: “Dio lo salvi”. Il leader Dc isolato anche per i dubbi di Berlinguer. Il 16 marzo in via Fani era tutto pronto
di Miguel Gotor
Il 16 marzo di quarant’anni fa, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro e sterminarono la scorta composta da Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Quella mattina passarono a prenderlo e se lo portarono via come se si fossero dati un appuntamento. Nelle ultime due settimane Moro si era esposto troppo, fino a rimanere isolato. Nel corso del discorso ai gruppi Dc del 28 febbraio 1978 aveva forzato il passo per raggiungere l’obiettivo di includere i comunisti nella maggioranza di governo, per la prima volta dal 1947. Un coraggioso atto di imprudenza, forse l’unico e l’ultimo della sua vita politica, in ragione dell’addensamento, in quegli ultimi mesi, delle resistenze del contesto internazionale della Guerra fredda e della vischiosità del fronte interno e degli apparati. Uno strappo che aveva fatto sì che Moro diventasse l’unico personale garante di quell’accordo, mentre nelle stesse ore Enrico Berlinguer diventava sempre più dubbioso e recalcitrante.
Il colpo, secco e feroce, venne da sinistra, dagli esponenti del “partito armato”, ma avrebbe potuto arrivare da destra, dai cosiddetti “strateghi della strategia della tensione” e il risultato non sarebbe cambiato. Per persuadersi di questo meccanismo basterebbe prendere sul serio un articolo premonitore di Pier Francesco Pingitore che uscì nel 1969 sul Bagaglino intitolato “Dio salvi il presidente” in cui venivano descritti, con satirico e informatissimo puntiglio, il percorso che Moro faceva ogni mattina, le sue abitudini, il numero dei poliziotti di scorta, le qualità delle armi da usare per colpirlo, il punto esatto dove sarebbe stato agevole ucciderlo (presso la Chiesa di Santa Chiara secondo il “piano a” e proprio in via Fani secondo il “piano b”). Un articolo minacciosamente premuroso (talora la satira serve a veicolare le veline dei servizi e avvertimenti serissimi) che iniziava ponendosi questa domanda: “Quindici uomini vegliano sulla vita dell’onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?”, oppure dal pugnale del fanatico cattolico che uccise nel 1589 il re di Francia Enrico III, il cui omicidio era ricordato in posizione enfatica alla fine dell’articolo, sottolineando come fosse protetto da ben 45 uomini di scorta e non solo 15 come Moro.
In realtà l’operazione ordita dalle Brigate rosse nove anni dopo l’uscita di questo scritto si sarebbe rivelata più raffinata: non un semplice regicidio, come quelli avvenuti più volte nella storia, a partire da Giulio Cesare, ma il suo sequestro e, poi, l’uccisione. L’eccezionalità della vicenda Moro è tutta qui: è il rapimento di un sovrano che si conclude con la sua morte, non un assassinio e basta. Un sequestro di persona che sarebbe equivalso al sequestro di uno Stato a partire dal suo capo (e capo dello Stato in senso proprio Moro lo sarebbe diventato se avesse vissuto ancora qualche mese) dei suoi segreti, delle sue informazioni sulla sicurezza nazionale ed estera. Un rapimento funzionale a distruggerne l’integrità morale, civile e politica, a massacrarne l’immagine in modo che quel disegno di tessitura e di conciliazione non potesse avere continuatori. In tanti avevano l’interesse, sia tra le eterne fazioni delle contrade nostrane sia tra le nazioni amiche, che l’Italia rimanesse lacerata e in balia degli eventi perché negli ultimi trent’anni quel Paese si era eccessivamente allargato, perdendo la guerra ma vincendo la pace, e perciò facendosi troppi nemici.
Soltanto nel marzo 1990 si conobbero i nomi di nove partecipanti all’agguato, canonizzati nel memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci, redatto nel 1986 e inviato riservatamente all’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda la verità giudiziaria sull’agguato di via Fani, quel giorno entrarono in azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981, Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel 1988, ma poi espatriato in Svizzera, e Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993, Morucci si ricordò anche di Rita Algranati, moglie di Casimirri, arrestata nel 2004.
I brigatisti portarono via due delle cinque borse di Moro e, nella concitazione dell’azione, bisogna riconoscere che seppero scegliere con chirurgica precisione: presero infatti la borsa con le medicine e quella, secondo la testimonianza della moglie, con i “documenti riservatissimi”.
L’agguato di via Fani accelerò la formazione del nuovo governo Andreotti e lo stesso giorno i sindacati proclamarono lo sciopero generale. Nelle principali città si tennero manifestazioni in cui le bandiere rosse del Pci e quelle bianche della Dc si confusero con i vessilli dei sindacati. Nella tarda mattinata gli esponenti di Autonomia operaia e del movimento studentesco tennero un’assemblea presso l’Università di Roma: esaltazione, euforia, eccitazione, ammirazione, smarrimento, paura, dubbio e attesa composero l’ampia e contraddittoria gamma sentimentale di questo vasto schieramento giovanile. Un’atmosfera tesa e sfuggente che il trascorrere degli anni e i balsami della memoria e del reducismo avrebbero contribuito a offuscare, fra una serie di inevitabili rimozioni, ambiguità e reticenze generazionali: chi aveva sparato a via Fani non era un marziano, ma un compagno di banco o magari il ricordo del primo bacio. Il giornale Lotta Continua l’indomani intitolò: “Respingiamo il ricatto: né con lo Stato, né con le Br”, facendo riferimento al clima di quest’assemblea. Uno slogan che, se vogliamo dirla tutta, coglieva lo spirito del tempo non soltanto fra quelle fasce studentesche, ma fra ampi strati del mondo operaio e della piccola e media borghesia italiana in cui diffusi umori giustizialisti e antiparlamentari lasciavano mormorare: poveri uomini della scorta, certo, ma Moro era un politico di “Palazzo” e dunque…
A quarant’anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto, ma viene da chiedersi se questo oggi sia un dato storico rilevante e non l’ovvietà che caratterizza ogni omicidio politico. Da alcune testimonianze oculari è possibile dedurre che furono presenti all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda, anche se i brigatisti hanno sempre smentito questa presenza, che li costringerebbe ad ammettere le relazioni intercorrenti tra le Br e le altre componenti del cosiddetto “partito armato”. Vale a dire la miriade di sigle, che spuntavano come funghi, composte in buona parte da una minoranza di ex militanti di Potere Operaio e di Lotta continua, i quali, dopo lo scioglimento delle due organizzazioni, invece di ritornare a casa o alle libere professioni dei padri, avevano preferito, sull’onda di ritorno del movimento del 1977, impugnare le pistole e imboccare la strada della lotta armata. E che dire poi di un confronto con il sequestro del magistrato Mario Sossi, realizzato dalle Brigate rosse nel 1974: allora non fu necessario eliminare la scorta, e sappiamo che vennero impiegati almeno 18 uomini, contro i dieci di via Fani. Un altro dato di fatto induce a ritenere che i numeri non tornano: nelle ore successive al sequestro le Brigate rosse fecero beffardamente ritrovare ben tre macchine utilizzate nell’agguato tutte in una stesso posto, la piccola via Licinio Calvo, un’operazione logistica che, oltre a una spiegazione ragionevole ancora mancante, deve avere richiesto la collaborazione di una manovalanza più numerosa.
Anche la dinamica dell’agguato, quella restituita dalle testimonianze dei protagonisti e dalle non meno scivolose perizie balistiche, suggerisce la presenza di altre persone ancora non identificate. Un’azione non semplice perché si trattò di colpire i bersagli in modo selettivo, ossia uccidendo i due occupanti della vettura di Moro, ma lasciando incolume l’ostaggio da prelevare, colui che, secondo un testimone oculare, avrebbe urlato (e si fa fatica a immaginare Moro urlare) “mi lascino andare, cosa vogliono da me”.
Sull’agguato di via Fani si stese prontamente la coltre ideologica della “geometrica potenza di fuoco” di un osservatore interessato come Franco Piperno, ma in realtà le perizie e le stesse testimonianze dei brigatisti dicono altro. In effetti, l’aspetto più paradossale di tutta la storia è proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che le loro armi si incepparono nel corso dell’azione. Del resto, la seconda perizia ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre un terzo composto da veri e propri “residuati bellici” come ammesso dallo stesso Moretti.
L’intervento di un tiratore scelto – per gli esegeti della Commissione Moro, un quinto sparatore da destra non ancora identificato che avrebbe giustiziato con un colpo di grazia il maresciallo Leonardi – potrebbe spiegare perché i brigatisti del gruppo di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in questo modo più facilmente individuabili così da evitare di essere colpiti dal fuoco amico di un possibile tiro incrociato.
L’ultima commissione Moro ha accertato la presenza di due macchine dalla posizione sospetta: un’Austin così malamente collocata da impedire alla vettura della scorta di Moro di svincolarsi (un particolare notato dallo stesso Morucci nel suo memoriale) e una Mini Cooper parcheggiata davanti alle fioriere dove si nascose il gruppo di fuoco. Le tardive ricerche sui loro proprietari hanno rivelato in entrambi casi dei profili biografici gravitanti nell’area dei servizi segreti nazionali. Un dato di fatto, ma anche le coincidenze possono esserlo.
Le ultime testimonianze avvistarono Moro e i suoi rapitori in piazza Madonna del Cenacolo. Secondo la versione diffusa a rate dai brigatisti (peraltro gravida di evidenti contraddizioni logiche e pratiche) sarebbe stato portato in via Montalcini, nel quartiere della Magliana, da dove non si sarebbe mai mosso nel corso dei 55 giorni più bui della storia della Repubblica. Grazie all’attività della Commissione Moro oggi sappiamo che Gallinari, nell’autunno 1978, trovò rifugio in via Massimi, a poche centinaia di metri da via Fani e da via Licinio Calvo, dove vennero rilasciate le macchine del sequestro. Evidentemente in quello stabile di proprietà dello Ior, abitato da alti prelati, diplomatici, giornalisti, agenti e società di copertura di servizi segreti mediorientali e statunitensi, Gallinari dovette sentirsi sufficientemente al sicuro. Oppure, più banalmente (perché questa al fondo, fatta salva l’eccezionalità della vittima, è una storia banale se si pensa che la maggioranza dei sequestri termina con la morte dell’ostaggio), gli assassini ritornano sempre sul luogo del delitto. (1/continua)
Repubblica 23.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 3
Attacco al cuore dello stato
“Sì, ho capito chi siete”, dice il presidente della Dc alle Brigate Rosse. Si trova ormai in via Montalcini, al buio, nel covo mascherato da appartamento borghese dei suoi rapitori, che lo fotografano vestito da prigioniero Anche il Paese inizia a capire. A Montecitorio, si decide di accelerare il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti
di Ezio Mauro
«Presidente, ha capito chi siamo?». Aldo Moro è in piedi, bendato, nello studio del “covo” di via Montalcini, mascherato da appartamento borghese di una giovane coppia senza figli. Anna Laura Braghetti, la padrona di casa, dopo aver visto in televisione la scena insanguinata di via Fani era scesa in strada quando vide arrivare la sua automobile – un’“Audi Citroën” familiare – guidata da Mario Moretti e le aprì la porta del garage. Poi salì di corsa le due rampe, vide che erano sgombre, controllò che l’ascensore fosse fermo e diede il via libera. Germano Maccari e Prospero Gallinari afferrarono le due maniglie della cassa di legno che nascondeva Moro e in meno di un minuto la portarono dall’auto nello studio, appoggiandola a terra. Chiusa la porta infilarono i cappucci, aprirono la serratura, scoperchiarono la cassa, quindi aiutarono il prigioniero a sollevarsi, uscire e mettersi in piedi. Sentì nel buio la voce di fronte a sé che gli faceva quella domanda, una voce a cui si sarebbe abituato nei 55 giorni del sequestro: era l’uomo che l’avrebbe interrogato in cella, il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti. «Sì – rispose senza sapere quanti erano gli uomini intorno, dove lui fosse in quel momento, cosa sarebbe successo dopo il rapimento –. Ho capito chi siete».
Poco per volta anche lo Stato capisce. La notizia arriva al Capo del governo, Giulio Andreotti, con una telefonata del ministro degli Interni, Francesco Cossiga, proprio mentre stanno giurando i 47 sottosegretari, guidati da Franco Evangelisti. Nello studio di Andreotti, dove c’è il ministro del Tesoro Pandolfi e il capogruppo Dc alla Camera, Piccoli, entra il segretario del Pci Berlinguer, accompagnato da Natta e Pajetta. Poco dopo arrivano il segretario socialista Craxi, quello della Dc, Zaccagnini, il ministro De Mita.
Ma bisogna scendere nel Transatlantico di Montecitorio, affacciarsi al corridoio dei passi perduti per misurare la febbre politica di un Paese devastato. «Ci vuole la pena di morte», continua a ripetere il leader del Pri Ugo La Malfa, impietrito. «È una dichiarazione di guerra – aggiunge il ministro Tina Anselmi –, e bisogna rispondere con leggi di guerra, eccezionali». Si decide di accelerare al massimo il voto di fiducia al governo, per avere subito un esecutivo nella pienezza dei poteri. Lama, Macario e Benvenuto, segretari di Cgil, Cisl e Uil convocano una manifestazione in piazza San Giovanni “per difendere la democrazia” e proclamano lo sciopero generale in tutt’Italia.
Il Palazzo guarda al Paese, per capire la reazione, misurare il consenso: fin dove arriva la “zona grigia” di silenzioso sostegno all’eversione? Gli operai stanno uscendo dalle fabbriche, si fermano davanti ai cancelli, discutono. A Torino i magistrati hanno appena deciso che il processo a Curcio e al nucleo storico brigatista non verrà rinviato, l’udienza di lunedì è confermata. Ma nel cortile della questura torinese, in via Grattoni, appena hanno saputo del massacro di via Fani e del rapimento, cinquanta agenti si sono rifiutati di uscire per il servizio di scorta: «Basta, siamo troppo esposti, male armati, mandati allo sbaraglio ». Arriva la prima telefonata di rivendicazione. Alle 10.10 una voce d’uomo chiama il centralino dell’Ansa, in via della Dataria, sotto il Quirinale: «questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Dc Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Brigate Rosse». Un’altra telefonata a Torino, che annuncia un comunicato e definisce Moro “servo dello Stato”. Una terza a Milano, con una frase che diventerà la cifra dell’intera vicenda: «Abbiamo portato l’attacco al cuore dello Stato».
La sfida è fissata. Berlinguer è appena uscito da Palazzo Chigi, l’autista gli apre la porta della macchina ma lui scuote la testa: «A piedi». Si è radunata una folla davanti a tutti i palazzi del potere, la gente cerca segnali di governo e di sicurezza nell’emergenza. Si dice che i terroristi abbiano usato una pistola sovietica, si aggiunge che forse uno di loro è ferito. Scattano cinquecento perquisizioni, trentamila uomini delle polizie sono in allarme. Ma sono le istituzioni al centro del mirino, la politica deve difenderle. A Montecitorio si accendono e si spengono le luci che annunciano la seduta, gracchia la “chiama”, tutti si affrettano ad entrare. Quando il Transatlantico è già deserto arriva per ultimo l’ex leader del Pci Luigi Longo, anziano e malato, sorretto da due commessi che lo portano dentro l’aula, in una giornata che entrerà nella storia. Un altro grande vecchio, il socialista Pietro Nenni, ha voluto andare in visita di solidarietà a piazza del Gesù, ha parlato brevemente col segretario di Zaccagnini, Cavina, poi è impallidito, si è fatto accompagnare al Senato, dove ha avuto un collasso. Giornali radio e telegiornali rilanciano queste immagini e le domande di tutti, in una gigantesca edizione straordinaria che arriva in tutte le case italiane.
Anche nella casa di via Montalcini la televisione è accesa a basso volume, dietro le tende chiuse, le inferriate alle finestre, la porta sbarrata, il falso giardino che deve trasmettere un’idea di normalità, e dove a Natale erano stati accesi gli addobbi luminosi. Ma dentro, tre uomini hanno appena indossato un cappuccio nero cucito a mano per coprirsi il volto, con due buchi rotondi per gli occhi e uno più lungo e sottile per la bocca. Sono Germano Maccari, un “irregolare” delle Br che è stato scelto dall’organizzazione come “marito” della padrona di casa, Anna Laura Braghetti, sotto il nome di “ingegner Altobelli”, Prospero Gallinari, che non dovrà essere visto da nessuno perché è evaso, ricercato e latitante, e Mario Moretti, il capo, che vive nel covo di via Gradoli con Barbara Balzerani, va e viene in via Montalcini, qualche volta si ferma a dormire, ma è sempre presente – lui solo – quando si deve interrogare il prigioniero.
Prima di varcare la soglia della cella da cui uscirà solo per essere ucciso, Moro viene liberato dalla benda. Vede subito davanti a sé, sul muro dietro il letto, lo stendardo di cotone rosso scuro con due parole in giallo, “Brigate Rosse”, e in mezzo la stella a cinque punte che lo sovrasterà per 55 giorni, spogliandolo della sua identità politica per ridurlo a prigioniero. Per prima cosa deve togliersi i suoi vestiti, l’ordine gli fa subito capire che i tempi saranno lunghi. Gli indicano con la mano il water chimico da campeggio, contro il muro, un comodino piccolissimo, il microfono in alto, il buco per la presa d’aria, la brandina con lenzuola e coperte. Sopra c’è una camicia chiara da lavoro, un paio di pantaloni da tuta con l’elastico in vita (lui portava cintura e bretelle insieme) un pigiama, due pantofole: la sua divisa da carcerato. La prigione sembra un corridoio cieco, molto alto, lungo due metri ma largo 90 centimetri. Appena 10 in più della cassa con cui l’ostaggio è stato trasportato in auto.
È una stanza fantasma, la porta in legno con spioncino nascosta dietro una falsa parete, e uno specchio davanti per restituire ampiezza all’ambiente. L’avevano costruita, rimpicciolendo lo studio, Gallinari e Moretti in vista del sequestro, incollando pannelli di gesso a incastro, insonorizzandoli con la lana di vetro preparata da Maccari, ritappezzando l’esterno, montando i faretti con la luce regolabile e celando il tutto dietro una libreria alta al soffitto, che girava su un cardine per consentire l’apertura della porta. Tutto l’appartamento era stato scelto con cura, già sapendo che dietro le apparenze normali avrebbe dovuto nascondere una prigione. La Braghetti l’aveva comprato un anno prima del sequestro, dopo aver ricevuto da Moretti i contanti provenienti dal sequestro dell’armatore Costa, insieme con istruzioni ben precise: primo piano senza portiere, niente panchine, vetrine, scuole o fermate di autobus di fronte (adesso c’è addirittura un capolinea), due stanze da letto, salone, due ingressi e soprattutto garage chiuso.
Braghetti saprà soltanto dieci giorni prima dell’agguato che il suo ospite prigioniero sarà Aldo Moro, e il 16 marzo, rinchiuso in cella il prigioniero, si farà raccontare tutto da Moretti e da Gallinari, mentre fumano seduti intorno al tavolo della cucina: dall’agguato alla sparatoria, ai mitra inceppati, alla fuga. Ascolta i particolari militari dell’operazione, sente valutare la velocità, soppesare i rischi, criticare le vecchie armi, capisce che c’era una “prigione B” per qualche emergenza improvvisa, uno scarto del piano, una variante. Ma non chiede di più.
Lei è “irregolare”, dunque non clandestina, quindi più esposta perché vive una doppia vita, va in ufficio ogni mattina all’Eur chiudendosi alle spalle la porta che tiene imprigionato l’uomo che tutta l’Italia cerca, rientra la sera in tempo per cucinare la cena all’ostaggio, e anche il pranzo del giorno dopo, quando lei è fuori. Come una coppia qualsiasi lei e Moretti hanno comprato due divani a fiori nei mobilifici sparsi sul raccordo anulare, hanno scelto i lampadari, i pensili, le tende bianche e i piatti, i letti, due poltrone di vimini per il terrazzo. Poi hanno aggiunto una boccia con due pesci rossi, una gabbia con i canarini: casomai bussassero i vicini, la prima occhiata all’interno catturerebbe l’immagine convenzionale e tranquilla di un salotto italiano, mentre dietro l’intercapedine, in un piccolo vano-armadio dove sono appesi i vestiti di Moro accanto alla cella, l’inquilino invisibile, Gallinari, vigilerebbe con la pistola in pugno.
Il dentro-fuori della Braghetti è scientifico, schizofrenico, minuzioso, guardingo. Per poter essere presente il 16 marzo all’arrivo di Moro, chiede per tempo quattro giorni di ferie alla sua azienda di import- export, con la scusa di andare a sciare in Abruzzo. E per fingere di essere stata a 1200 metri, in montagna, si compra una lampada Uva che garantisca un velo di abbronzatura, fabbricata nella casa delle Brigate Rosse, nei primi giorni del sequestro, mentre preparava pasta e ceci, verdure cotte, e la pasta e lenticchie preferita dal prigioniero.
Lui ha risposto a una domanda sul cibo appena entrato nella cella, dicendo che può mangiare di tutto, poca carne e poco pane, niente fritti (ha da tempo rinunciato anche alle frittelle della moglie), minestre volentieri, come le verdure, un po’ di formaggio, un bicchiere di vino. Fuma? Tre sigarette al giorno, quelle piatte, senza filtro. Si è appena cambiato quando entra Moretti, gli dà del “tu” e per prima cosa gli chiede come sta di salute: bene, risponde Moro, ma subito chiede le sue medicine che sono nelle borse, e in particolare un tranquillante. La prima preoccupazione dell’ostaggio è per le sue borse. Continua a ripetere che sono cinque. Morucci ne ha prelevate dalla “130” solo due, le altre tre sono sparite ( una verrà incredibilmente “ ritrovata” cinque giorni dopo il rapimento nel bagagliaio dell’auto), faranno parte per sempre dei misteri di via Fani. Adesso quelle due borse nelle mani dei brigatisti vengono posate sul tavolo, per controllare prima di tutto che non abbiano rilevatori di posizione, microspie, poi vengono aperte e ispezionate all’interno.
Per i rapitori è la prima delusione: cercavano misteri, trovano i segni della banalità quotidiana della vita parlamentare.
Nella prima borsa, dove Eleonora Moro dirà che c’erano sicura mente documenti politici riservati, che il marito voleva sempre con sé, secondo i brigatisti sono custodite soltanto lettere di raccomandazione, pratiche del collegio elettorale, il testo di un disegno di legge sulla riforma della polizia, la sceneggiatura di un film. Nella seconda, ecco le medicine, francobolli, penne, tesi di laurea, gli occhiali di ricambio. Nella tasca del cappotto c’è una fiaschetta di whisky, per contrastare gli abbassamenti di pressione, ma non c’è da nessuna parte il tranquillante che Moro chiedeva. Anna Laura Braghetti esce per comprarlo. Teme che il nome della medicina sia un segnale di riconoscimento del rapito, forse un codice prestabilito con la famiglia per le situazioni estreme d’emergenza, magari le farmacie sono allertate: per prudenza fa cinque fermate in autobus per proteggere il covo allontanandosi, scende alla sesta, trova quel che cercava. Tornando, vede gli strilloni che vendono le edizioni straordinarie dei giornali, tutti per strada e nei negozi parlano di Moro, lei è come invisibile mentre sta rientrando a casa per preparargli la prima cena.
Quelle borse verranno tagliate a liste sottili con un tronchesino, e la Braghetti le brucerà a più riprese come rametti in giardino con foglie, erbacce e sterpaglie, mentre le carte di Moro saranno incendiate nella tazza del water, dopo essere state strappate, sminuzzate e imbevute d’alcool. Spaccati e pestati fino a frantumarli, come in un mortaio, anche gli occhiali, con la plastica che puzza mentre viene bruciata in salotto. Gallinari subito dopo il rientro a casa sventra la cassa di legno usata per il trasporto dell’ostaggio, la fa a pezzi, e poco per volta il tutto finisce nei cassonetti dell’immondizia. Come se i brigatisti sapessero fin dal primo giorno che non servirà più, perché il prigioniero non farà il viaggio di ritorno.
Ma adesso la partita mortale è appena incominciata. Moretti si infila il passamontagna, torna davanti a Moro. Il prigioniero è seduto sul letto, si sta guardando intorno. Ha mille domande, ma non è ancora il momento. Deve capire: cerca indizi, ascolta, tenta di cogliere i particolari. Gli hanno detto che gli porteranno acqua calda, una bacinella, sapone per lavarsi, con gli asciugamani. Gli cambieranno gli abiti e la biancheria ogni volta che è necessario. Lo informano che registreranno ogni cosa che dice, che lo controlleranno giorno e notte attraverso lo spioncino della porta. Se gli serve qualcosa, può chiamare i suoi carcerieri, da fuori si sente tutto. Se vuole cambiare l’aria, lasceranno la porta socchiusa per qualche momento, come devono fare subito, nelle prime ore, quando Gallinari che lo segue con attenzione dallo studio si accorge che comincia a respirare a fatica.
Moretti ha in mano una macchina fotografica Polaroid, con cui dopo la fase militare dell’operazione Fritz sta per aprire la fase due, politica. Prima lo Stato era il bersaglio, attraverso uno dei suoi uomini di spicco, adesso diventa controparte, interlocutore. Per questo il capo dei brigatisti deve racchiudere tre elementi nello spazio quadrato di un’istantanea: la prova che Moro è vivo, la dimostrazione che è soggiogato, la conferma che la sua sorte dipende dalle Br.
Chiede all’ostaggio di sedersi nel centro del letto, davanti allo stendardo, proprio sotto il cerchio con la stella e la scritta. Per la seconda volta, dopo via Fani, lo ha nel mirino. Lo inquadra dal petto in su, probabilmente lui ha le mani giunte sulle ginocchia, ma non si vedono. Il carceriere verifica che lo striscione brigatista giganteggi, dominando la scena e il prigioniero. Scatta. Estrae. Scuote. Controlla: ora ha in mano la fotografia che mostrerà domani a tutto il Paese sgomento Moro vivo, ma in un’immagine mai vista prima. L’uomo più importante d’Italia, come lo definisce quel giorno l’avvocato Agnelli, appare indifeso e impotente, con la camicia slacciata e la canottiera in mostra, il capo leggermente inclinato alla sua destra, una smorfia di dignità prigioniera sul volto, nell’umiliazione dell’intimità violata. Il doppiopetto scuro democristiano si è denudato, l’abito di Stato si è rovesciato violentemente nel suo contrario, in quei pochi centimetri di carta lucida: l’immagine crudele di un uomo inerme, nella potestà altrui, nemica.