La Stampa 7.3.18
Gramsci.com
di Mattia Feltri
Marco Minniti, parlando con Francesco Merlo, cita Majakovskij: «La barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana». Bella. Ma questo mondo è sconfitto, ha aggiunto Minniti, chi ha letto Gramsci e Majakovskij è visto come un aristocratico del passato. Ecco, forse ci stiamo avvicinando. Va bene leggere Gramsci, va benissimo, ma le elezioni hanno evidenziato con definitiva chiarezza che il Novecento è finito. Non la Seconda repubblica, che è stata una confusa coda della Prima, ma il Novecento, con le sue tradizioni politiche di cui, con crescente sciatteria, Forza Italia e Pd sono stati gli eredi. Finite, morte, spazzate via. Oggi la dialettica non è fra destra e sinistra, come si dice da un po’, talvolta irrisi, ma fra globalismo e nazionalismo. Chi sta bene è globalista, chi sta male è nazionalista. Eppure noi tutti viviamo ogni secondo della nostra vita dentro un pianeta senza confini: acquistiamo le camicie su Amazon perché costano meno e ammazziamo il camiciaio che a sua volta legge le notizie su Facebook, e ammazza le edicole. E avanti così. E l’edicolante non si riciclerà come programmatore di software. Ci si impoverisce e ci si spaventa. Questo mondo nuovo, meraviglioso, inesplorato e drammaticamente spietato come lo si governa? La Lega risponde col protezionismo, i cinquestelle con l’assistenzialismo, e saranno follie. Ma la sinistra come risponde? Con Gramsci? Con Keynes? Con Majakovskij? Non è che semplicemente non lo sa e fa niente per saperlo?
La Stampa 7.3.18
Pd, 5 milioni di elettori in fuga. Uno su tre calamitato dal M5S
Solo 450 mila dem pentiti verso Leu. Il 25% dei voti per la Lega sfilati a Fi Carroccio e Cinquestelle intercettano la maggioranza degli astensionisti
di Paolo Baroni
Roma Il Movimento 5 stelle che cannibalizza il Pd e la Lega che prosciuga Forza Italia e recupera voti tra gli astenuti. I dati quasi definitivi del voto di domenica (ieri sera alle 21 su 61.401 seggi ne mancavano ancora 35 con 12 collegi uninominali della Camera e 26, con 7 collegi, del Senato) confermano che ci sono due vincitori: l’M5s, primo partito col 32,7% dei consensi (32,2% al Senato), ed il Centrodestra prima coalizione in assoluto col 37,2% con la Lega che sta 3 punti sopra Forza Italia. Confermata la caduta del Pd, che frana al 19%, ed il flop dell’intero centrosinistra che si ferma al 22,9%. Come pure il modesto risultato di Leu (3,3%). A sera l’attribuzione dei seggi non era ancora ufficiale. Stando però alle proiezioni di Youtrend per SkyTg24 il Centrodestra ne otterrebbe 267 alla Camera e 135 al Senato, l’M5s 229+114, il Pd 108+53 (117+59 l’intero centrosinistra), mentre a LeU ne andrebbero 14+5. In pratica nessuno hai voti sufficienti per formare una maggioranza.
La frana del Pd
Il dato «più clamoroso», secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna, è ovviamente quello del Pd che paga la sostanziale smobilitazione dell’elettorato tradizionale nelle sue aree storiche di insediamento a partire dall’Emilia. In pratica i Dem sarebbero vittime di una sorta di «astensionismo asimmetrico», col risultato che rispetto alle politiche del 2013 perdono ben 2,6 milioni di voti, il 30,2% del totale. Il Pd perde quote rilevanti di voti a favore dell’M5s e spesso anche verso la Lega. Rispetto al boom del 2014, quando arrivò al 40%, Renzi deve così rinunciare ad oltre 5 milioni di voti. Di questi, stando all’Swg, oltre il 15% (1,68 milioni di elettori) ha optata per l’astensione. Un altro terzo (3,36 milioni di elettori) ha invece voltato le spalle all’ex premier, preferendo in gran parte il movimento guidato da Luigi Di Maio a cui sono finiti ben 1,88 milioni di voti (16,8%) e in secondo luogo +Europa che intercetta il 3,4% dei vecchi elettori Pd (e 380mila voti). Un 8% degli oltre 11 milioni di elettori che avevano scelto il Pd, ovvero altri 900mila voti scarsi, ha invece cambiato completamente schieramento optando per il centrodestra, mentre un altro 4% (450 mila voti scarsi) ha optato la sinistra di Liberi e Uguali che riceve dal Pd «solo» il 34,6% dei suoi lettori.
La Lega svuota Fi
Sempre secondo il Cattaneo nel centronord la Lega (che si rivela «attrattiva a 360 gradi») strappa voti anche ai pentastellati, mentre al Sud i 5 Stelle sono una sorta di «pigliatutto». Secondo Swg quasi un terzo degli elettori della Lega (29,5%) proviene dalle file dell’astensionismo, un altro 25,5 è stato invece sfilato a Forza Italia. Che a sua volta sconta una significativa emorragia visto che il 14,7% dei voti del 2013 si è tradotto in astensioni. Rispetto a 5 anni fa il centrodestra comunque conquista 1,9 milioni di voti in più (da 10,1 a 11,99 milioni, + 18,7%). Ma mentre Fi perde il 38,1% dei consensi la Lega li triplica, arrivando così a ribaltare i pesi all’intero dello schieramento con Salvini al 55,5% della «ditta» e Berlusconi appena al 44,5, cosa mai avvenuta dal 1994 in poi.
M5s «pigliatutto»
I 5 Stelle rispetto al 2013 hanno conquistato 1,5 milioni di voti in più (a quota 10,5 milioni, +20,9%). Secondo l’Swg in particolare hanno recuperato molti astenuti (il 19,5% di chi li ha votati domenica non lo aveva fatto alle europee). Per il Cattaneo però oltre a intercettare voti in uscita dal Pd (9,8%), nelle città del nord e del centro i grillini subiscono significative perdite a favore della Lega. Mentre al Sud avviene l’opposto, con l’M5s che ruba voti al Centrodestra.
Arginato l’astensionismo
Osservando le curve sulla partecipazione al voto, che ha tenuto rispetto al 2013 (72,9 contro 75%), secondo il Cattaneo che parla «ri-mobilitazione differenziata» tra Nord e Sud, l’M5s è riuscito a mobilitare l’elettorato meridionale «scontento per l’operato del governo», mentre la Lega ha catalizzato i voti di tanti elettori che nel 2013 avevano abbandonato elusi il centrodestra. In entrambi i casi M5s e Lega, intercettando il voto di protesta, sono riuscite ad arginare l’astensionismo e se non addirittura a ridurlo come è avvenuto in gran parte del Sud.
La Stampa 7.3.18
Macaluso: Pd al capolinea, una somma di comitati elettorali
“Al Sud masse lasciate sole davanti alla demagogia”
di Andrea Carugati
«Quando nacque il Pd nel 2007 scrissi un libro dal titolo “Al capolinea”, che criticava la fusione di due stati maggiori arrivati appunto al capolinea. Mi pare che oggi questo nodo sia arrivato al pettine...». Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci e della Cgil, 94 anni da compiere il 21 marzo, è uno dei più attenti osservatori della sinistra italiana.
Perché questo tracollo dopo 5 anni di governo non negativi?
«Mi faccia partire dal Mezzogiorno. Qui più che altrove il Pd ha pagato il fatto di non essere un vero partito, ma una somma di comitati elettorali. Nel Sud spontaneismo, trasformismo e clientelismo sono elementi naturali. Il Pci provò a contrastarli con un partito e soprattutto con una cultura politica di massa. Il partito parlava con le persone, con i ceti più disagiati, dava una dimensione collettiva che andava oltre l’interesse del singolo. Ora queste masse sono state lasciate sole davanti alla demagogia dei 5 stelle, alle promesse illusorie di poter avere 800 euro al mese. Non c’era nessuno nelle periferie, in mezzo al popolo a contrastare questo vento, tutto è stato affidato ai tweet e alle tv, e al vertice è mancato un collettivo in grado di discutere davvero di dove stava andando la società. Questo riguarda il Sud, ma anche aree come l’Emilia, dove le case del popolo facevano da filtro degli umori popolari».
I partiti italiani sono cambiati già prima della nascita del Pd.
«I giovani che nel 1994 presero le redini del Pds hanno avuto come unico obiettivo andare al governo. Giusto, ma per farlo hanno perso di vista la funzione del partito, la battaglia culturale, il rapporto con gli intellettuali. In questi anni i dirigenti sono stati scelti solo sulla base della fedeltà a Renzi, non per le capacità organizzative».
Il M5S è erede della sinistra come dice il sociologo De Masi?
«Se guardiamo alla base sociale in parte è vero. Ma manca del tutto una cultura politica: un contadino comunista siciliano degli Anni Cinquanta era più colto di Di Maio. C’è nel M5S una forma di sinistrismo, che si sposa con l’antipolitica e con la negazione della democrazia parlamentare».
C’è un futuro per il Pd?
«Prevedo una trasformazione, dopo una dura battaglia. Non considero sincere le dimissioni di Renzi, continuerà a fare le sue guerriglie per cercare di tornare, ma si aprirà una dialettica vera. Il partito non è fatto solo di renziani, ci sono molte persone in grado di guidarlo: Delrio, Orlando, Franceschini, lo stesso Calenda».
Il Pd dovrebbe governare coi 5 stelle?
«Renzi ha ragione su questo: non si può aderire adesso al progetto degli avversari, ma fermarsi e aspettare quello che farà il Capo dello Stato».
Come giudica il risultato di Liberi e uguali?
«La scissione è stata una sciocchezza, la gente ha capito che il voto a Leu era inutile, era chiaro dove andavano a parare».
Cottiere 7.3.18
Sposetti: «Renzi? La base lo processi Un esecutivo serve, M5S non pericolosi»
di Tommaso Labate
ROMA «Renzi e l’attuale direzione del Pd non sono degni di affrontare il dibattito su quello che dovrà fare da ora il partito. Sono indegni. Lui e la sua cerchia sono delinquenti seriali che hanno distrutto la sinistra e rotto l’idea di comunità. Proporrò la costituzione di “Comitati 5 marzo” per la rinascita del Pd. I circoli devono autoconvocarsi per esaminare il risultato elettorale ed elaborare proposte per tornare a essere un partito vero. Renzi va processato. Ha capito bene, pro-ces-sa-to».
Ugo Sposetti ha sempre pesato le parole. E per lo storico tesoriere del Ds, senatore uscente del Pd, «partito» e «segretario» sono parole sacre. Se oggi parla «di processare Renzi», citando il Pasolini del processo alla Dc, è perché «ci ha portati in una situazione peggiore a quella del ’48. Qua non è rimasto nulla. Lui ha distrutto tutto».
Perché, secondo lei?
«La sconfitta di domenica è figlia di arroganza politica, boria, pressappochismo, visione miope».
In fondo, ogni sconfitta...
«Questa sconfitta non è “ogni sconfitta”. Dietro questa c’è anche l’insano gusto del potere che pervade ogni azione di Renzi».
Renzi ha annunciato le dimissioni.
«Ma quali dimissioni? Tutto quello che sta facendo Renzi in questi giorni e in queste ore è dettato da un vero e disgustoso attaccamento alla poltrona. Per questo non esiste altra via che quella di un vero e proprio processo politico a Renzi da parte della nostra gente».
Non lo chiama più segretario, eppure ha rifiutato di seguire D’Alema.
«La scissione è stata sbagliata e infatti ha generato risultati disastrosi. Quanto a Renzi, è solo uno a cui bisogna ribellarsi subito. Lo sa che hanno fatto la sera delle candidature? Si erano accorti che non avevano un numero sufficiente di donne nelle liste e le hanno inzeppate di pluricandidature della Boschi, della De Giorgi. Tutto per eleggere altri maschi fedeli e senza che le donne alzassero un dito per protestare contro questo scempio. Ma è politica, questa? E non dimentico scelte come Casini a Bologna».
Casini però ha vinto.
«Casini ha profanato le case del popolo. Lo scriva bene. E io, dov’è passato Casini, adesso devo andare a pulire».
Chi dovrebbe decidere cosa deve fare il Pd adesso?
«Si formino i gruppi parlamentari. Si autoconvochino, votino, decidano».
Lei che cosa farebbe?
«Io non mi sono ricandidato. Il 60% degli italiani ha votato per abbattere un regime. E sa chi era quel regime? Era il Pd di Renzi. Io con i regimi non ho nulla a che fare».
Il Pd dovrebbe sostenere un governo?
«Il Paese ha bisogno di un governo».
Di Maio sarebbe in grado?
«Ricordo trent’anni fa quando osservavo in Senato Bossi, da solo, il primo leghista piombato a Roma. Perché io osservo, sa? Ho osservato anche i Cinque Stelle. Sono migliorati molto negli ultimi cinque anni. Non sono pericolosi né li ho mai considerati un pericolo».
Le hanno fatto la guerra sui vitalizi, Sposetti.
«Quella è la loro legittima battaglia politica, che io ovviamente non condivido. Ma va riconosciuto che fanno battaglie politiche, loro. Non personali».
Altro riferimento a Renzi?
«A Renzi va soltanto impedito di fare altri danni a se stesso, al partito, alla sinistra, al Paese».
Chi dopo di lui?
«Non è l’ora di nomi».
Sulla scrivania ha i ritagli sulla vittoria di Zingaretti.
«Da cittadino del Lazio spero che continui a governare bene. Da militante apprezzo la sua capacità di aver tenuto insieme la sinistra, portandola alla vittoria».
Calenda ha preso la tessera del Pd.
«C’è bisogno di gente che voglia dare una mano».
il manifesto 7.3.18
Il trionfo dei 5Stelle al Sud grazie al reddito garantito
di Michele Prospero
Cerca di dirlo in ogni modo, ma la risposta è la mededimissioni finte, nel disprezzo sima: più completo del pubblico pronunciamento. Non ha tratto le conseguenze dovute dopo un plebiscito che lui stesso aveva inventato. Non prende adesso le misure inevitabili per aver portato al tracollo storico il proprio partito. Cos’altro, se non la nichilistica carica distruttiva, ci si poteva attendere da chi per ideologia ha la rottamazione?
L’ONDA ANTIRENZIANA era così forte nel paese che anche le alternative tentate a sinistra del Pd sono state ridimensionate perché ritenute timide e nel complesso poco efficaci nel dare la lezione meritata all’arrogante potere fiorentino. Il chiacchiericcio sul governo di scopo ha confermato nell’elettorato la sensazione che per strappare il sistema occorresse votare per il M5S. Gli attori nuovi erano giudicati titubanti, con proclami sul senso estremo di responsabilità e con una volontà di riannodare i fili di un centro sinistra che non esisteva più e che era avvertito come il problema, non certo come la soluzione. Un voto al M5S era percepito come il contenitore di un più sicuro effetto: una valenza anti-sistema di chi reagiva alla provocazione quotidiana dei media che tendevano a persuadere l’uditorio che era iniziata la magnifica stagione della ripresa, con una crescita sensazionale, con una disoccupazione ormai sconfitta.
IL SUD ABBANDONATO, le periferie senza alcuna speranza hanno inteso reagire al regime del falso che ha avuto nei servizi dei Tg o in conduttori militanti i sacri sacerdoti. Per reagire al regime della falsificazione permanente, in tanti si sono recati ai seggi e hanno dato il voto non a persone, a candidati, a nomi. Hanno voluto graffiare il potere con la scheda che più procura dolore. Quella al simbolo del M5S ha avuto il significato di un investimento: nessun’altra espressione di volontà era più capace di rottura rispetto alla narrazione narcotizzante. La presentazione della squadra di governo degli sconosciuti non ha inciso quanto la reazione al disegno di cancellazione del movimento tentato dai poteri.
Quando tutti i media del potere hanno inscenato ridicoli processi sulla questione degli scontrini e dei rimborsi, hanno scavato ancora più profonda la fossa del governo. I persuasori palesi hanno determinato lo stesso meccanismo difensivo che, nelle europee svoltesi dopo i fatti di Tien An Men, portarono molti voti al Pci, che, in una volontà di annientamento, era stato aggredito dalla stampa anche con la manipolazione di una lettera di Togliatti.
LA SECONDA RAGIONE DEL TRIONFO del M5S è in un misto tra volontà di protezione sociale e un desiderio di resistenza a una destra che nella sua penetrazione territoriale portava il vento del nord. Chi mette sullo stesso piano M5S e Lega dice cose non vere. A nord molti voti del M5S sono passati alla Lega e il tentativo di fornire un’alternativa al nanocapitalismo leghista con una rete di imprese vicine alla Casaleggio è fallito. Nel sud invece il M5S cresce anche come efficace argine alla conquista di Salvini, che ha adottato una simbologia di destra ma che è pur sempre capo di una forza del nord. La Lega è il referente di un’Italia della piccola impresa, che viene sedotta dalla prospettiva della tassazione minima, di condizioni operaie e impiegatizie umiliate dalla legge Fornero e poi è il veicolo di rassicurazione dei ceti popolari mobilitati dalla politicizzazione della paura. Il timore del vento del nord, che promette meno tasse per i ricchi e dunque ancora meno Stato e diritti per i ceti impoveriti, spiega anche la repentina metamorfosi del voto siciliano rispetto alle regionali di alcuni mesi fa. Il M5S, con la sua parola mobilitante del reddito garantito, è apparso come il sindacalista del centro-sud, la sola formazione capace di contestare le esclusioni, i costi sociali della crisi.
PIÙ CHE DESTRA E SINISTRA sono due Italie che emergono, in una riesplosione della differenziazione territoriale come male oscuro che la decomposizione delle regioni rosse aggrava di molto. A differenza che nel 1976, i due vincitori non possono tra loro venire a patti: la Lega perderebbe il reddito garantito della leadership della coalizione di centro destra. Il M5S vanificherebbe il controllo di un’area di sinistra che al non-partito si rivolge tramutandolo di fatto, almeno sociologicamente, in una variante italiana di Podemos. Una parte del Pd, che è in attesa di ulteriori e inevitabili frantumazioni, e la sinistra, che ha comunque superato la prova di sopravvivenza, consapevoli della loro dimensione per ora minoritaria, non possono sottrarsi alla aspettativa di svolta che il voto ha così fortemente espresso.
il manifesto 7.3.18
Dove vanno i voti del Pd. I flussi del cambiamento radicale
Elezioni 2018. Una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato dem del 2013 domenica ha votato per il Movimento 5 Stelle, ritenuto più credibile nella sua proposta. Una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato dem del 2013 domenica ha votato per il Movimento 5 Stelle, ritenuto più credibile nella sua proposta
di Marco Valbruzzi
Sono tante le interpretazioni che si possono dare del voto del 4 marzo, ma quella principale, sulla quale tutti i commentatori politici possono concordare, è che questa tornata elettorale è stata caratterizzata da un messaggio di cambiamento radicale che gli elettori hanno voluto inviare alla classe politica. Si tratta di un messaggio che solo alcune forze politiche più e meglio di altre hanno saputo prima veicolare durante la campagna elettorale e poi intercettare nelle urne. Naturalmente, sappiamo anche qual è stato il partito che ha subito i danni maggiori da questa richiesta diffusa di cambiamento, e cioè quel Partito democratico che nel suo declino elettorale ha portato i consensi dei partiti del centro-sinistra ai loro minimi storici dal dopoguerra ad oggi.
Sappiamo poco, invece, dei partiti che hanno beneficiato da questa ondata di cambiamento e, soprattutto, delle motivazioni. Ma in questo caso ci vengono in soccorso le analisi dei flussi elettorali elaborate nei giorni scorsi dell’Istituto Cattaneo. Gli elementi più rilevanti, anche per il destino delle sinistre, sono sostanzialmente tre.
IN PRIMO LUOGO, i tanti elettori delusi e disorientati del centro-sinistra hanno scelto la via più netta per esprimere il loro dissenso, uscendo dal perimetro ideologico della sinistra per saltare sul carro vincente del Movimento 5 Stelle. In media, una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato che nel 2013 aveva scelto il Pd domenica ha votato infatti per il partito dei pentastellati, ritenuto più credibile nella sua proposta di cambiamento radicale: della classe politica e delle politiche adottate dai governi che si sono succeduti nel corso delle ultime legislature. Da un lato, con le loro proposte dal sapore in parte sociale e in parte assistenziale (come il reddito di cittadinanza), hanno saputo convincere i settori sociali più marginali (e emarginati) della sinistra. Dall’altro lato, con la loro campagna contro la corruzione e i costi della politica – e nonostante l’inciampo dei finti rimborsi – sono riusciti a fare breccia in quella parte della sinistra italiana un tempo movimentista o girotondina, ma sempre critica verso una classe dirigente del Pd rimasta immobile dentro il partito o trasferita senza troppi traumi dentro il cartello di Liberi e Uguali.
IN QUESTO SENSO, il Movimento 5 stelle esce da queste elezioni non solo rafforzato, ma con una impronta elettorale che lo avvicina un po’ di più agli spagnoli di Podemos che non ai vari movimenti sovran-populisti di destra cresciuti in Europa durante gli ultimi decenni. Un tratto che, oltre ad essere già presente in controluce nei curricula dei vari ministri-ombra (o fake) presentati da Di Maio prima del voto, potrebbe favorire un processo più o meno rapido di «apertura a sinistra» da parte del M5S.
IL SECONDO DATO che emerge dall’analisi dei flussi è che esiste anche tra gli elettori di centro-sinistra, e del Pd in particolar modo, una componente che esprime un atteggiamento di chiusura, se non di rigetto, nei confronti degli immigrati e più in generale dello straniero. Diversi anni fa, un noto politologo statunitense, Seymour Martin Lipset, sosteneva che tra i principali meriti dei partiti di sinistra vi era quello di avere convinto la classe operaia a sostenere misure e posizioni cosmopolite, di stampo progressista nel campo sia dei diritti civili che sociali.
QUEL TEMPO OGGi sembra finito. E non soltanto perché la classe operaia come blocco sociale compatto e facilmente identificabile non esiste più. Ma soprattutto perché una parte dei lavoratori è tornata a sostenere politiche di chiusura che vanno nella direzione di un maggiore «autoritarismo» per quel che riguarda i temi della sicurezza declinati in chiave sia personale che professionale/occupazionale. È per questo che non sorprende, ma deve fare assolutamente riflettere, l’esistenza di una parte dell’elettorato del centro-sinistra che, di fronte a tante alternative «tiepide», ha scelto l’opzione della destra leghista in versione nazional-lepenista. Circa il 10% degli elettori Pd della scorsa tornata elettorale il 4 marzo ha votato per il partito di Salvini: un dato che non deve essere interpretato come una curiosa e un po’ improbabile acrobazia, bensì come un indicatore della diffusione di un malessere – reale o percepito – con cui i partiti di sinistra devono fare i conti se vogliono tornare ad offrire a quel settore della società italiana una credibile proposta alternativa di rappresentanza.
INFINE, IL TERZO ASPETTO di rilievo che si può ricavare dall’analisi dei flussi elettorali è collegato al tema dell’astensione. In questo caso, Liberi e Uguali era nato con l’intento – per usare le parole ormai stantie di Pier Luigi Bersani – di riacciuffare quegli elettori «scappati nel bosco» dell’astensionismo. Un obiettivo nobile, senza dubbio percorribile, ma che avrebbe richiesto una dose maggiore di coraggio sia in termini organizzativi (per intenderci: di rinnovamento della classe dirigente) che programmatici. E invece il neonato progetto di LeU si è rivelato, nelle urne, il rifugio dove nascondere i peccati e i peccatori del Pd, con poco spazio a forme e figure nuove di rappresentanza. Quindi, non può stupire che l’elettorato della nuova formazione venga solo e soltanto dalle vecchie forze politiche di provenienza, Sel da un lato e il Pd dall’altro. Non solo non c’è stata una capacità di attrazione verso altri partiti, ma lo sforzo di recupero verso gli elettori astensionisti si è rivelato un esercizio molto verbale ma poco reale.
PERALTRO, SOPRATTUTTO nelle regioni che un tempo venivano definite «rosse» (e di cui abbiamo decretato la definitiva scomparsa con il voto del 4 marzo), il surplus di astensionismo è stato il prodotto in particolare di elettori di centro-sinistra probabilmente disorientati dalle divisioni dei loro partiti di riferimento, dalle candidature innaturali o paracadutate e dalla mancanza di un ricambio fisiologico della classe politica. Dentro questo scenario, che sembra aver lasciato solo macerie sul campo della sinistra italiana, c’è invece tutto lo spazio per ricostruire qualcosa di più solido. Con chi, come e quando sono questioni sulle quali è già tempo di aprire una operativa riflessione.
Corriere 7.3.18
Scalfari: Di Maio è la sinistra moderna
di C. Zap.
Prima delle elezioni, a domanda diretta, aveva detto di preferire Silvio Berlusconi a Luigi Di Maio. A urne chiuse, di fronte al dilemma sulla figura cui affidare il governo («meglio Salvini o Di Maio?» gli ha chiesto ieri sera Giovanni Floris a DiMartedì su La7), il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari a sorpresa ha scelto il capo politico del Movimento 5 Stelle, spiegando di aver cambiato opinione sul suo conto, con un giudizio destinato a riaccendere le polemiche come già nelle scorse settimane. «Un tempo li consideravo uguali. Nel senso che non si potevano votare. Perché erano al centro uno della chiusura e l’altro, il movimento grillino, del populismo. Oggi tra Salvini, che è quello di prima, e Di Maio che sembra radicalmente cambiato, sceglierei Di Maio». Secondo l’ex direttore lo scenario è cambiato. «Di Maio ha dimostrato — ha sostenuto Scalfari ieri in tv — un’intelligenza politica notevole, perché di fatto il Movimento è diventato un partito. Lui addirittura ha steso la lista dei ministri e l’ha voluta portare al Quirinale». «Facendo un’alleanza con il Pd — ha aggiunto il giornalista— non è che ci sono due partiti, diventa un unico partito. Di Maio è il grande partito della sinistra moderna. Allora la faccenda cambia: se lui diventa la sinistra italiana voterò per questo partito». Se «questo partito (quello che nascerebbe dall’alleanza Pd-M5S, ndr ) diventasse un partito di maggioranza assoluta, il presidente Mattarella avrebbe un governo che ha la maggioranza assoluta. Renzi ha detto no, ma Di Maio non parla di alleanza con Renzi ma di alleanza con il Partito democratico». Ma al momento, ha concluso, «il Pd è in uno stato di abbattimento, l’abbattimento porta alla confusione. Il Pd è un partito confuso».
Repubblica 7.3.18
La sinistra resti dalla parte dele sue idee
di Ezio Mauro
Nel 1994, quando Berlusconi arrivò in politica e vinse, con lui era sceso in campo il ceto medio, il mondo delle partite Iva, la piccola imprenditoria, vogliosi di mettersi in proprio e di costruirsi una loro proiezione pubblica, diventando protagonisti.
Era una specie di istinto di classe (difensivo e aggressivo nello stesso tempo) che si faceva partito, prendendo forma politica e cambiando il paesaggio dell’intero sistema. Ventiquattro anni dopo non c’è un blocco sociale che porta i suoi interessi dentro il gioco istituzionale, non c’è un ceto che aspira alla guida della cosa pubblica.
Quella che è in atto è una cosa diversa: una grande sostituzione.
Non avendo il Paese una vera e propria classe dirigente, ma soltanto dei network che si autotutelano perpetuandosi, non ne aveva nemmeno una di ricambio, un gruppo di emergenti che aspettava la sua occasione per affacciarsi al comando. Prosciugate le culture politiche in cui è vissuto e cresciuto l’Occidente, non c’era nemmeno un bacino di storia alternativa a cui fare riferimento, conoscendone valori e ideali. Non restava che pescare nel nulla, nella spontaneità di un movimento che è un fenomeno sociale più che un partito, disancorato dalla vicenda storica europea del dopoguerra, senza legami con le culture politiche di altri Paesi, abituato a vivere solo nel presente, generato com’è dalla delusione della rappresentanza trasformata in rabbia e risentimento.
Chi viene da un altrove, senza passato e dunque senza vincoli, non può evidentemente garantire esperienza e competenza, ingredienti indispensabili ad ogni vero progetto politico di cambiamento. Ma può realizzare qualcosa che è infinitamente più basico e insieme più universale di un cambiamento, e cioè una generale sostituzione.
Siamo arrivati a questo punto perché la politica ha esaurito qualcosa di fondamentale, che l’ha animata per tutto il Novecento: la capacità di generare speranza. Non essendo una risorsa naturale, la speranza nasce dai progetti, dal carisma delle leadership, dall’autenticità delle proposte, da un’idea del mondo e della vicenda umana capace di convincere, di appassionare e di coinvolgere. Insieme con la fine ( tardiva) delle ideologie, si sono rinsecchite anche le idee, il concetto della politica come costruzione di un progetto collettivo, il sentimento della storia: la coscienza di agire dentro un’avventura comune, da difendere, aggiornare e interpretare per poterla tramandare. Siamo disancorati, dunque preda del vento del momento, e nell’estemporaneità la narrazione soppianta la storia, il gesto prevale sul pensiero, il segno prende il posto del significato, la rappresentazione sostituisce la rappresentanza.
Proprio la crisi della rappresentanza è l’altra ragione dell’indebolimento della politica. In un’epoca in cui esplode la trama dei contatti, s’infittisce la rete delle relazioni e crescono gli istituti di democrazia diretta che ci chiedono di esprimerci, ci sentiamo scoperti di fronte al carattere globale delle vicende che ci sovrastano, poco protetti, più soli, non tutelati. Le contraddizioni ci confondono: se tutto è globale non abbiamo più una scala su cui misurare gli eventi che ci incalzano e valutare le risposte appropriate, vilipendiamo governi e parlamenti, ma intanto chiediamo loro di governare a mani nude fenomeni epocali, siamo contro l’Europa e i suoi vincoli, poi soffriamo della sproporzione tra una politica domestica e l’universale che viene a bussare alle nostre finestre.
Aggiungiamo la perdita di identità delle due grandi forme del pensiero politico europeo, la destra e la sinistra, diversamente svuotate e trasformate entrambe. La crisi economico-finanziaria del decennio ha imposto l’egemonia della “ necessità”, un’egemonia apparentemente disarmata, senza mandanti e senza ideologia, che porta le diverse politiche a conformarsi e ad assomigliarsi, dentro una neutralità democratica senza più forti passioni e senza nette distinzioni, come se la visione del mondo fosse una soltanto e per sempre, e come se capitalismo e democrazia non avessero entrambi bisogno di una critica costante, di un pensiero.
Questa politica indistinta, che non trasmette speranze, che non garantisce una effettiva rappresentanza, che non può domare la globalizzazione, è probabilmente la cifra degli anni che stiamo vivendo: non riusciamo a governare ciò che abbiamo prodotto. Ma gli effetti nella vita del Paese sono devastanti, perché la crisi ha diviso, atomizzato, disperso. Ha selezionato, spinto ai margini. Ha rotto il vincolo di necessità e di responsabilità che fino a ieri teneva in collegamento tra di loro le parti alte e quelle più basse della scala. In una parola, la crisi ha riformattato il sociale, e la politica non c’era, o era gregaria.
Il risultato è sotto gli occhi. Ci sono i nuovi esclusi. C’è il ribellismo della piccola borghesia. E ci sono i dimenticati, una folla di individui isolati che si sentono tagliati fuori, scoprono che miserie e frustrazioni non si sommano più come un tempo, non trovano più un traduttore politico che le trasporti dentro le grandi categorie del discorso pubblico. Ci sono però due nuove opzioni politiche: una, quella leghista, coltiva questo risentimento impaurito e gli fornisce una cornice politica simbolica, popolata da bersagli concreti, l’immigrazione, l’Europa, il cosmopolitismo, il mondo aperto. L’altra, quella grillina, nobilita questa rabbia e questa invidia sociale portandola in politica così com’è, senza mediazioni e trasformazioni, scagliandola contro i partiti, le istituzioni, la corruzione, l’Europa.
Sono due espressioni politiche istintuali, due radicalità simmetriche, con linguaggi e movenze simili, che pescano nella stessa pancia del Paese, e propongono non un cambiamento, una nuova politica, una correzione di rotta, ma appunto una radicale sostituzione. Una politica sommaria, dunque, da giudizio di Dio, dove non conta chi arriva ma solo chi se ne va, purché se ne vada. Per tutti questi caratteri, si tratta di due proposte populiste, una ferocemente di destra, l’altra mimetica e mutante, un qualunquismo radicale che ha pescato voti ovunque purché contro. Entrambi, oggi che hanno vinto ma non hanno i voti per governare, chiedono agli altri ( come testimonia la lettera di Di Maio a Repubblica) quelle prove di responsabilità che loro hanno sempre negato in passato, e fino all’altro ieri: magari in streaming.
La vera responsabilità, a destra, sarebbe quella di separare finalmente anche in Italia i moderati dai populisti, cosa che Berlusconi non ha mai voluto fare, fino a subire un’opa definitiva da Salvini. E a sinistra, la responsabilità è chiara: ricostruire quel che si è perduto ( ben più del voto), stando all’opposizione con la propria gente e con le proprie idee. Ritrovate.
Repubblica 7.3.18
La sfida che può cambiare i dem
di Stefano Folli
Il vero tema del dopo elezioni riguarda la prospettiva dell’intesa tra Cinquestelle e Pd. Per adesso la posizione ufficiale dei vincitori è: “noi parliamo con tutti”. Ma il vero interlocutore nascosto dietro il termine “tutti” è il Partito democratico. È nel pieno interesse dei Cinquestelle cercare un’intesa con il centrosinistra sconfitto. È il disegno immaginato fin dal primo momento e rispetto al quale non esiste un piano B, ossia un ponte proiettato verso Salvini. M5S e Lega restano opposti uno all’altro: avversari e concorrenti.
Quindi il Pd. Chiara la volontà del M5S che ha raccolto una messe di voti proprio nell’alveo del centrosinistra, sfruttando la crisi di questa area. Molto meno evidente l’interesse del Pd ad accettare un giro di valzer con Di Maio.
Tuttavia la tentazione affiora nel partito, anzi si va diffondendo nei giorni precedenti la direzione: Chiamparino parla di “abbattere i tabù”, poi ci sono le voci della minoranza e le dichiarazioni di Emiliano, finora il più esplicito. Ma le ragioni contrarie sono altrettanto solide: paventano il suicidio di un partito ancora frastornato dopo la disfatta di domenica. Si può chiedere a un Pd quasi disarticolato di accordarsi con chi gli ha sottratto voti, base sociale e ruolo pubblico? La risposta, a parere di tanti, soprattutto fra i militanti e nella base elettorale, è negativa: non in questa fase e non nei termini adombrati dal M5S. E infatti Dario Franceschini ha pronunciato il suo “no” di bandiera: il Pd non intende fare accordi politici con i Cinquestelle.
Tutto risolto, allora? Non proprio.
Siamo solo all’inizio di un percorso lungo e complesso. In realtà Franceschini rispondeva a Renzi, non al capo del M5S. Ed è logico. Dopo lo “show” intorno alle dimissioni/non dimissioni del segretario perdente si è acceso nel Pd uno scontro feroce, la cui posta in gioco è l’unità del partito e la sua rifondazione. Il gioco di Renzi sta nel condizionare la linea politica partendo da un “no” ai Cinquestelle che per lui è strategico e definitivo: tanto assoluto da celare a malapena la stizza verso il capo dello Stato e da sfiorare la mancanza di rispetto verso l’istituzione cui spetta di sbrogliare la matassa avviando un dialogo con tutti i protagonisti della crisi. Renzi è consapevole che i suoi avversari nel Pd vogliono liberarsi di lui e sta giocando le sue scarse carte con la consueta spavalderia. Ai nemici interni del leader conviene tenere ben distinto il tema della segreteria dalla discussione sulla linea politica (quale rapporto con i Cinquestelle). A Renzi conviene il contrario: mescolare le due questioni e sfruttare la diffidenza della base verso Di Maio e i suoi amici.
Franceschini con il suo “no” ha inteso sgombrare il campo dagli equivoci. In seguito si vedrà. È chiaro che il gruppo dirigente che guarda oltre Renzi non intende creare ulteriori problemi al Quirinale. E non vuole nemmeno rinunciare alla politica. Del resto la situazione è tutt’altro che statica, come dimostra l’adesione di Carlo Calenda al partito: un gesto volto anch’esso a delineare il cammino del dopo Renzi.
La crisi si annuncia lunga e alcuni dei “no” di oggi potrebbero diventare i “sì” di domani, sia pure a certe condizioni.
Di sicuro non si può chiedere a un centrosinistra che cerca la strada per rigenerarsi di diventare il vassallo dei Cinquestelle. D’altra parte il limite della posizione intransigente, che concepisce solo l’opposizione a tutti i costi, è il rischio di portare a nuove elezioni in tempi brevi. Un esito che nessuno si augura.
Repubblica 7.3.18
Zanda
“Il ciclo di Renzi è finito ora il Pd a Martina Parlare coi grillini”
di Giovanna Casadio
Capogruppo Pd
Luigi Zanda, è stato capogruppo del Pd al Senato nell’ultima legislatura. È stato rieletto, ed è uno dei candidati per la presidenza
ROMA «Matteo Renzi potrebbe seguire l’esempio di Walter Veltroni che, quando si dimise, lasciò subito al suo vice Dario Franceschini il compito di reggere il Pd e traghettarlo verso il congresso». Luigi Zanda, ex capogruppo dem a Palazzo Madama, rieletto senatore, ha usato parole di fuoco contro le dimissioni a metà - annunciate e congelate di Renzi . E insiste, rilanciando: «Martina, il vice segretario, è il reggente in pectore».
Zanda, lei chiede sempre al segretario dem di dimettersi immediatamente senza manovre?
«Dopo una sconfitta così grave, le dimissioni del segretario sono una conseguenza naturale. Le dimissioni sono una cosa seria e quando si danno devono avere una efficacia immediata».
Ma questa richiesta è sua e di pochi altri, o è anche di Dario Franceschini, che è stato azionista di maggioranza del renzismo?
«Penso sia un’esigenza elementare largamente condivisa».
Nelle ultime ore forse Renzi si è convinto a dimettersi senza dilazioni?
«La convocazione della direzione in una data certa, lunedì, e l’indiscrezione che Renzi non vi parteciperà e che la relazione sarà tenuta dal vice Martina sono dei passi in avanti. In più immagino che il presidente del partito Matteo Orfini leggerà la lettera di dimissioni di Renzi, che spero confermerà una decorrenza immediata. Le dimissioni del segretario sono una decisione importante, che può aiutare veramente il Pd sia a ad analizzare in profondità le ragioni della sconfitta sia a raccogliere le energie nuove per ripartire».
Per ripartire intanto con Martina?
«Il reggente in pectore è lui.
Abbiamo un precedente. Quando Veltroni si dimise e il Pd venne retto dal vice segretario Franceschini. È un esempio che si potrebbe seguire. Mi pare si stia andando in questa direzione».
Renzi parla di un attacco nei suoi confronti, per trattare con i grillini sulle poltrone, ad esempio sulla presidenza di una delle Camere.
«Né in politica né nella professione ho mai chiesto nulla per me e mai lo chiederò.
Qualsiasi insinuazione è offensiva. Ma c’è un punto politico che riguarda i rapporti con i 5Stelle e con la Lega Nord».
Secondo lei il Pd dovrebbe
dialogare con i 5Stelle?
«Per 5 anni nell’ultima legislatura ho guidato in Senato un confronto sempre duro con i 5Stelle. Da loro non mi separano solo differenze sulle politiche parlamentari, e programmatiche, ma una divergenza di fondo molto seria: io sostengo la democrazia parlamentare rappresentativa, i grillini vogliono la democrazia diretta, la democrazia dei clic e quella di un referendum alla settimana».
Quindi non si vanno a vedere le carte, magari in streaming, senza tabù, come ritiene Sergio Chiamparino?
«In politica si deve parlare con tutti e, a maggiore ragione, si deve farlo con un partito che ha ricevuto un consenso molto ampio. Ma confrontarsi non annulla le differenze forti”.
Anche la Lega sta cercando sponde tra voi dem. Aperture possibili?
«No. I leghisti hanno visioni valoriali opposte alle nostre. Solo due esempi su questioni importantissime: le diversità sulle politiche migratorie e dell’Unione europea».
Insomma in questo è d’accordo con Renzi: il Pd deve restare all’opposizione?
«Sì, una cosa è chiara: gli elettori hanno indicato per il Pd il ruolo di opposizione e la volontà degli elettori va sempre rispettata».
Il Pd ha fatto una campagna elettorale all’insegna dello slogan “saremo il primo partito”. Poi è successo il cataclisma.
«È il punto più basso mai raggiunto dal partito. La sconfitta più grave dal 2014. Dopo il 40% alle europee, ci sono state quattro altre sconfitte tra cui l’umiliazione della bocciatura della riforma costituzionale al referendum. Fu un errore non fermarsi a riflettere su come fosse stato possibile dilapidare in così poco tempo un grande consenso politico strategico per la stabilità dell’Italia».
Sta dicendo che Renzi doveva farsi da parte allora?
«Non lo dico e non lo penso».
Dovrebbe farlo adesso?
«Ma ora l’ha fatto, si è dimesso».
Ma non è che fomentate altre divisioni?
«Nel mio vocabolario non c’è la parola scissione. Penso che un partito senza unità non sia un partito, ma un partito nel quale la fedeltà conta più della lealtà non è un buon partito».
Aperture alla Lega?
Anche no. Con i leghisti ci sono stati scontri su questioni importantissime come immigrazione ed Europa La bocciatura del referendum il 4 dicembre fu una umiliazione: è stato sbagliato non essersi fermati a riflettere sulla crisi del partito
La Stampa 7.3.18
“L’onda populista è solo all’inizio
l’euro non può sopravvivere”
Bannon, l’ideologo di Trump: in Italia comincia l’implosione europea “I migranti penalizzano gli operai. Ora un’Internazionale sovranista”
di Marco Bresolin
«Per vedere il futuro dell’Ue bisogna guardare al voto italiano. Salvini lo ha detto: l’Euro non sopravviverà. Tutto è nelle mani dei cittadini. E l’onda populista è solo all’inizio, perché la Storia è dalla nostra parte». Steve Bannon ha davanti ai suoi occhi il disegno dell’Internazionale Populista che vuole costruire. Che poi sarebbe un’Internazionale Sovranista, un ossimoro che rischia di portare a un tutti contro tutti (dalla guerra sull’acciaio in giù). Ma che in questa fase storica ha le urne dalla sua parte.
L’ex stratega di Donald Trump traccia un filo che parte dalla Brexit, arriva fino a Washington e poi torna in Europa. In Italia, per essere precisi, dove «due terzi degli italiani hanno votato per i partiti anti-establishment». Nel conteggio, l’ex stratega di Donald Trump ci infila anche Berlusconi. «Che è stato Trump prima di Trump». E vede nel voto italiano una tappa importante del percorso che potrebbe portare all’implosione dell’Europa. «I britannici hanno votato e ora sono fuori. Se votassero gli italiani, non so cosa succederebbe. A Bruxelles e alla Bce devono iniziare ad ascoltare i cittadini. Quando hai un’ondata di migranti che si riversa sul Sud Italia, e il peso cade tutto sugli operai italiani, dovresti capire che qualcosa non va. L’immigrazione va gestita in Africa, non in Italia».
La sua prima apparizione pubblica in Europa è in una sala da concerti a Nord di Zurigo. Fuori, sulla Marktplatz di Oerlikon, la protesta dei movimenti antifascisti. Dentro, al di là dei blindatissimi controlli di sicurezza, una platea composta dalla borghesia medio-alta svizzera. Le mogli lasciano la pelliccia al guardaroba, i mariti ingannano l’attesa al bancone del bar con una flûte di bollicine. Tra il pubblico non traspare la rabbia delle classi sociali più povere, di chi si è gettato tra le braccia dei partiti populisti perché non ce la fa più e vuole cambiare tutto.
Tra i 1500 che hanno riservato il loro posto da settimane, i giovani quasi non si vedono. Tanti over 60. Più spaventati dagli effetti della mondializzazione che vittime. Gente per cui il cambiamento è un rischio da evitare, non una richiesta da urlare nelle orecchie dei politici. «Noi svizzeri non siamo dei rivoluzionari» gli dice Roger Koppel, direttore del settimanale «Die Weltwoche» ed esponente dell’Unione Democratica di Centro, formazione della destra conservatrice elvetica
Bannon spiega il perché di questa tappa svizzera, ricordando il referendum del 1992, con il quale gli elvetici respinsero l’adesione allo Spazio economico europeo. «Democrazia diretta, libertà, prosperità. Questo è un Paese sovrano!» strappa gli applausi della platea. Gli svizzeri che non hanno voluto entrarci, poi i britannici che hanno voluto uscirci. E l’Italia?
Bannon è arrivato qui dopo la tappa nel nostro Paese in cui ha incontrato - in maniera assolutamente riservata - alcuni dirigenti politici italiani. Leghisti, ma a quanto pare anche di Forza Italia. Ieri a Zurigo ha visto anche Alice Weidel, leader dell’ultradestra tedesca AfD. L’ex consigliere di Trump sta muovendo i primi passi per lanciare una sorta di rete populista nel Vecchio Continente da agganciare all’«alt-right» statunitense. Vuole aggregare le forze anti-sistema per dare la spallata ai governi europei e alle istituzioni di Bruxelles. Le prossime elezioni Ue del 2019 saranno un evento-chiave.
«Bisogna andare a votare - arringa la platea - e vedrete che le cose cambieranno. Elezione, dopo elezione. Guardate cosa è successo in Gran Bretagna, in Polonia, in Ungheria, in Repubblica Ceca e in Austria. Anche in Francia e Germania. Vero, il Front e l’Afd non hanno vinto, ma il movimento sta crescendo». Certo, dice, «in ogni Paese la situazione è diversa, ma dobbiamo fare attenzione ai fenomeni globali». E cita la Cina. «La gente deve avere paura della crescita della Cina, soprattutto in Europa. È un fenomeno senza precedenti nella storia dell’umanità. Diventano più potenti, ma restano uno Stato totalitario. Senza libertà, senza democrazia. È un’espansione geo-politica a cui dobbiamo rispondere». Poi però rivela che Xi è il politico più apprezzato da Trump.
E torna sulla guerra commerciale. Che, assicura, non è una reazione istintiva di Trump. «Ci ha messo otto mesi per decidere. Ha fatto fare un’indagine approfondita. Lui governa da imprenditore, vede i problemi e trova le soluzioni. È uno che ascolta molto, e che ama il confronto». Miele per il suo ex capo, anche se l’ascesa della figlia Ivanka alla Casa Bianca lo ha fatto fuori nell’estate scorsa. Ecco: come sono ora i rapporti con il Presidente? I due continuano a parlarsi? «Diciamo che io sono in modalità ascolto. Abbiamo avuto alti e bassi - scherza -, ma i nostri avvocati si parlano parecchio... Io però lo amo ancora».
La Stampa 7.3.18
L’allarme del Washington Post
«Roma è più vicina a Mosca»
di Francesco Semprini
«Le elezioni italiane sono un colpo al centro nevralgico della democrazia dell’Europa». La prima critica all’esito del voto in Italia, da parte delle cannoniere mediatiche americane, arriva dal «Washington Post». Il comitato editoriale del quotidiano della capitale Usa paventa il rischio di ricadute nel Vecchio Continente causato dal successo dei due partiti anti-establishment. La Lega di Matteo Salvini, leader «dalla retorica xenofoba che ha promesso deportazioni di massa di migranti». E il Movimento 5 Stelle, guidato da Luigi Di Maio, «31enne dalla scarse esperienze». Certo, spiega il «Post», «il suo partito ha ammorbidito le istanze anti-europeiste, e non è così ostile come la Lega ai migranti». Il punto però è che con l’estrema destra condivide l’affetto per Vladimir Putin, «colui che appare in maniera inequivocabile il vero vincitore delle elezioni». Il «Washington Post», tra i più strenui sostenitori del ruolo del Cremlino nel successo di Trump, è convinto che quanto accaduto alle urne domenica porti l’Italia vicino a certe realtà europee ostili a Bruxelles.
La buona notizia però è che Angela Merkel ha trovato la quadratura del cerchio con una coalizione che le consentirà di guidare il governo per la quarta volta. A lei, e al collega francese, il rampante Emmanuel Macron, spetta il compito di guidare quel progresso destinato a rimettere in sesto Paesi in difficoltà, proprio come l’Italia - chiosa il «Post» - rassicurando al contempo nella loro veste di guardiani dei «principi della democrazia liberale. Come i sopravvissuti dell’Occidente fecero nel 1945».
La Stampa 7.3.18
Firenze, l’ira dei migranti
“Nel mirino dei razzisti”
In piazza dopo l’uccisione di un senegalese. Spintoni al sindaco
di Francesca Paci
«D’accordo, l’assassino era un depresso, un malato di mente, non risulta fosse militante di un bel niente, ma resta il fatto che ha percorso quasi un km con la pistola in tasca incrociando tanta gente e decidendosi a sparare solo quando si è trovato di fronte un africano». Tra i senegalesi radunati sul Ponte Vespucci per commemorare il connazionale Idy Diene, ucciso lunedì mattina dal pensionato Roberto Pirrone, la rabbia si sovrappone alla paura. «Negli ultimi mesi il clima nei nostri confronti è cambiato, faccio la cameriera a Firenze dal 2004 ma ora per la prima volta sento dagli sguardi intorno a me di essere nera, diversa, estranea», dice Nancy piangendo davanti alla foto e ai fiori deposti nel punto in cui è morto l’amico arrivato da Dakar all’inizio degli Anni Duemila proprio come lei, regolare come lei, occhi buoni come i suoi.
Almeno trecento persone, tra cui moltissimi stranieri, senegalesi, somali, nigeriani, stazionano sul ponte presidiato da agenti in tenuta antisommossa. Il ricordo di lunedì sera, quando la manifestazione per Idy è degenerata in riots con fioriere e scooter ribaltati nei pressi della stazione, grava l’aria di una tensione palpabile che esplode all’arrivo del sindaco Nardella. Una decina di antagonisti italiani carica gli animi, volano insulti in più lingue, qualcuno spintona, sputa. E quando il primo cittadino si allontana, scortato, ribadendo la sua condanna dell’omicidio ma anche la tolleranza zero contro ogni reazione violenta viene raggiunto dal portavoce della comunità senegalese Pape Diaw che chiede venia per le intemperanze, auspica l’unità cittadina, si fa garante della sua gente spaventata, ferita, tesa.
La strage di Macerata è lontana da qui, nessuno vuole associare il gesto di Pirrone a quello ideologico di Luca Traini e men che mai al ricordo bruciante di Gianluca Casseri, il cinquantenne fiorentino appassionato di Tolkien e CasaPound che nel 2011 freddò con la sua magnum altri due senegalesi, Samb Modon e Diop Mor, nomi sbiaditi sulla lapide anti-razzista piantata in un angolo di piazza Dalmazia, a pochi minuti in auto da Ponte Vespucci. Nessuno collega niente, anche se Idy aveva preso in carico la figlia oggi adolescente di Samb e sposato la sua disgraziata vedova. Ma tutti la pensano come Dia Papa Demba, sindacalista della Uil di Pontedera, senegalese di origine, da 25 anni toscano d’adozione: «Distruggere le fioriere è assurdo ma siamo arrabbiati. Qualcosa si è rotto in Italia. Ho la cittadinanza, domenica ho votato, i miei figli sono nati qui, vivo in una casa di proprietà e mi chiamano immigrato. Non capisco più cosa significhi essere italiano». Un ragazzo accanto a lui sventola il cartello «Basta razzismo».
La prova del cambio di stagione è nel paragone con il 2011, osserva Mercedes Frias, nata 50 anni fa a Santo Domingo e cresciuta a Prato: «Allora, dopo i morti di piazza Dalmazia, un milione di persone scese in piazza per dire no al fascismo, oggi siamo quattro gatti. In questi anni il razzismo è stato tollerato, è diventato un’opzione politica legittima. Indipendentemente da quale fosse l’intenzione di Pirrone, noi di pelle scura siamo terrorizzati».
Ci sono tanti fiorentini a fare da scudo alla storica tolleranza locale, quelli con i capelli bianchi che si fanno il segno della croce e i più giovani che digrignano i denti in direzione della polizia. C’e l’ex insegnante in pensione Cristina che porta una rosa sul memoriale di Idy e dice di avvertire «qualcosa di torbido nascosto sotto la patina borghese della città». Qualcuno benedice, nel male, il fatto che la vittima fosse regolare, «altrimenti la sua condizione di clandestinità sarebbe diventata una colpa».
La rabbia bersaglia random e colpisce «la retorica identitaria della campagna elettorale» cosi come la timidezza della istituzioni nello stigmatizzare le parole dell’odio. Arriva Diarra Fame, rappresentante dell’ambasciata senegalese che 7 anni fa accompagnò all’aeroporto le salme di Samb Modon e Diop Mor. Ripete di confidare nella giustizia italiana ma «pretende» giustizia. L’umore è cupo come il cielo.
«Firenze resta un’isola felice di convivenza ma ora, a urne chiuse, dobbiamo lasciarci alle spalle questa insana campagna elettorale e ripartire tutti insieme» ragiona l’imam Izzedin Elzir pregando con gli altri per Idy. Si schiera con il sindaco contro ogni violenza e ringrazia la vicinanza «fondamentale» dell’amministrazione. Il momento è delicatissimo. Lo sa anche Diye Ndiaye, assessore all’Istruzione del Comune di Scandicci e presidente dell’Associazione senegalesi, oltre 15 mila solo in Toscana. «La gente ha paura ma il mio compito è calmare gli animi». Piove, smette, piove ancora. Ombrelli come quelli che vendeva il povero Idy si aprono a proteggere dall’acqua e dal resto.
Corriere 7.3.18
«Io due volte vedova vi dico fermiamo l’odio Non siamo dei nemici»
Compagna di Diene e moglie del senegalese ucciso nel 2011
di Marco Gasperetti
PONTEDERA (Pisa) Il dolore di Rokhaya Kene Mbengue si consuma nella saletta di un piccolo appartamento nel centro di Pontedera. Accanto ad amici e parenti, bambini che tentano qualche gioco, guide spirituali arrivate dal Senegal, uomini e donne con il Corano. Due assassini italiani le hanno ucciso due mariti. Samb, massacrato sette anni fa nella strage di piazza Dalmazia e Idy, ucciso lunedì sul ponte Vespucci. Due volte moglie, due volte vedova.
«Un dolore profondo, che si è ripetuto inatteso. Ma che adesso è così devastante che non riesco a combatterlo solo con la mia forza. Mi sento perduta, paralizzata», sussurra con la testa china coperta da un velo verde. Nella mano destra ha un rosario musulmano, in quella sinistra un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. È seduta su un tappeto e a volte sembra non avere la forza di sorreggersi. Le amiche l’accarezzano, le stringono le mani, cercano di sorriderle. Accanto a lei un neonato in braccio alla mamma che, col pollice in bocca, sorride.
Se la sente di parlare ancora, signora? Kene alza lentamente lo sguardo e annuisce. «Sì, io voglio parlare agli italiani — risponde —. Voglio raccontare loro, con rispetto e stima, che noi gente del Senegal non siamo qui per delinquere, per fare male a qualcuno. E voglio anche dire, agli italiani, che non siamo venuti in questo Paese per trasformarci in assassini. Siamo brava gente, che lavora per mandare avanti la nostra famiglia. Lavora, lavora…».
Kene faceva la badante anche lunedì quando le hanno telefonato per dirle che avevano ammazzato Idy. «Hanno ucciso la mia seconda vita», ha detto alle amiche prima di chiudersi in un silenzio impenetrabile.
Mentre parla, davanti a decine di persone sedute, chi sui tappeti stesi sul pavimento, chi sulle sedie sistemate a cerchio come si fa per gli ospiti, una continua processione arriva silente, s’inchina rispettosa, ascolta.
«Noi lavoriamo tanto, facciamo il nostro dovere ogni giorno — continua Kene — e allora agli italiani mi permetto di fare un appello con il cuore. Dico loro di smetterla per favore di guardarci come nemici, come diversi. Difendetevi non da noi ma dal demone del razzismo. E vi prego non uccideteci come qualcuno ha fatto con i miei due miei mariti. Adesso ci sono famiglie non solo nella prostrazione profonda, ma senza più sostentamento. Io ho una figlia in Senegal e Idy aiutava anche lei, mandava soldi, l’aiutava a crescere».
Già la figlia. Ha 17 anni, una bella ragazza, intelligente: suo padre era Modou Samb, l’uomo ucciso per strada a Firenze nel 2011. «Io spero di vederla presto questa mia figlia unica — continua — e ho un sogno che potrebbe diventare realtà. A dicembre ho ottenuto la cittadinanza italiana e così posso chiedere il ricongiungimento. Però adesso ho paura a uscire di casa, come sono impaurite molte amiche. Quello che mi è accaduto è terribile. E allora dico mai più, mai più».
È il momento della preghiera. Serigne Pape Ndieguene guida spirituale arrivato da Dakar, recita un sermone del Corano. «Che parla della pelle degli uomini — spiega Diop Mbaye, presidente del Casto, il coordinamento dei senegalesi in Toscana — che davanti a Dio non ha colore. Non esiste nero, bianco, giallo». Poi anche Diop fa un appello. «Vorrei che il sindaco di Pontedera proclamasse il lutto cittadino — dice —. Sarebbe molto importante per la nostra comunità. Un segnale per sentirci tutti uniti. Italiani e senegalesi. Bianchi e neri».
La Stampa 7.3.18
I nazisti collezionisti d’arte, opere pagate con la morte
“Hitler contro Picasso e gli altri”: un docufilm su SkyArte racconta sulla scorta di documenti inediti americani la lunga e crudele razzia avvenuta in molti Paesi europei
di Mirella Serri
Due ragazzini guidano una piccola Bugatti a pedali nella splendida tenuta di campagna nei pressi dell’Aia. Pochi giorni dopo l’occupazione nazista dell’Olanda, il critico d’arte Walter Hofer attraversa quello stesso giardino per incontrare i genitori dei due bambini: il 54enne Fritz Gutmann e sua moglie Louise. Friedrich detto Fritz appartiene a un’importante famiglia di banchieri e suo nonno gli ha lasciato una magnifica collezione di ori e di argenti rinascimentali, nonché dipinti preziosissimi, da Lucas Cranach il Vecchio a Francesco Guardi. Un ben di dio sul quale gli occupanti con le bandiere con le svastiche hanno subito puntato i loro occhi avidi.
La pinacoteca di Göring
Con bellissime immagini inedite, tratte in parte dagli archivi d’oltre oceano, per due soli giorni, il 13 e il 14 marzo, sarà nelle sale italiane il docufilm Hitler contro Picasso e gli altri. L’ossessione nazista per l’arte (con la regia di Claudio Poli, è stato prodotto da 3D Produzioni con Nexo Digital e SkyArte Hd). Il filmato prende spunto da alcune recenti grandi mostre che a Berna, Bonn, Parigi e Deventer sono state dedicate agli immensi tesori trafugati dai nazisti (le opere razziate in Europa furono più di 5 milioni). E ci restituisce, con la voce narrante di Toni Servillo, una storia fino a oggi mai interamente esplorata di vittime e di carnefici: a fianco di Hitler e del maresciallo del Reich Hermann Göring - che collezionò ben 250 sculture, 168 arazzi e una pinacoteca di 1.376 pezzi del valore di 50 milioni di marchi, corrispondenti a 18 milioni di euro - vi fu una task force di storici, mercanti, critici d’arte. Questi mediatori si mobilitarono per minacciare, torturare e derubare un numero incredibile di proprietari ebrei.
Così gli sventurati Gutmann - che non si aspettavano le pressioni dei nazisti in quanto la loro famiglia si era convertita al cattolicesimo - furono torchiati da Hofer, responsabile della collezione di Göring (che non pagò mai nulla di tasca propria ma solo con soldi dello Stato). Il banchiere, pressato anche da un altro di questi mercanti «maledetti», Karl Haberstock, cedette parte del patrimonio per ottenere un visto di espatrio. Ma il permesso non arrivò mai e il conto in banca dei Gutmann fu congelato. L’uomo di affari fece intervenire suo cognato Luca Orsini, senatore dell’Italia fascista, che trattò con Himmler e con Göring in modo che la coppia potesse lasciare la Germania. Il 26 maggio 1943 due SS a bordo di una Mercedes nera prelevarono i coniugi (i figli erano già all’estero) annunciando che sarebbero stati liberati e portati a Firenze. Invece furono destinati al lager di Theresienstadt dove l’esecuzione di Fritz, come racconta un testimone oculare, avvenne a bastonate, mentre Louise venne accompagnata alle camere a gas.
Nel dopoguerra
Altri ebrei espropriati con la violenza, le cui vicende vengono raccontate dal filmato, furono il gallerista francese Paul Rosenberg, grande amico di Picasso, Braque e Matisse che aveva aperto nel 1910 l’importante galleria di 21, rue La Boétie e che riuscì a espatriare in America, e il ricco olandese Jacques Goudstikker la cui vedova fu costretta a privarsi di tutto da un altro «critico d’arte» nonché uomo di Göring, Alois Miedl. Quest’ultimo nel 1943 si liberò anche di due suoi contabili ebrei mandandoli al lager.
Quale sorte riservò il dopoguerra a questi aguzzini? Tutta la numerosa truppa degli esperti di arte si salvò e in molti continuarono a fare gli antiquari e i galleristi. Hofer e Haberstock, con i soldi guadagnati lavorando per il regime, allestirono un punto di vendita di arte antica a Monaco e si stabilirono nella stessa palazzina abitando uno sopra e l’altro sotto.
Repubblica 7.3.18
Monica Vitti
I mille volti dell’attrice che visse due volte
di Irene Bignardi
Decisamente, almeno sulla scena italiana, è ed è stata una signora in controtendenza.
Spigolosa quando le altre erano morbide. Bionda quando le altre erano brune.
Sottile quando le altre erano opulente. Accollata quando le altre esibivano i loro ipnotizzanti attributi ai tempi delle maggiorate.
Problematica quando le altre erano rassicuranti. Con un’aria altoborghese quando le altre si portavano appresso il familiare profumo dei “tinelli”. Con una voce come carta vetrata di quella fine a contrasto con il cinguettio delle sue colleghe. E capace anche di trasformarsi, di reincarnarsi, di prendersi in giro, film dopo film.
Monica Vitti, che purtroppo non vediamo in giro da molto tempo (e dico “vediamo” non per amore del plurale maiestatis, ma per esprimere il rimpianto del suo pubblico collettivo, che non la vede da molti anni, appartata com’è per ragioni di salute), Monica Vitti è stata un’attrice singolare e speciale, un’anima divisa in due, una vera attrice capace di funambolici trasformismi.
La ragazza e poi signora che ha voluto e saputo dire allegramente addio a una parte della sua vita quando quella vita cominciava a ripetersi, a essere troppo “alla maniera di”, a non permetterle di provarci, a chiuderla in un ruolo, o semplicemente ad annoiarla, per costruire Monica Vitti, l’attrice capace da un giorno all’altro di inventarsi un nuovo profilo abbandonando il carapace della signora chic, bionda, raçée, e per ripresentarsi bruna e tosta, con la pistola in mano e le lacrime in tasca, ma anche con una sigaretta da intingere nell’uovo che il marito si accinge a gustare per la prima colazione. Il tutto senza mai tradirsi né tradire le sue radici di attrice, di commediante, di personaggio. Nutrendo il suo cinema del suo teatro, e viceversa.
Già, ma di quale personaggio parliamo? Della elegante, problematica ragazza di La notte, con i suoi problemi di identità e di comunicazione? Della passionale e rozza italiana da esportazione con la pistola in mano? Ci sono quelli che la trovano più brava e più bella quanto più è sciamannata e quelli che l’ammirano nella versione elegante e bionda, con i lunghi occhi opalini e il delicato contorno del viso.
Ci sono quelli che ammirano la sua nevrotica performance di Deserto rosso e la sua grazia, il suo humour e la sua generosità in Polvere di stelle.
C’è chi sceglie la signora elegante di Il fantasma della libertà o la mossa di Nini Tirabusciò. E si potrebbe continuare a lungo.
Celebriamo dunque assieme, oggi, con Monica Vitti, due stili, due vite, due percorsi artistici. Monica, la donna che visse due volte.