venerdì 30 marzo 2018

La Stampa 30.9.18
La partita più difficile dei dem
di Federico Geremicca


Un altro 4 sulla strada di Renzi e del Pd: e a voler credere ai segni, in largo del Nazareno la preoccupazione dovrebbe essere al livello massimo. Il 4 dicembre 2016, infatti, un referendum cancellò i sogni riformatori di Renzi; il 4 marzo 2018 è l’intero Partito democratico ad esser travolto da una slavina elettorale; e questo 4 aprile - mercoledì prossimo - il Quirinale avvia le consultazioni che chiuderanno ufficialmente la lunga stagione del Pd di governo. La cabala non è incoraggiante: ma quel che più conta, è che è la situazione in cui versa il Partito democratico a non indurre ad ottimismi. Privo di segretario, scosso in periferia e diviso sulla rotta da seguire per uscire dalle secche, il Pd pare esposto ad ogni vento. E come spesso capita quando le difficoltà si fanno grandi, la posizione più semplice da assumere è quella del restar fermi.
In fondo è questa la ragione fondamentale che ha portato il Partito degli ultimi tre presidenti del Consiglio a disertare completamente la partita per il futuro governo. Inchiodato alla linea dettata da Renzi nel giorno delle dimissioni da segretario (mai con i Cinque Stelle, il nostro posto è all’opposizione) il Pd non è riuscito a cambiar passo, ed oggi si ritrova in una posizione complicata e - soprattutto - non facile da tener ferma nel tempo.
L’idea di una stagione da trascorre all’opposizione - così da avviare con meno vincoli l’opera di ricostruzione - sta infatti infrangendosi (come era forse prevedibile) di fronte alla difficoltà di mettere insieme una corrente maggioranza di governo. In attesa di capire se quello in atto tra Di Maio e Salvini - i vincitori il 4 marzo - sia una pantomima o uno scontro vero, le pressioni per un ritorno in gioco del Pd si fanno forti: esplicite pressioni interne (ieri ci hanno provato Orlando e Franceschini) e obliqui appelli provenienti dal basso (Movimento Cinque Stelle) ma anche dall’alto (i frequenti richiami al senso di responsabilità che arrivano dal Quirinale).
In questo quadro, l’interrogativo di fondo è già chiaro: se Di Maio e Salvini non riuscissero a dar vita ad un nuovo governo, il Pd terrà davvero ferma la linea aventiniana fin qui sposata? La risposta non è semplice, intanto perché è effettivamente difficile immaginare un ritorno al governo del partito più sconfitto nelle urne, e poi perché la scelta della rotta da seguire si intreccia con la dura battaglia interna apertasi in Largo del Nazareno. Sull’ipotesi di un governo con i Cinque Stelle, per esempio, Renzi è stato chiaro: «Per fare una maggioranza di quel tipo servirebbe il 93% dei parlamentari Pd: ma nessuno può credere che siano soltanto il 7% quelli che condividono la mia posizione».
È l’annuncio di uno scontro interno - insomma - che potrebbe trasferirsi fin nelle aule parlamentari (come del resto accaduto nella passata legislatura). Ed è una indubbia complicazione in più per chi spinge il Pd verso un ruolo di governo. Sergio Mattarella, che conosce bene il suo partito, è convinto che - in caso di stallo - i democratici non farebbero mancare il loro sostegno. In fondo, lo fecero per il governo Monti e - in qualche modo - anche per l’esecutivo di Enrico Letta, costretto alle larghe intese.
In molti, insomma, auspicano che lo stesso senso di responsabilità riemerga oggi, di fronte a una possibile paralisi. Non è detto che non accada: e la storia recente, anzi, legittima quell’auspicio. Che una volta di più, però, potrà realizzarsi solo dopo una chiara sconfitta di Matteo Renzi: un’ipotesi, al momento, tutt’altro che scontata.