domenica 25 marzo 2018

Il Sole Domenica 25.3.18
Christopher Isherwood e Stig Dagerman
L’alfa e l’omega della Germania nazista
Stig Dagerman: Autunno tedesco , traduzione di Massimo Ciaravolo, cura e postfazione di Fulvio Ferrari e nota di Giorgio Fontana. Iperborea. Milano, pagg. 160, € 16
Christopher Isherwood: Addio a Berlino , traduzione di Laura Noulian, Gli Adelphi, Milano, pagg. 252, € 12
di Marta Morazzoni


Letti uno dopo l’altro Addio a Berlino e Autunno tedesco fanno una certa impressione: due autori tra loro molto lontani per stile e cultura, Christopher Isherwood e Stig Dagerman, aprono e chiudono la parentesi della stagione nazista. I loro scritti, l’uno ambientato nei primi anni ’30 e l’altro un reportage condotto nelle città tedesche nel 1946, diventano l’alfa e l’omega di un’epoca che si annuncia inquieta, tra luci da avanspettacolo e ombre, per finire nella tragedia di un dopoguerra tra i più terribili della storia. Dalla fine della repubblica di Weimar alla devastazione della Germania bombardata a tappeto, il percorso di questi anni è un marchio indelebile sull’intera Europa e su cui non si è ancora finito di riflettere. Ma Isherwood da un lato, Dagerman dall’altro fanno parte del tempo che narrano e documentano, il primo con sei racconti in cui i personaggi tornano a comporre un mosaico dai colori che da vividi si fanno cupi; mentre con Autunno tedesco il giovane Dagerman, venuto dalla Svezia come giornalista a percorrere le città desolate della Germania postbellica, traccia un quadro di spaventosa miseria e muove il lettore ad una riflessione su come e dove ricada la colpa della guerra: sui poveri e i diseredati. È nella natura problematica di Dagerman, nella sua acuta e libera osservazione delle cose interrogarsi sulla miseria nera che assedia chi è sopravvissuto alla guerra, ma stenta a viverne il dopo, pagando lo scotto dell’essere stato dalla parte sbagliata. Con quale responsabilità?
È la domanda che tocca quanti per ignavia, per ignoranza, per impotenza, non hanno opposto resistenza al nascere del totalitarismo hitleriano. Questo è un tema che corre lungo i racconti di Isherwood, dapprima con un passo leggero, attraverso figure brillanti come Sally Bowles, che avrebbe ispirato il film Cabaret, poi con personaggi di incerta definizione quali Otto Nowak e la sua famiglia proletaria. Ritratti di individui, incontri, realtà della Berlino tra il ’30 e il ’33, in un crescendo di percezioni angosciose, mascherate dalla normalità, dal quotidiano che non sa misurarsi con i passi pesanti della politica, non ne ha coscienza lucida, eppure ne è parte. La levità di stile in Addio a Berlino funziona bene nel lasciar trasparire un mondo che scivola dentro la tragedia infine percepita dallo scrittore (che in questa raccolta ha fatto di se stesso un attento io narrante) che chiude con il diario dell’inverno 1932/33, quando il clima di attesa e di incertezza si è risolto nella nuova faccia della Germania, del cui cambio di passo di pagina in pagina il lettore è stato messo sull’avviso, tra la relativa coscienza della gente, la sua sommaria adesione al nuovo regime e il rassegnato sgomento di chi non ha forza per opporsi.
La Germania del ’46, quella che scorre tragica sotto gli occhi di Dagerman, è una terra senza consolazione, parlarne è difficile, guardarla in faccia è difficile. Stig Dagerman, svedese di ventitre anni, va a Berlino per incarico del quotidiano Expressen a raccontare cosa è rimasto del paese che la guerra ha annichilito; è uno dei tanti inviati che si muovono tra le macerie delle città bombardate, ma è tra i pochi a interrogarsi sulla condizione di chi è scampato al massacro. La famiglia Nowak di Isherwood, per esempio? La risposta sembra in realtà a portata di mano: hanno perso una guerra che hanno voluto e condotto con i peggiori sistemi, la pena è proporzionale alla colpa. I conti tornano, cioè tornerebbero se fatti sulla massa; ma ci sono gli individui, ci sono le singole sofferenze, la fame e la miseria spaventosa che, osserva Dagerman, non è mai una buona maestra, da lei non si impara nulla, meno che mai a elaborare il senso di colpa.
Lo scrittore viaggia per due mesi attraverso un paese fatto a pezzi nei suoi edifici e nel morale della gente, soprattutto la più povera, la più martoriata. Innocenti? La domanda rimane sospesa, o forse non è più neppure una domanda lecita: di città in città Dagerman vede lo sgomento muto di condizioni di vita non più umane, una sorta di ’occhio per occhio’ che cade sugli aggressori di un tempo, posto che quelli che ora vivono su un vagone ferroviario su un binario morto della stazione di Essen siano mai stati gli aggressori. E quand’anche? Manzoni sosteneva che sono sempre gli stracci che volano in aria, e la sua osservazione torna a proposito della destrezza con cui, osserva Dagerman, chi ha avuto una qualche responsabilità nella vicenda nazista trova ora il modo di uscirne, mentre gli inermi pagano. È una delle note ricorrenti nei tredici pezzi che l’autore svedese scrive per l’«Expressen», l’ultimo dei quali tocca un argomento prossimo allo scrittore: la distanza tra letteratura e sofferenza. È un passo cruciale che riguarda chi da vicino ha osservato il dolore nelle sue forme degradanti e cerca, crede di poterne fare materia d’arte, in una forma di sublimazione forse, o sorreggendo lo sgomento con il piedestallo della bellezza formale. Per Dagerman, la cui lucidità non permette illusioni, tutto questo ha un sapore amaro, e l’arte non è ora la risposta ai drammi che ha visto, per i quali non esiste che la compassione così nuda da parere arida. Il ’bubbolio lontano’ avvertito da Isherwood è diventato per Dagerman un silenzio assordante. Ci vorranno anni perché questo silenzio ridiventi parola.