il manifesto 7.3.18
Dove vanno i voti del Pd. I flussi del cambiamento radicale
Elezioni
2018. Una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato
dem del 2013 domenica ha votato per il Movimento 5 Stelle, ritenuto più
credibile nella sua proposta. Una percentuale che oscilla tra il 15 e il
20% dell’elettorato dem del 2013 domenica ha votato per il Movimento 5
Stelle, ritenuto più credibile nella sua proposta
di Marco Valbruzzi
Sono
tante le interpretazioni che si possono dare del voto del 4 marzo, ma
quella principale, sulla quale tutti i commentatori politici possono
concordare, è che questa tornata elettorale è stata caratterizzata da un
messaggio di cambiamento radicale che gli elettori hanno voluto inviare
alla classe politica. Si tratta di un messaggio che solo alcune forze
politiche più e meglio di altre hanno saputo prima veicolare durante la
campagna elettorale e poi intercettare nelle urne. Naturalmente,
sappiamo anche qual è stato il partito che ha subito i danni maggiori da
questa richiesta diffusa di cambiamento, e cioè quel Partito
democratico che nel suo declino elettorale ha portato i consensi dei
partiti del centro-sinistra ai loro minimi storici dal dopoguerra ad
oggi.
Sappiamo poco, invece, dei partiti che hanno beneficiato da
questa ondata di cambiamento e, soprattutto, delle motivazioni. Ma in
questo caso ci vengono in soccorso le analisi dei flussi elettorali
elaborate nei giorni scorsi dell’Istituto Cattaneo. Gli elementi più
rilevanti, anche per il destino delle sinistre, sono sostanzialmente
tre.
IN PRIMO LUOGO, i tanti elettori delusi e disorientati del
centro-sinistra hanno scelto la via più netta per esprimere il loro
dissenso, uscendo dal perimetro ideologico della sinistra per saltare
sul carro vincente del Movimento 5 Stelle. In media, una percentuale che
oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato che nel 2013 aveva scelto il
Pd domenica ha votato infatti per il partito dei pentastellati,
ritenuto più credibile nella sua proposta di cambiamento radicale: della
classe politica e delle politiche adottate dai governi che si sono
succeduti nel corso delle ultime legislature. Da un lato, con le loro
proposte dal sapore in parte sociale e in parte assistenziale (come il
reddito di cittadinanza), hanno saputo convincere i settori sociali più
marginali (e emarginati) della sinistra. Dall’altro lato, con la loro
campagna contro la corruzione e i costi della politica – e nonostante
l’inciampo dei finti rimborsi – sono riusciti a fare breccia in quella
parte della sinistra italiana un tempo movimentista o girotondina, ma
sempre critica verso una classe dirigente del Pd rimasta immobile dentro
il partito o trasferita senza troppi traumi dentro il cartello di
Liberi e Uguali.
IN QUESTO SENSO, il Movimento 5 stelle esce da
queste elezioni non solo rafforzato, ma con una impronta elettorale che
lo avvicina un po’ di più agli spagnoli di Podemos che non ai vari
movimenti sovran-populisti di destra cresciuti in Europa durante gli
ultimi decenni. Un tratto che, oltre ad essere già presente in
controluce nei curricula dei vari ministri-ombra (o fake) presentati da
Di Maio prima del voto, potrebbe favorire un processo più o meno rapido
di «apertura a sinistra» da parte del M5S.
IL SECONDO DATO che
emerge dall’analisi dei flussi è che esiste anche tra gli elettori di
centro-sinistra, e del Pd in particolar modo, una componente che esprime
un atteggiamento di chiusura, se non di rigetto, nei confronti degli
immigrati e più in generale dello straniero. Diversi anni fa, un noto
politologo statunitense, Seymour Martin Lipset, sosteneva che tra i
principali meriti dei partiti di sinistra vi era quello di avere
convinto la classe operaia a sostenere misure e posizioni cosmopolite,
di stampo progressista nel campo sia dei diritti civili che sociali.
QUEL
TEMPO OGGi sembra finito. E non soltanto perché la classe operaia come
blocco sociale compatto e facilmente identificabile non esiste più. Ma
soprattutto perché una parte dei lavoratori è tornata a sostenere
politiche di chiusura che vanno nella direzione di un maggiore
«autoritarismo» per quel che riguarda i temi della sicurezza declinati
in chiave sia personale che professionale/occupazionale. È per questo
che non sorprende, ma deve fare assolutamente riflettere, l’esistenza di
una parte dell’elettorato del centro-sinistra che, di fronte a tante
alternative «tiepide», ha scelto l’opzione della destra leghista in
versione nazional-lepenista. Circa il 10% degli elettori Pd della scorsa
tornata elettorale il 4 marzo ha votato per il partito di Salvini: un
dato che non deve essere interpretato come una curiosa e un po’
improbabile acrobazia, bensì come un indicatore della diffusione di un
malessere – reale o percepito – con cui i partiti di sinistra devono
fare i conti se vogliono tornare ad offrire a quel settore della società
italiana una credibile proposta alternativa di rappresentanza.
INFINE,
IL TERZO ASPETTO di rilievo che si può ricavare dall’analisi dei flussi
elettorali è collegato al tema dell’astensione. In questo caso, Liberi e
Uguali era nato con l’intento – per usare le parole ormai stantie di
Pier Luigi Bersani – di riacciuffare quegli elettori «scappati nel
bosco» dell’astensionismo. Un obiettivo nobile, senza dubbio
percorribile, ma che avrebbe richiesto una dose maggiore di coraggio sia
in termini organizzativi (per intenderci: di rinnovamento della classe
dirigente) che programmatici. E invece il neonato progetto di LeU si è
rivelato, nelle urne, il rifugio dove nascondere i peccati e i peccatori
del Pd, con poco spazio a forme e figure nuove di rappresentanza.
Quindi, non può stupire che l’elettorato della nuova formazione venga
solo e soltanto dalle vecchie forze politiche di provenienza, Sel da un
lato e il Pd dall’altro. Non solo non c’è stata una capacità di
attrazione verso altri partiti, ma lo sforzo di recupero verso gli
elettori astensionisti si è rivelato un esercizio molto verbale ma poco
reale.
PERALTRO, SOPRATTUTTO nelle regioni che un tempo venivano
definite «rosse» (e di cui abbiamo decretato la definitiva scomparsa con
il voto del 4 marzo), il surplus di astensionismo è stato il prodotto
in particolare di elettori di centro-sinistra probabilmente disorientati
dalle divisioni dei loro partiti di riferimento, dalle candidature
innaturali o paracadutate e dalla mancanza di un ricambio fisiologico
della classe politica. Dentro questo scenario, che sembra aver lasciato
solo macerie sul campo della sinistra italiana, c’è invece tutto lo
spazio per ricostruire qualcosa di più solido. Con chi, come e quando
sono questioni sulle quali è già tempo di aprire una operativa
riflessione.