il manifesto 29.3.18
Frattocchie, terreni comuni per fare egemonia
Passato
presente. «A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie»,
di Anna Tonelli per Laterza. In quel suburbio a sud di Roma, dal 1944 al
1993, un luogo di formazione per quadri e dirigenti del Pci. Tanti nomi
hanno ruotato intorno all’esperienza: Alfredo Reichlin, Miriam Mafai,
Pietro Ingrao e altri
di Massimo Raffaeli
Nei
pieni anni settanta, non solo alle Feste dell’Unità ma anche nelle
librerie «Rinascita» si vendevano i libri degli Editori Riuniti, la casa
editrice del Partito comunista italiano. Oltre al cofanetto dei
Quaderni gramsciani, oltre all’edizione in volumi innumerevoli
(esemplata su quella ufficiale, ovviamente sovietica) delle opere di
Lenin, oltre a un’antologica monumentale e in un solo volume (a cura di
Ernesto Ragionieri e di un suo giovanissimo allievo, Gianpasquale
Santomassimo) degli scritti e discorsi di Palmiro Togliatti, oltre a
tutto questo che si imponeva per la mole e per un costo da acquisto
rateale, erano invece disponibili, in volumetti molto più economici, i
titoli di uno studioso e dirigente di partito, il suo nome era Luciano
Gruppi, i quali spiccavano sia per la limpidezza del dettato e la
capacità di sintesi sia soprattutto per la consonanza, per così dire
sempre calcolata ora per allora, con la linea del Partito medesimo: Il
pensiero di Lenin (’70), Il concetto di egemonia in Gramsci (’72),
Togliatti e la via italiana al socialismo (’74) ne erano i titoli
maggiori e dunque riassumevano con puntualità il punto di vista, così
come di riflesso il senso comune, di una formazione politica che
all’apice del consenso elettorale (più di un elettore su tre fra il ’75 e
il ’76 aveva votato il Pci, tra le lezioni amministrative e politiche)
proprio allora stava trapassando da partito di massa e di militanti a
partito di amministratori con responsabilità di «governo» (e tale era la
parola-chiave, quasi un mantra che di per sé additava debolezze e
nequizie della Dc nello stesso momento in cui veniva avanzata la
proposta del «compromesso storico»).
I LIBRETTI di Luciano Gruppi
erano in realtà una piccola summa ideologica e insieme il più dignitoso
testamento del partito che nel giro di un decennio avrebbe rinunciato,
per la forza convergente di fattori interni ed esterni, a una propria
ragion d’essere nel collasso di qualunque proposta politica originale,
autonoma, nella vergogna persino della propria vicenda.
Insomma
nella resa a discrezione a quanto che nella storia sacra dei partiti
marxisti si sarebbe un tempo chiamato lo stato di cose presenti, cioè
l’assoggettamento alle idee dominanti, per proverbio definibili come le
idee della classe dominante, vale a dire quelle di un liberalismo in via
di tramutarsi, armato fino ai denti, in neo-liberalismo o
ordo-liberismo la cui compiuta realizzazione da molto tempo è
riscontrabile nell’annientamento di qualsiasi struttura anche solo
nominalmente antagonista.
Luciano Gruppi, per rimanere al suo nome
emblematico, era stato infatti tra gli ultimi responsabili di una
istituzione a suo tempo leggendaria nell’intero Occidente, la scuola di
formazione politica per quadri e dirigenti del Pci, un collegio
comunista attivo per quasi mezzo secolo nel suburbio a sud di Roma,
località Frattocchie, tanto eloquente da divenirne l’antonomasia. E si
intitola infatti A scuola di politica. Il modello comunista di
Frattocchie (1944-1993) (Laterza, pp. 265, euro 18) l’utilissimo lavoro
di una storica, Anna Tonelli, che da sempre connette la misura
interpretativa alla filologia e pertanto alla capacità di addurre e
decifrare documenti di prima mano.
LA SCANSIONE relativa a quello
che dalla metà degli anni cinquanta si chiama «Istituto di Studi
Comunisti» va obbligatoriamente dall’arrivo di Ercoli (Palmiro
Togliatti) a Salerno alla cosiddetta «svolta» di Achille Occhetto e dei
suoi comprimari che, dopo l’’89, decreta l’estinzione del medesimo
Partito comunista italiano. Il dettato di Tonelli è limpido e
puntualmente asseconda ogni passaggio di fase: Frattocchie è
nell’immediato dopoguerra una scuola che cerca di sopperire alla
indigenza ideologico-politica di militanti magari passati per la
Resistenza ma sprovveduti sotto il punto di vista ideologico-politico;
poi, fra gli anni cinquanta e settanta, è la couche di un partito che
deve misurarsi tanto con le ristrettezze e le rigidezze della Guerra
Fredda quanto con le tumultuose novità di un Paese appena ricostruito e
avviato, in pochi anni, a potenza industriale; infine Frattocchie è il
luogo in cui si incontrano e configgono, ben evidenti già alla metà
degli anni settanta, i risultati di una raggiunta egemonia culturale e i
primi contraccolpi di una effettiva incapacità a leggere gli sviluppi
del neo-capitalismo e delle società amministrate già in via di
ristrutturazione e globalizzazione.
Davvero interessante la
trafila degli allievi e dei docenti illustri (fra i tanti altri Alfredo
Reichlin, Miriam Mafai, Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice, insomma il
Gotha della intelligenza comunista, non escluso Enrico Berlinguer,
spedito a dirigere Frattocchie a cavallo del ’56, in realtà per
punizione o meglio per scarsa ortodossia riguardo al giudizio sui moti
ungheresi) ma molto più eloquente è la trafila dei compagni di base, gli
anonimi, le cui testimonianze scritte rappresentano un diagramma
itinerante della storia del partito. All’inizio si è mandati dalle
Federazioni a Frattocchie (e nei suoi satelliti, come ad Albinea di
Reggio Emilia, longeva fucina di amministratori locali) come a una
scuola sovietica poi via via come ad uno stage di quadri, di dirigenti
e/o amministratori.
NEL TEMPO cambia l’estrazione, con un deficit
progressivo di operai, così come la durata della permanenza, il clima e
il costume in quella che all’inizio può sembrare a taluni una nuova
compagnia di gesuiti sovietici e alla fine, viceversa, la perfetta
realizzazione di un campus all’occidentale. E cambiano ovviamente anche i
programmi e le bibliografie, prima rigide e afferenti in esclusiva al
marxismo poi più aperte e inclusive, dopo gli anni del Boom economico,
alle scienze umane o comunque alle discipline affluenti. E a mutare è
anche il modello espressivo, che dall’italiano liceale e un poco
eredo-crociano, prediletto da Togliatti, si indirizza a un dettato più
limpido e schietto, come sempre nei voti di Tullio De Mauro. Di
particolare interesse è l’analisi per campione che Tonelli conduce da un
lato sui testi degli allievi (nel dopoguerra sono ovviamente
«autobiografie», talora ingenue e struggenti, ancora di chiara impronta
stalinista) dall’altro sulle valutazioni che i dirigenti assegnano agli
allievi medesimi: anche qui, alle virtù della obbedienza e della
affidabilità, in ogni caso della serietà e irreprensibilità dei costumi,
si preferiscono via via quelle della intraprendenza e della autonomia
di giudizio.
MA IL PIÙ AVVINCENTE sottotraccia di A scuola di
politica, quasi un libro nel libro, è dedicato alla presenza femminile
in Frattocchie, così spinosa che nel ’47 il dirigente Mario Melloni (il
futuro corsivista dell’ Unità a firma «Fortebraccio») calcolava in
questi termini, opponendosi alle classi miste: «Da sole non pesa su di
loro quel senso di inferiorità che si manifesta in loro quando si
trovano in mezzo agli uomini, specialmente nel campo dei problemi
politici, sono più spigliate, hanno più fiducia in se stesse, si
comprendono meglio come allieve e si crea in loro uno stato d’animo più
facile all’assimilazione della materia che studiano». Da un simile
paternalismo muove il difficile, tormentato, talora apertamente
contrastato, processo di emancipazione a ogni liv. ello che rende
tuttavia inconfondibile, nei decenni, il profilo delle dirigenti
comuniste. La loro storia appare anzi come una sineddoche e cioè la
parte per il tutto, capace di svelare in retrospettiva la natura e le
contraddizioni di quel grande partito. Infatti un documento che ne
annuncia il principio della fine è quello sottoscritto dalle
partecipanti al «Corso Femminile» tenutosi a Frattocchie nel luglio del
1983: «Torniamo all’attività politica quotidiana convinte che nel
partito troppi valori di impronta maschile ci impediscono troppo spesso
di vivere esperienze di questo tipo.
I SENTIMENTI di emulazione,
di competizione, le figure carismatiche, il senso della gerarchia sinora
ci hanno costrette a tacere o a parlare separandoci dai nostri dolori,
dalle nostre gioie, insomma da noi stesse. In questo modo il partito
appare meno fragile, più scientifico e asettico, ma certo vive nel
profondo e quindi anche nella sua capacità di incidenza politica una
mancanza, una contraddizione che lo indebolisce limitandone potenzialità
e ricchezza propositive». Scritta meno di dieci anni dopo i trionfi
elettorali, lontana anni luce dai libri di Luciano Gruppi e ormai da
ogni vulgata, questa pagina allarmante è presaga e si affaccia a un
presente che sappiamo rovinoso.