martedì 20 marzo 2018

il manifesto 20.3.18
Polonia, la legge sull’aborto sarà ancora più dura
Altro voto in Parlamento. Per la prima volta il clero è intervenuto con una nota ufficiale
Una protesta delle donne polacche per il diritto all'aborto
di Giuseppe Sedia


VARSAVIA  L’aborto resterà consentito soltanto in due casi: quando la gravidanza mette a repentaglio la vita della madre o quando esiste il sospetto fondato che sia il risultato di un stupro. La misura approvata ieri sera dalla commissione alla giustizia del Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, mira a rendere ancora più restrittiva la legislazione sull’interruzione volontaria di gravidanza vietandola in caso di malformazioni del feto. Dopo esser stato approvato al Sejm in prima lettura a gennaio, il testo della nuova legge promosso dal gruppo pro-life Zycie i Rodzina Kai Godek, era rimasto in stand by fino alla settimana scorsa. Ma poi l’intervento dell’Episcopato polacco ha dato nuovo slancio all’iter parlamentare. «I vescovi chiedono la ripresa immediata dei lavori parlamentari sull’approvazione della legge di iniziativa parlamentare Stop Aborcji», si legge in un comunicato della chiesa polacca diffuso mercoledì scorso. Tale iniziativa ha spiazzato anche la maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) che ha infine scelto di dare un’accelerata all’approvazione della nuova proposta di legge. Una scelta in parte sorprendente quella del clero polacco che ha deciso per la prima volta di intervenire direttamente in materia di aborto con una nota ufficiale che ha sortito gli effetti politici sperati.
In occasione delle proteste del «lunedì nero» nella primavera del 2016, che avevano portato in piazza migliaia di cittadini contro l’introduzione del divieto totale di aborto, la chiesa aveva deciso di non intervenire. Allora i numeri e la forza d’urto degli ombrelli scuri delle donne polacche scese in piazza per esprimere il proprio nie avevano spinto il PiS a fare dietrofront sul provvedimento. Questa volta le proteste organizzate dal movimento Osk (Ogolnopolski Strajk Kobiet), nato sulle ceneri del Black Monday, hanno preso di mira i luoghi del potere religioso e non politico. Già domenica si sono registrate di fronte le diocesi di 16 città. Ieri sono andate avanti anche nei centri più piccoli come la città di Oliwa, vicino Danzica. In questi giorni le donne non agitano ombrelli neri ma delle grucce simbolo degli aborti clandestini in un paese che godeva di una legislazione più liberale in materia di interruzioni volontarie di gravidanza durante l’epoca comunista.
Il provvedimento in discussione al Sejm è quanto di più vicino ci possa essere al divieto totale. Va ricordato che allo stato attuale i ginecologi in Polonia possono in ogni caso appellarsi all’obiezione di coscienza per giustificare il proprio rifiuto all’aborto. Attualmente la casistica a Varsavia parla chiaro: 9 interventi autorizzati su dieci riguardano proprio i casi di malformazione del feto. La nuova misura dovrà passare ora al vaglio della commissione per la famiglia e gli affari sociali prima del votazione al Sejm.

il manifesto 20.3.18
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti


«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio?
Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
mariangela.mianiti@gmail.com

il manifesto 20.3.18
Il sacco di Afrin
Rojava. I mercenari dell'Els, alleati di Ankara, hanno saccheggiato la città curda occupata dalle truppe turche due giorni fa. Erdogan canta vittoria e annuncia che l'offensiva andrà avanti. I combattenti curdi delle Ypg però non si arrendono e proclamano la resistenza ad oltranza
di Michele Giorgio


«Afrin sarà ripulita entro la fine della giornata» proclamava ieri con orgoglio Mohammed al Hamadin, il portavoce dei mercenari filo-turchi dell’Esercito siriano libero (Els). Cosa intendesse per «ripulita» lo hanno chiarito bene le immagini giunte dalla enclave curda conquistata due giorni fa dalle truppe di Erdogan. Trattori con i rimorchi e autocarri carichi di materassi, elettrodomestici, sedie, televisori, tavoli, animali, cibo. I mercenari dell’Els hanno saccheggiato Afrin proprio nei giorni in cui i suoi abitanti avrebbero dovuto festeggiare il Newroz. Hanno preso tutto ciò che potevano dalle case e dai negozi abbandonati dai proprietari fuggiti con altri 200mila civili curdi sotto i bombardamenti turchi. Domenica, appena entrati in città, quelli dell’Els avevano distrutto la statua di Kawa, l’eroe che il 21 marzo del 612 aC liberò dagli assiri i Medi, gli “antenati” dei curdi. Gli ufficiali turchi li hanno lasciati fare, proprio come un tempo facevano i comandanti della armate vittoriose che al termine delle battaglie garantivano alle milizie alleate il diritto al bottino di guerra.
Da Ankara intanto il desposta Erdogan fa sapere che l’offensiva “Ramo d’ulivo” continuerà fino alla completa eliminazione di quello che chiama il «corridoio del terrore» al confine turco-siriano. E lancia una nuova minaccia: saranno prese anche le città di Manbij, Kobane, Tell Abyad, Ras al Ayn e Qamishli, per annientare le Unità combattenti curde di protezione del popolo (Ypg). «Abbiamo già neutralizzato 3.662 ‘terroristi’» ha aggiunto intendendo i nemici uccisi, feriti o fatti prigionieri.
L’Amministrazione autonoma di Afrin ha fornito un bilancio terribile: oltre 500 civili uccisi, 1.030 i feriti, 820 i morti tra gli uomini delle Ypg. I combattenti curdi per evitare altri massacri sono arretrati verso Aleppo, all’interno delle linee controllate dall’esercito siriano, ma non si sono arresi anzi. Promettono di trasformare Afrin in una tomba per i soldati turchi e i mercenari dell’Els. «Erdogan sta compiendo una pulizia etnica e un genocidio ad Afrin» ha detto Othman Sheikh Issa, un rappresentante delle Ypg, assicurando subito dopo che «il nostro popolo negli ultimi 58 giorni ha mostrato una tenace resistenza contro il secondo esercito più potente della Nato». Da ora in poi, ha avvertito, «utilizzeremo nuove tattiche. Le nostre forze sono ovunque nella regione di Afrin e prenderanno di mira le postazioni del nemico, diventeranno il loro incubo. La resistenza continuerà finché non avremo liberato ogni area e il popolo sarà tornato a casa». Le Ypg hanno già attaccato con armi anticarro un convoglio militare turco presso la diga di Maydanky e con ogni probabilità sono dietro l’ordigno che in un edificio di Afrin ha ucciso una dozzina di miliziani dell’Els.
Sullo sfondo ci sono le blande critiche dell’Europa e le pelose “preoccupazioni” del Dipartimento di stato americano. Erdogan flette i muscoli, in vista del vertice di Istanbul con il presidente russo appena riconfermato Putin e quello iraniano Hassan Rohani. Il suo obiettivo è affidare all’Els il controllo delle porzioni di Rojava strappate ai curdi. Offrendo in cambio l’uscita dalla Ghouta Est delle bande armate salafite di Jaysh al Islam e dei jihadisti di Failaq al Rahman, consentendo così alle forze armate siriane di riprendere il pieno controllo dell’area a ridosso di Damasco. Ma non è detto che i suoi progetti si realizzeranno. Ieri la Siria ha intimato alla Turchia a ritirarsi immediatamente da Afrin e di abbandonare al più presto il territorio siriano che ha occupato.

Repubblica 20.3.18
Zerocalcare
“I curdi erano degli eroi e adesso li avete già dimenticati”
intervista Anna Lombardi


«Due anni fa esaltavamo tutti i curdi: ora sono una fazione come le altre e la Siria, un luogo dove si scannano popoli che ci sono ormai estranei».
Continua a essere in contatto con loro?
«Ad Afrin ci sono persone che conosco: sì, anche italiani. Hanno resistito a un’invasione dove la sproporzione di forze era immensa. Per non scatenare un genocidio hanno scelto di far uscire i civili».
Che cosa la lega così tanto al
popolo curdo?
«Quando nel 1999 Ocalan arrivò a Roma per chiedere asilo politico avevo 14 anni e cominciavo a frequentare la galassia dei centri sociali che diede accoglienza ai tanti curdi che si erano riversati su Roma per sostenerlo. Fu un’esperienza intensa. Ma la mia generazione ha scoperto davvero i curdi solo durante l’assedio di Kobane».
Un luogo che lei ha scelto di raccontare con le sue tavole.
«Partecipai a incontri con la comunità curda in Italia.
Raccontarono il progetto politico avviato a Kobane e mi sembrò subito bello, avanzato. Ma sono uno scettico. Partecipai a “Una staffetta per Kobane”, un progetto di attivismo solidale, con l’idea che i curdi avevano un ceto politico illuminato, che scriveva bei proclami, ma che la vita reale era diversa. Invece trovai uno scenario interessante».
Che scenario?
«Una rivoluzione sociale, anche se incompiuta. Soprattutto per il ruolo delle donne, e non solo le mitiche combattenti. Il loro contributo era reale. Ad esempio ogni villaggio aveva un sindaco: e una co-sindaca. Attenzione, non voglio mitizzare: la realtà è sempre piena di contraddizioni. Ma quello in corso lì è davvero una rivoluzione».
Le donne sono le protagoniste del suo Kobane Calling.
«Hanno conquistato tutto da sole: nel movimento di liberazione curdo come nella società.
Raccontavano come erano cambiate le loro vite rispetto al modello delle madri costrette a matrimoni combinati e a obbedire ai mariti. Oggi ad Afrin si cancella proprio l’esperienza di una società che si evolve, per di più in una direzione che qui dovrebbe piacerci».
E ora?
«La campagna turca, che per assurdo si chiama ramoscello d’ulivo, è uno dei momenti più drammatici della guerra: peggiore di quella all’Isis. Il mio fumetto mirava a spiegare le cose alla gente di qui. L’indifferenza di oggi mi fa però dubitare anche della forza del mio lavoro. Servirebbe una risposta politica».
Da parte di chi?
«Affrontare quel che succede nel mondo è il compito della politica.
Chi agita lo spauracchio del terrorismo e dei flussi migratori dovrebbe sapere da cosa fugge questa gente. Lo stesso vale per chi parla di diritti. Dal Pd alla Lega: aiutarli a casa loro, dicono. Ma cosa significa, farli bombardare a casa loro dalla Turchia che distugge le città e genera nuovi profughi? E poi l’Europa gli dà dei soldi per tenersi coloro che si è cercato di ammazzare?».
Lei è molto attivo sui social: i suoi lettori cosa dicono?
«Chi ha letto Kobane Calling chiede come può aiutare. Io rispondo che la cosa fondamentale è informarsi al meglio. Capire cosa succede è già un atto politico».
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«Afrin cade per mano della Turchia. Sotto gli occhi di tutti. E nessuno fa niente. Ma come: i curdi non erano i beniamini dell’Occidente? Alle loro eroiche combattenti abbiamo dedicato pagine di giornali. Ma oggi Afrin è solo l’ennesimo episodio di una guerra sempre più lontana. Ci stiamo assuefacendo all’orrore».
Michele Rech, 34 anni, è l’acclamato fumettista italiano conosciuto come Zerocalcare che con le sue tavole da anni prova a raccontare l’ansia della generazione dei non garantiti. E che nel 2015, dopo un viaggio al confine fra Turchia e Siria, ha narrato nel suo Kobane Calling, una storia particolare: quella dei curdi che difendevano la città curdo-siriana dallo Stato Islamico. Un’esperienza, racconta, «che ancora mi segna. Anche per questo non riesco a capire».
Proviamo a fare chiarezza.
«Domenica è caduta Afrin, l’enclave curda che, risparmiata dall’Isis, aveva dato vita a un esperimento di confederalismo democratico. Ad abbatterne le difese, dopo 58 giorni di resistenza, è stata la Turchia: un esercito Nato, che usa elicotteri italiani, che attacca insieme all’Esercito Libero Siriano composto da jihadisti riciclati da altre formazioni come Stato Islamico e Al Qaeda».
La notizia è su tutti i giornali.
Cosa manca?

il manifesto 20.3.18
L’inesauribile forza della merce-feticcio
Convegni. Un'anticipazione dalla relazione al seminario «L’attualità del Capitale. Nel bicentenario della nascita di Karl Marx», che si terrà presso la Fondazione Basso, a Roma, il 23 e 24 marzo.
di Stefano Petrucciani


Tra i molti temi che Marx affronta nel Capitale, uno di quelli che hanno segnato di più il pensiero critico del Novecento è il feticismo delle merci. Che le merci, i beni di consumo, siano divenute con lo sviluppo del capitalismo moderno un vero e proprio oggetto di culto (come lo erano i feticci per i popoli primitivi) è una constatazione che, per chi ha letto i formidabili testi critici di Adorno o di Debord, ha assunto ormai la consistenza di un’ovvietà.
Ma quando parlava di feticismo e di reificazione (concetti, come vedremo, strettamente connessi) Marx forse anticipava, ma non poteva ancora vedere, gli effetti che lo sfavillante mondo delle merci avrebbe generato nella coscienza degli abitanti della postmodernità. Quello che gli interessava mettere a fuoco era una questione diversa e in un certo senso più profonda: e cioè il fatto che, nella moderna società mercantile-capitalistica, i rapporti tra uomini si trasformano in rapporti tra cose e, soprattutto, le dinamiche socio-economiche che sono il risultato del nostro incessante operare nel mondo ci si impongono come se fossero delle leggi estranee e ineluttabili, alle quali non possiamo che obbedire. Come se fossero «cose» (dalla parola latina res=cosa deriva il termine reificazione) e non rapporti tra gli uomini, storicamente divenienti e modificabili
COME IL CULTO della merce-feticcio, anche questo è un aspetto contro il quale impattiamo continuamente, nella nostra vita quotidiana come in quella politica: non passa giorno senza che qualcuno torni a insegnarci che le superiori leggi dell’economia di mercato impongono, per esempio, di tagliare le erogazioni del welfare, di ridurre la spesa sociale. Come se queste fossero non già scelte politiche, discutibili e criticabili, ma conseguenze quasi naturali di una situazione priva di alternative, rispetto alla quale non ci sono altre scelte se non adattarsi o perire (precipitando nella insolvenza, nella crisi, nella catastrofe della convivenza sociale).
Ma le cose stanno veramente così? Il lavoro di Marx sulla reificazione e il feticismo è proprio un tentativo di rispondere no. Di mostrare che questi modi di vedere che predicano la mancanza di alternative sono il frutto di una complessa dinamica di accecamento: non una semplice illusione e, meno che mai, un inganno da parte dei «cattivi»; piuttosto una apparenza che si impone con forza irresistibile, grazie alla struttura profonda della nostra società che la sostiene e la ricrea sempre di nuovo. Ma per capire come funzioni questo meccanismo bisogna, come fa Marx nelle pagine sul feticismo, impostare sulle giuste basi il ragionamento su come operano e come sopravvivono le società umane.
Ogni società, dalla famiglia primitiva allargata fino alla complessa società moderna, è resa possibile da una certa divisione del lavoro al suo interno.
CIÒ SIGNIFICA che la forza lavorativa complessivamente disponibile (come fosse la forza di un solo individuo, di un Robinson sull’isola deserta) viene distribuita nello svolgimento di attività diverse (per esempio: produzione di cibo, produzione di strumenti, di ulteriori beni, costruzione di alloggi) e che i prodotti di queste attività vengono a loro volta distribuiti agli individui per assicurare loro la sopravvivenza e anche (ove possibile) qualcosa di più.
L’ASSEGNAZIONE del lavoro umano a differenti branche di produzione caratterizza dunque ogni forma sociale. Ma questa assegnazione può essere realizzata in molti modi: in una ipotetica associazione di uomini liberi (l’utopia che Marx ha in mente) questo processo è evidente e trasparente: ci si riunisce e si stabilisce (in modo auspicabilmente democratico) che Tizio farà una cosa e Caio ne farà un’altra.
Nella società mercantile, invece, questa assegnazione del lavoro umano a differenti branche di produzione ha luogo ugualmente, ma senza che nessuno l’abbia programmata o decisa; e proprio per questo risulta in qualche modo occultata, non viene vista o tematizzata.
Ciò che l’individuo vede è che egli può produrre delle merci che hanno un certo valore, e che attraverso il ricavato della vendita può acquistare altre merci che hanno pari valore e che, a differenza delle prime, gli servono per soddisfare i suoi bisogni. L’individuo non vede la complessiva articolazione del lavoro sociale (che pure c’è) perché essa si stabilisce attraverso la dinamica del mercato senza che nessuno se ne curi o la programmi: la distribuzione del lavoro nei vari rami di produzione, e la distribuzione dei beni finali ai differenti individui, è assicurata dal rapporto tra i valori delle diverse merci.
QUELLO CHE ACCADE dunque in questa situazione, secondo Marx, è che i rapporti sociali tra i produttori prendono la forma di un rapporto tra cose.
La vita di ciascuno finisce per dipendere da un processo oggettivo che ha le sue regole, come le hanno le cose indipendenti dagli uomini. Se l’azienda non riesce a vendere i suoi prodotti, fallirà e i lavoratori resteranno disoccupati; se non avranno la fortuna di trovare altri acquirenti per la loro forza-lavoro, non avranno più di che vivere e, nel migliore dei casi, si potrà sopperire alle situazioni più drammatiche mettendoci una toppa attraverso qualche sussidio pubblico.
Ma quello che Marx intende specificamente mettere a fuoco, con la sua teoria della reificazione, sono gli effetti che questa situazione produce nella coscienza degli individui. Poiché il processo nel quale essi si trovano immersi non è stato programmato e deciso da nessuno, esso appare loro come un dato di fatto, come una condizione quasi naturale. Ciò che in tal modo viene occultato è che lo scambio di merci e il rapporto di denaro sono soltanto una modalità possibile (storicamente divenuta e modificabile) per soddisfare l’esigenza generale, propria di ogni società umana, di assegnare il lavoro alle diverse branche di attività e ripartire i prodotti tra i diversi individui. Sotto il dominio della reificazione questa consapevolezza viene occultata, e quello che è soltanto un particolare modo di organizzare i rapporti tra gli uomini viene naturalizzato.
MA QUESTA SITUAZIONE genera anche un’altra conseguenza, rilevante per la critica delle ideologie politiche. Nel rapporto mercantile, dove ognuno appare come un libero compratore-venditore (anche solo della sua forza-lavoro) la effettiva dipendenza reciproca degli individui si presenta come una apparente indipendenza: e come l’ideologia economica assolutizza il mercato, così l’ideologia politica liberale assume gli individui come soggetti indipendenti e irrelati, inconsapevoli del loro legame sociale e tesi soltanto a massimizzare il loro interesse individuale.
Il significato più importante della teoria marxiana della reificazione, perciò, è che essa costituisce un tentativo di mostrare come le dinamiche oggettive della società mercantile-capitalistica, oltre a governare la vita delle persone, siano anche produttive di specifiche forme di coscienza. Qui sta la sua peculiarità, e da questo dipende il fascino che essa ha esercitato su alcuni dei più acuti filosofi marxisti del ’900. Primo fra tutti il giovane Lukács che, nel suo grande testo del 1923 Storia e coscienza di classe, centrava il suo ragionamento proprio sulla reificazione e sulla possibilità che questa venisse svelata e superata dalla coscienza di classe del proletariato. La storia non gli ha dato ragione; anzi, la sconfitta della rivoluzione era in sostanza già consumata quando Lukács la traduceva genialmente in filosofia.
Ma il paradosso di un rapporto sociale che si trasforma in una legge ferrea e ineluttabile è ancora tutto lì. E forse, nell’età del neoliberismo, è divenuto ancora più acuto.

Repubblica 20.3.18
Gustavo Zagrebelsky “Solo il diritto protegge la ragione dal risentimento”
Il giurista raccoglie in un volume una serie di lezioni centrate su un interrogativo: come fa una società a rendere coeso quell’insieme di interessi che l’attraversano?
Intervista di Antonio Gnoli


In un tempo decisamente votato all’incertezza e nel quale sempre più rassegnati guardiamo al futuro, possono tornare utili le considerazioni che Gustavo Zagrebelsky svolge intorno alla natura del diritto e alla sua storia. Il diritto allo specchio (nel quale per Einaudi sono raccolte le sue lezioni al San Raffaele di Milano) è una guida straordinaria dentro le questioni capitali che hanno attraversato le civiltà e che potremmo riassumere con un interrogativo: come fa una società a proteggersi da se stessa? Come fa a rendere coeso e tollerabile quel coacervo di interessi, desideri, brame che l’attraversano e che sono a volte impulso vitale altre annuncio di rovina? «La storia ha offerto differenti soluzioni, quella più solida che è sopravvissuta nonostante le evoluzioni e i cambiamenti, che non sempre sono all’altezza delle aspirazioni, è il diritto», dice Zagrebelsky.
In che senso “Diritto allo specchio”, cosa vi si riflette?
«Mi piaceva l’idea di specchio come
speculum. Paolo di Tarso dice che la condizione umana consente di vedere le cose solo “per speculum in enigmate”, cioè riflesse e velate.
Quasi a significare che la verità ha una sostanziale inafferrabilità».
Qualunque definizione del diritto è dunque provvisoria?
«Al di là dei compendi giuridici, l’esperienza ci suggerisce che nel diritto c’è qualcosa di sfuggente con cui occorre fare i conti. La concezione tradizionale, di cui siamo figli, cioè il diritto come legge positiva, che è poi la volontà scritta in una legge, è in larga parte superata. Oggi il diritto è certo legge, ma deve saper far fronte a quell’attività quotidiana composta da casi spesso controversi».
Le controversie, per esempio, sulla fecondazione eterologa o il suicidio assistito, rientrano nelle difficoltà cui alludi?
«Quando si discute di “suicidio assistito” scende in campo il concetto di dignità umana. Ma sappiamo benissimo che esistono due opposti usi. Per alcuni la dignità umana esclude che il fine vita si consumi in condizioni disumane; per altri non c’è niente di più disumano del privare la vita altrui. È chiaro dunque che il diritto si trova ad affrontare visioni diverse, risultato di un conflitto culturale».
Con quali conseguenze?
«La più vistosa è che in nome di visioni contrapposte il diritto diventa materia disputabile».
Questa disputabilità rende il diritto debole?
«Come sai sono un sostenitore del diritto mite. Ma non confonderei il mite con il debole. Anche perché il diritto produce sempre decisioni definitive».
Qual è la differenza tra mite e debole?
«Per debole si può intendere un organo privo di sufficienti difese; mentre il mite non contraddice la forza, la usa in modo ragionevole, cercando di armonizzare tra le diverse posizioni».
Un teorico del compromesso fu Hans Kelsen. Al suo opposto si stagliò Carl Schmitt. Essi danno letture diametralmente opposte del diritto novecentesco. Tu da che parte ti collochi?
«Non è come tifare e scegliere tra due squadre di calcio. Furono due grandi giuristi, ma in prospettiva Kelsen ha una strumentazione più adeguata per affrontare i problemi che ci investono».
Ai suoi occhi solo la purezza del diritto garantiva la sua funzione.
«È l’aspetto meno interessante, anzi superato della sua visione: non si dà più un diritto depurato dalle istanze che provengono dalla società. Resta invece attuale l’idea che attraverso determinate procedure giuridiche sia possibile armonizzare il pluralismo delle opinioni e degli interessi».
È proprio ciò che Schmitt vede come fumo negli occhi.
«Schmitt è un teorico dell’emergenza. Egli ha sotto gli occhi l’esperienza di Weimar, il lento agonizzare della società e dello Stato. Vede il caos avanzare.
Per arrestarlo concepisce un potere decidente che separi gli amici dai nemici».
Non è un compito che spetta alla Costituzione?
«Proprio questo è il problema. Per Schmitt la garanzia della costituzione è nella decisione del dittatore che opera un allontanamento dei nemici. Nella visione schmittiana non c’è spazio per una giustizia costituzionale, la garanzia per lui può essere solo politica. Al contrario, Kelsen pensa alle procedure regolate e a un giudice che sia garante di queste procedure».
A proposito di giudici si dice che l’odierna magistratura abbia riempito il vuoto lasciato dal potere politico; ma che il potere giudicante sia eccessivo. Come valuti questa fase storica?
«La vedo come un dato di fatto.
Incontestabile, nel senso che non si può non tenerne conto; ma, al tempo stesso, occorre razionalizzarla, evitando abusi e inconvenienti».
In che modo?
«Puntando su una adeguata formazione dei giudici, troppo esperti delle leggi riportate sulle gazzette e poco di quel diritto sociale che creando nuovi equilibri produce nuove norme di comportamento».
Non ritieni che per questo occorra una forza ordinante frutto di una sovranità oggi in crisi?
«È in crisi la sovranità che scende dall’alto. Il nostro è il tempo della sovranità residua che opera nel campo dell’ordine pubblico e in quello dei diritti civili. Siamo in presenza di una richiesta di nuove forme di responsabilità. Ma che cosa riservi l’avvenire è incerto. Si fronteggiano due orientamenti: la chiusura e la repressione, da un lato; l’apertura e l’integrazione, dall’altro. In entrambi i casi, la base umana su cui pacificamente poggiavano gli Stati è messa in discussione».
Prima si accennava all’esperienza di Weimar.
Qualcuno comincia a pensare che per alcune forti analogie, l’esperienza politica di Weimar stia diventando il nostro fantasma. Cosa ne pensi?
«Penso che oggi non ci sia lo stesso conflitto radicale che c’era negli anni Venti in Germania. Quel mondo era spaccato in due, il paese distrutto. La rivoluzione bolscevica minacciava di estendersi anche da loro. Era, appunto, un conflitto radicale, dove, come osservò Schmitt, venivano mobilitate le passioni più irrazionali. Oggi, più che passioni totalizzanti siamo preda di interessi particolari. In fondo Weimar, a suo modo, fu un’epoca eroica, noi siamo un’epoca senza pathos. Nonostante tutto, stiamo molto meglio. Da noi l’anomia produce disordine, da loro ha prodotto il nazismo».
Molta gente è stanca del disordine. Può nascere da ciò la tentazione dell’“uomo forte”?
«La democrazia, per come la conosciamo, mira alla convivenza.
L’uomo forte oggi potrebbe essere invocato per garantire l’attuale livello di esistenza. Non lo immagino come colui che è in grado di creare l’uomo nuovo».
È come se tu escludessi la possibilità di una democrazia fiaccata dalle troppe patologie.
«Non è esattamente così.
Estremizzando il discorso si può dire che viviamo in un’epoca in cui la democrazia agisce contro se stessa. Come tutti i regimi politici può essere buona o cattiva. Sana o corrotta. La democrazia, che in partenza sembrerebbe il regime più amicale, può trasformarsi in quello più odioso».
Dove alla fine vincono la paura e il risentimento?
«C’è il rischio. Il risentimento ha una forma democratica ma un contenuto irrazionale e quindi pericoloso. La tua osservazione implica che l’attuale democrazia si debba basare su una responsabilità diffusa. Ma questa non la imponi per legge. O c’è o non c’è. In questo senso la democrazia è fragile. Essa non garantisce una polizza assicurativa».
La si chiede allora all’uomo forte?
«Lui sì che sventola la polizza, ma è un’assicurazione oltre che pericolosa, fasulla»

Corriere 20.3.18
Profili violati: Facebook crolla
di Massimo Gaggi e Giuseppe Sarcina


Facebook crolla in Borsa. Il titolo della compagnia di Mark Zuckerberg perde quasi il 7%. Un contraccolpo legato allo scandalo sui dati rubati. Cinquantuno milioni di profili di elettori americani sono stati violati dalla Cambridge Analytica, quando era al servizio della campagna di Trump. Dura la reazione della Ue: «Il cattivo uso per fini politici dei dati di utenti Facebook, se confermato, è inaccettabile».
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON Tutti contro Mark Zuckerberg. Il Parlamento britannico, quello europeo, il Congresso americano e persino Wall Street che ieri ha fatto precipitare del 7% circa il titolo Facebook, quotato al Nasdaq.
Il fondatore del social network si trova ad affrontare la più insidiosa delle crisi: la caduta verticale di fiducia. Il caso dei 50 milioni di profili Facebook rubati da Cambridge Analytica e messi al servizio della campagna elettorale di Donald Trump pone una domanda tanto semplice, quanto letale, che rimbalza dall’opinione pubblica alla politica agli ambienti finanziari: Zuckerberg è ancora in grado di controllare la sua società?
A Washington, Capitol Hill è in agitazione. La senatrice democratica Amy Klubochar vuole convocare il giovane imprenditore davanti alla Commissione Affari giudiziari: «Deve spiegare come mai non si sia accorto che i dati venivano usati per manipolare gli elettori». La procuratrice generale del Massachusetts, Maura Haley, ha già annunciato l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sui rapporti tra Facebook e Cambridge. Dall’altra parte dell’Atlantico, nel Regno Unito, anche il parlamentare conservatore Damian Collins chiede di sentire direttamente Zuckerberg: «Non è accettabile che Facebook abbia mandato dirigenti non in grado di rispondere ai nostri dubbi».
Le rivelazioni del New York Times e del britannico Observer hanno portato alla luce una storia inquietante, dal fascino sinistro. Da almeno cinque anni un team stranamente assortito ha cercato prima di favorire la campagna per la Brexit, poi la candidatura di Donald Trump alla Casa Bianca. Nel 2013, racconta il Guardian , Steve Bannon conosce Christopher Wylie giovane ricercatore canadese, attirato dagli incroci tra social, psicologia di massa, intelligenza artificiale. Bannon, all’epoca direttore del sito della Destra alternativa Breitbart , ha un teorema da dimostrare: la Rete può condizionare i giudizi delle persone, trasformando anche il «prodotto» più brutto in una scelta di tendenza. Wylie è in sintonia e fa l’esempio dei sandali «Crocs»: non il massimo dell’eleganza eppure stravenduti. Ma secondo Channel 4 c’è di più: la Cambridge ricorre a tangenti, false identità, ex spie e persino alla prostituzione di giovani ragazze ucraine per stroncare gli avversari. L’ambito è sempre lo stesso, la politica. La squadra parte con il sostegno all’offensiva anti europea di Nigel Farage. Subito dopo, con i soldi del miliardario Robert Mercer, generoso finanziatore dei repubblicani, la Cambridge Analytica comincia ad ammassare fino a 50 milioni di profili da Facebook. Toccherà a Zuckerberg spiegare come tutto cio sia stato possibile e, soprattutto, se esiste un modo per blindare i dati sensibili.
Già nell’ottobre 2107 l’ufficio legale di Facebook rese noto che circa 126 milioni di americani avevano letto post aggressivi, che fomentavano divisioni, in qualche caso anche l’odio sociale. Poi l’inchiesta del Super Procuratore Robert Mueller ha messo sotto accusa una serie di realtà guidate dal Cremlino.
Ma la vulnerabilità di Facebook resta un tema irrisolto. «Siamo determinati a fare il possibile per far fronte a questa minaccia» scriveva in autunno il legale Colin Stretch, in una nota trasmessa alla Commissione Affari giudiziari del Senato. Un impegno non più rinviabile.

il manifesto 20.3.18
Vladimir Putin, ovvero il politico equilibrista
di Rita di Leo


La vittoria va «spacchettata» nei suoi fattori. Il più immediato è l’affaire dell’avvelenamento della ex spia per il quale il portavoce di Putin ha ringraziato la May: quanti indecisi sono andati a votare, ancora una volta umiliati e indignati dall’avversione occidentale verso il capo del loro governo, della loro Russia? Il sentirsi incompresi per l’avvvenuto distacco dal passato sovietico, accomuna la gran parte della piccola e media borghesia, della burocrazia amministrativa, dello strato dei tecnici che realizzano quotidianamente la differenza. E sono grati al governo che ha compiuto la transizione: dal caos degli anni di Eltsin alla riesumazione dei baluardi del potere pre-bolscevico, come la chiesa greco-ortodossa, e il nazionalismo patriottico. I russi che vivono in città, innanzitutto i giovani, si sentono parte del mondo occidentale, hanno i medesimi comportamenti nei consumi, nell’uso delle tecnologie d’avanguardia, nelle aspettative di business.
E si considerano utilmente rappresentati da chi hanno appena eletto. I russi che vivono ancora in campagna, nei piccoli centri e gli anziani hanno meno certezze epperò le pensioni sono finalmente pagate in tempo e regna l’ordine sociale. Chi è diventato ricco può vantarsene pubblicamente. Chi è povero deve prendersela con se stesso. Più o meno come prima del 1917.
Non la pensa così la quasi totalità di chi ha il potere in occidente e i mass media che ne sono la voce. Negli anni immediatamente seguiti alla fine dell’Urss la prospettiva era che la Russia sarebbe sopravvissuta come un medio paese nell’orbita americana, deindustrializzato, denuclearizzato, con crisi finanziarie e debolezze istituzionali. Non sembrò all’epoca un problema la scelta di Eltsin di puntare su Putin, un piccolo colonnello dei servizi segreti, per 5 anni di stanza in una città di provincia tedesca, la Dresda martoriata sul finire della guerra.
Quel piccolo colonnello è oggi raffigurato come uno zar nemico in quanto è uscito dall’orbita americana. In realtà per un non breve periodo Putin ha puntato sulla Germania dove aveva vissuto, sperando nel suo aiuto perché la Russia potesse tornare ad essere riconosciuta parte dell’Europa. Con l’ingresso nell’Unione europea dei paesi del patto di Varsavia, la speranza è caduta. E dalle successive avversità son venute fuori le iniziative politiche che fanno infuriare l’intera comunità occidentale. L’annessione della Crimea è solo l’ultima mossa della sua politica estera che sembra somigliare sempre più alla politica di potenza dell’Urss. Dopo aver subito le guerre nei Balcani e l’emarginazione dei serbi, la ripresa dei rapporti con la Cina e le incursioni nello scacchiere del Medio Oriente, vanno in parallelo con gli investimenti nell’apparato strategico-militare.
È poi la rinascita di quest’ultimo ciò che più inquietava dapprima l’America di Obama e oggi l’Ue, influenzata dalla Polonia, dall’Ungheria e persino da Riga e Tallin. Contrasti con l’Europa non sono nelle corde della borghesia russa nella quale ti imbatti ovunque in giro per semplice turismo, per le città d’arte, per business. E il loro capo di governo lo sa bene ed è alla ricerca di una politica di equilibrio tra il soft power richiesto dai suoi elettori e l’hard power che sembra la sola via per far riconoscere al suo paese un ruolo in linea con il suo recentissimo passato. Sta qui il fossato che separa il politico Putin dalle élite al potere nell’universo mondo: se l’America da sola investe negli armamenti più di tutti gli altri paesi, può tollerare e con lei i suoi alleati una qualche parità semplicemente perché forse la Russia dispone di una qualche nuova arma? Sembra difficile attraversare quel fossato e la vittoria elettorale rende Putin ancora più avversario.

Il Fatto 20.3.18
“Democratura” senza confini: lo zar e lo Stato di Putinia
di Leonardo Coen


Benvenuti a Putinia! “L’état c’est moi!”, sosteneva con superbia il Re Sole. Lo stato russo sono io, può affermare – senza mentire – zar Vladimir Vladimirovic. Uno e trino: il Putin del passato. Il Putin di oggi. E il Putin del futuro. Insomma, un Putin a oltranza.
Legittimato da 56 milioni di russi che lo hanno votato (il 76.66 per cento dei suffragi): un plebiscito, ma con il trucco. Le forti pressioni sull’elettorato, migliaia di brogli. L’appoggio della Chiesa ortodossa, che vede in Putin un prezioso alleato e il sentimento è profondamente ricambiato. I pope sono stati le stampelle putiniane nelle contrade più remote dell’impero, è un dato di fatto. Più il nazional-patriottismo. Senza dimenticare che Putin si è liberato con ogni mezzo degli avversari: avrebbero potuto rovinargli la festa e limitare la vittoria entro dimensioni più circoscritte. Putin, stavolta, non poteva permettersi un risultato normale: aveva bisogno di un voto clamoroso, per dimostrare soprattutto agli amici del Cremlino che i russi lo vogliono e che è lui il più forte, spazzando via ogni congettura sull’ipotesi di una successione programmata.
Lenin scrisse “Che fare”, ponendo le basi teoriche per organizzare il partito rivoluzionario, alla cui testa porre l’avanguardia (della classe operaia). Putin ha aggiornato il metodo leninista: la sua avanguardia è la cricca di cui si circonda, i sodali di San Pietroburgo (non a caso lui e i suoi sono chiamati i “piters”). La struttura del potere è quella che si esercita con “la verticale del potere”. Sotto l’occhio vigile del capo del Cremlino e dei suoi più fedeli e stretti collaboratori. È il motore della democratura, parola coniata dai politologi francesi per descrivere un regime che miscela un po’ di democrazia liberale e un po’ di dittatura.
Cos’è? Secondo Anastasia Kirilenko e Nicolas Tonev, noti giornalisti investigativi russi in esilio, “è un sistema mafioso che gestisce e cancrenizza il Paese”. Per Garry Kasparov e decine di oppositori è “la più grave minaccia alla democrazia e ai valori occidentali che esistono oggi nel mondo. Il potere di Putin come leader della Russia è basato sulla paura, il mistero e la propaganda. Putin ha esercitato la violenza come strumento chiave nel plasmare un sistema che gli conferisce potenza e ricchezza ineguagliabili, sia in Russia che a livello mondiale”.
La democrazia liberale è un ostacolo al potere degli uomini forti (come Putin) e agli interessi di chi li sostiene (gli oligarchi e i siloviki, gli uomini della forza: servizi, militari, strutture ministeriali, polizia, dogane). Così, si è plasmata una democrazia a bassa intensità in cui il regime politico formalmente si attiene alle regole della democrazia, mentre nella pratica le elude, ispirandosi a un autoritarismo sostanziale. Questa strategia, però, ha una necessità: richiede un centro di potere progressivamente sempre più forte e centralizzato, nonché misure capillari di controllo. Dei cittadini, in nome della sicurezza nazionale. E dell’amministrazione, in nome dell’autonomia nazional-patriottica.
Il Putin del passato ha raggruppato le 89 entità federali in sette distretti amministrativi governati da rappresentanti nominati direttamente da lui, ai quali sono concesse “prerogative estese”. Così tiene saldamente in mano la periferia dell’impero. Prima di Putin, i governatori venivano eletti. Oggi vige una legge (ancora) non scritta che ammonisce: “Sii un buon russo e taci”.

Corriere 20.3.18
Russia e Cina
I «gemelli» del potere
di Danilo Taino


Una domanda corre in queste ore nelle cancellerie di mezzo mondo: «Putin forever?». Putin per sempre? Nei giorni scorsi, invece, ai governi è arrivata anche una notizia secca: «Xi Jinping forever!». Ieri, i due leader si sono scambiati congratulazioni per le reciproche riconferme al potere.
Il presidente russo resterà in carica almeno fino al 2024, dopo essere stato rieletto da una maggioranza notevole di connazionali. Il presidente cinese rimarrà al suo posto fino al 2023 ma potrà ricandidarsi (ed essere confermato) fino a quando vorrà. Gli uomini forti delle due potenze dell’Eurasia da questo punto di vista sono gemelli: nessuno minaccia la loro posizione e il loro potere.
Qualche similitudine c’è anche nel loro sistema di controllo politico domestico. La Russia è ormai a tutti gli effetti un regime autoritario, dominato da un clan di oligarchi e funzionari che trova il suo punto di equilibrio e di guida in Putin. Le elezioni le manipolano — perché i russi si sono abituati a votare e tornare indietro formalmente non si può — e per i successivi sei anni gestiscono, quasi senza controllo e contropotere, la vita del Paese: nell’economia, nei media, nell’esercito, nei tribunali, nei servizi segreti, nelle prigioni. La Cina è una dittatura in cui il clan di vertice è la cupola comunista e dove ragion di Stato e di partito coincidono: dalla fine degli Anni Settanta del secolo scorso, il capitalismo centralizzato funziona ma i diritti civili continuano a non esistere, le elezioni inutili. A Mosca la democrazia è «gestita» e manipolata, a Pechino non c’è.
La terza somiglianza tra Putin e Xi sta nel fatto che entrambi stanno stringendo il controllo sull’apparato di potere. Il presidente della Duma russa, Vyacheslav Volodin, sostiene che «senza Putin la Russia non esiste». Nel tempo (è al potere dal 2000), il leader ha messo fuori gioco l’élite politica di tendenze democratiche e si è circondato di tecnocrati e oligarchi senza particolari convinzioni ideologiche ma interessati alla conservazione del potere. Xi ha cambiato la costituzione cinese, ha abrogato il limite di due mandati da presidente e ora potrà essere nominato potenzialmente a vita come capo dello Stato, oltre che del partito. In più, la sua campagna contro la corruzione gli ha permesso di eliminare gli avversari e di costruire attorno a sé un apparato fedele.
Le somiglianze finiscono però qui. Due enormi differenze separano Putin e Xi, Mosca e Pechino. Entrambe fondamentali per capire le due potenze oggi. Innanzitutto, l’economia della Russia è debole, quella della Cina è fortissima. Il Prodotto interno lordo della federazione russa — il Paese più vasto del pianeta — è inferiore a quello dell’Italia. La dipendenza dal settore energetico e dalle materie prime rimane elevatissima. La capacità d’innovazione è bassa nonostante l’abbondanza di intelligenze, segno dell’ingessatura del sistema. La ricchezza prodotta è in misura notevole dirottata verso la cerchia del potere e solo in parte arriva ai cittadini comuni. Le sanzioni dell’Occidente seguite all’annessione della Crimea finora non hanno colpito Putin ma certamente non hanno aiutato l’economia.
La Cina invece continua a crescere tra il sei e il sette per cento l’anno. La sua economia è già la prima del mondo se misurata in termini di parità di potere d’acquisto. Gli squilibri interni e la corruzione sono forti ma finora i vertici del partito hanno dimostrato una grande abilità nel gestire le crisi reali e quelle possibili. L’efficienza del dirigismo statale è quel che ha permesso al vertice del partito di negare le libertà civili e democratiche in cambio dell’aumento del benessere. Ciò proietta l’idea di una non lontana egemonia cinese globale: se si guarda alla forza digitale, gli Stati Uniti sono vicini a un «Sputnik Moment», la sorpresa con cui si accorsero che l’Unione Sovietica era più avanzata nella gara nello spazio.
La seconda differenza, legata alla prima, sta nella politica estera dei due leader e dunque nel futuro dei due Paesi. Proprio perché non ha una narrazione forte in economia, Putin esporta conflitti o la partecipazione in essi, dalla Crimea alla Siria all’Ucraina. E si affida, sempre come arma di politica internazionale, al polonio e ad agenti chimici nervini. Poco attraente. La Cina è invece in una fase di conquista di consensi internazionali per il suo modello di capitalismo autoritario, efficiente e non frenato dai lacci della democrazia. E lo accompagna con il rafforzamento militare, soprattutto in mare, ma anche con la costruzione di un portentoso corridoio di infrastrutture tra la madrepatria e l’Europa, via Asia centrale e Medio Oriente, la Belt and Road Initiative che prevede la costruzione di strade, ferrovie, porti e rotte marittime. Gemelli in autoritarismo ma separati dal futuro.

Corriere 20.3.18
La strage infinita, un femminicidio ogni 60 ore
Diciotto casi dall’inizio dell’anno. In testa Lombardia e Emilia, l’arma più usata è il coltello
di Virginia Piccolillo


ROMA Diciotto donne uccise, due sono bambine ammazzate dal padre che prima aveva sparato per tre volte alla loro mamma. È iniziato male il 2018. Malgrado la nuova legge, le campagne i centri antiviolenza e le case rifugio, malgrado tutto la strage prosegue al ritmo di una donna ammazzata ogni 60 ore. Laura Petrolito, con i suoi 20 anni, è rimasta solo per un giorno ultima della lista prima che venisse uccisa la mamma trentunenne Immacolata Villani.
Secondo il Viminale tra il 4 marzo 2017 e il 3 marzo 2018, gli omicidi con vittime di sesso femminile sono stati 119, contro i 142 di due anni fa. Quelli consumati in «ambito affettivo» 83, il 22% in meno rispetto all’anno precedente. Diminuite anche le lesioni colpose (-3,9%), le percosse (-4,54%), le minacce (-5,86%), le violenze sessuali (-0,74) i maltrattamenti (-8,42%) e gli atti persecutori (fino a -20%) sulle donne. Mentre aumentano gli allontanamenti (+1,08%) e i divieti di avvicinamento (+17,29%) per chi le perseguita.
Ma il numero delle vittime è ancora troppo alto. A fine febbraio erano già 13 le donne uccise, 10 in ambito familiare e 7 da partner o ex. Dal 2000 a oggi sono stati 3 mila i femminicidi secondo l’Eures. E spesso le denunce sono di molto inferiori alle violenze subite (solo il 12%). L’arma più usata è il coltello (40,2%), poi ci sono gli strangolamenti (18%), gli oggetti contundenti (15,5%), pistole e fucili (12,8%) o calci e pugni (9%). Il 35,2% dei femminicidi avviene in casa della vittima, nel 34,1 nella casa coniugale il 15,8 in strada, nei parchi, nei campi.
Molto si sta facendo. Il Dipartimento delle Pari Opportunità ha quasi triplicato i fondi, ma vanno alle Regioni che poi li spendono in modo disomogeneo. Le case rifugio sono aumentate da 163 a 258 negli ultimi 5 anni, i centri antiviolenza 296 da 188. Ma le vittime sono spesso sole. E se denunciano vedono prima la reazione del partner violento che quella della giustizia. Per questo il Csm intende varare linee guida per sanare le disomogeneità. Se a Firenze è stata emessa l’ordinanza di custodia cautelare nel 31,42% dei casi e a Genova nel 41,99%, a Napoli siam solo all’8,2%.
Secondo un’elaborazione del Comando generale dei Carabinieri relativi al 2017, le vittime sono in gran parte oltre i 64 anni. Seguono quelle tra i 35 e i 44 e tra i 45 e 54, poi quelle tra i 55 e i 64 e ultime quelle tra i 18 e i 24. Più della metà dei killer sono partner o ex. In testa alle regioni più insanguinate, come numeri assoluti, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. In termini percentuali invece prevalgono Umbria, Calabria e Campania.

La Stampa 20.3.18
Valeria Parrella
“Il Sud si sente scaricato, ha scelto il M5S
come la forza più antigovernativa che c’è”
La scrittrice: “I giovani hanno pensato solo: diamo una chance a chi non l’ha mai avuta”
intervista di Massimo Vincenzi


Valeria Parrella è nata a Torre del Greco, inzuppata di Sud, scrive romanzi pieni di umanità e combatte battaglie ad alta densità politica. I problemi del territorio, i diritti delle donne, i giovani, l’ambiente, la scuola sono gli orizzonti dentro i quali muove il suo periscopio a caccia di un futuro migliore, senza arrendersi al fatalismo. Cammina sul filo di posizioni estreme, sino alla candidatura, nel 2014, nelle file dell’Altra Europa con Tsipras e al recente endorsement per Potere al popolo. Ha una sguardo lucido e spiazzante: la sua lettura del 4 marzo è originale e piena di spigoli.
Partiamo dalla cornice. Cosa è accaduto alle ultime elezioni?
«Prima un paio di premesse. Con questa legge elettorale ogni risultato sarebbe stato un disastro. Comunque andava, sarebbe andata male. Io sostengo il proporzionale, perché voglio che vada in Parlamento anche una sola persona che lotta per le cose in cui credo io».
La seconda?
«Qualche giorno prima delle elezioni mio figlio Andrea - che ha undici anni - è tornato a casa con un libro di educazione civica, ora educazione alla cittadinanza. Io provo a descrivergli come funzionano le elezioni. Ma mi trovo subito in imbarazzo a spiegare quello che i leader politici non hanno capito, ovvero che gli elettori scelgono i parlamentari, non il governo. Basta guardare il dibattito di questi giorni tra Salvini e Di Maio: tocca a me, no tocca a me. Non è che ci vuole un ripasso della nostra Costituzione?».
Date le premesse è innegabile che al Sud ci sia stata una rivoluzione, dalla Dc a Forza Italia sino alla vittoria dei 5 Stelle che si sono presi quasi tutto. Che ne pensa?
«Intanto c’è Sud e Sud. Per dire, la Basilicata e la Puglia hanno avuto e hanno storie politiche diverse dalla Campania e dalla Sicilia. E bisogna sempre tenere uniti i risultati di Europee, Amministrative e Politiche per non perdere il quadro di insieme evitando generalizzazioni sbagliate».
Ok, prendiamo la Campania. Qui i grillini dominano. Perché?
«Il risultato è ancora più significativo, perché il passaggio non è dal Blu al Giallo, ma dal Rosso al Giallo. Il Pd ha abbandonato le idee di sinistra e ha sbagliato gli uomini, penso per esempio a De Luca governatore, ma non è la sola ragione».
Qual è quella reale?
«Il Sud si sente scaricato, sempre ignorato. Infatti abbiamo imparato a fare da soli. Qui ci sono realtà bellissime di volontariato, di autogestione che nel corso degli anni si sono abituate a fare a meno del governo centrale, che tanto non muoveva un dito. Poi al Sud si sente la povertà in maniera crudele, pazzesca, più che in altri luoghi. Molte persone giovani che conosco, che pure avrebbero potuto votare LeU o Potere al popolo, si sono buttate sui 5 Stelle proprio per questo motivo: abituati a far da soli, hanno dato il loro voto alla forza più antigovernativa che c’è. Il ragionamento è semplice: non avete bonificato Bagnoli, diamo una chance a chi non l’ha mai avuta. Ora non possiamo dirci che sono tutti imbecilli: dobbiamo cercare il punto in cui il disprezzo per l’istituzione è diventato disprezzo per se stessi, cioè: quello che interessa a me davvero è il vulnus culturale».
Pensa che il Movimento 5 Stelle risolverà i problemi?
«Ma figuriamoci. Il loro programma sembra una chat, cambia di giorno in giorno, dice una cosa e poi il contrario. Ma intanto hanno incassato un terzo del voto degli italiani. Quando penso ai grillini mi viene in mente una canzone di De Gregori».
Quale?
«La Storia siamo noi: …poi ti dicono che tutti sono uguali, che tutti rubano alla stessa maniera, ma è solo un modo per convincerti a restare dentro casa quando viene la sera... Ecco questo li ha portati ad un risultato così potente».
Cosa pensa degli altri, la Lega per esempio?
«Sono l’esatto contrario di quello in cui credo io, quindi cosa vuole che ne pensi? Però la differenza con i 5 Stelle è che hanno tre o quattro idee chiare. Idee xenofobe, nazionaliste, ma capisco che al Nord abbiano fatto breccia, con le loro parole d’ordine, in cima a tutte la paura dei migranti».
L’immigrazione è stato un tema forte della campagna elettorale.
«Direi di più: l’unico, una vera manipolazione delle coscienze. Guardi, Hannah Arendt ne “Le origini del totalitarismo” lo spiega bene: per convincere le persone a fare qualcosa di sgradevole, devi creare loro un nemico comune. Ora noi non siamo alle origini del totalitarismo, ma la ricaduta emotiva sul nostro modo di stare al mondo è un buco nero dell’umanità. Ci vogliono i corridoi per salvare i profughi, noi lo sappiamo: stanno là. Stipati a morire dagli accordi con la Libia. Sa a quanto? 244 miglia nautiche da Napoli: più vicino di Milano».
Però la Sinistra, anche quella esterna al Pd, ha le sue colpe. Non crede?
«Purtroppo siamo pochi sparuti e soli: aiutiamo i lavoratori, apriamo gli spazi abbandonati per gli homeless, organizziamo il doposcuola volontario per i ragazzini. Tutto quello che si fa attorno a sé è un gesto politico».
Ha un messaggio di speranza per suo figlio Andrea o è rassegnata al peggio?
«Sono rassegnata al meglio! L’Italia è un Paese con grandi risorse, ci sono comunità di persone che si impegnano e fanno cose bellissime. La chiave è la cultura, a partire dalla scuola. Nausicaa dice alle compagne che scappano: perché vi spaventate di un uomo nudo che viene dal mare? L’uomo nudo era Odisseo. Se prendi otto all’interrogazione su una storia così la Lega si sgonfia come un palloncino bucato».

Corriere 20.3.18
il senso dello stato un valore del dopo-elezioni
di Antonio Macaluso


Ci fu un tempo nel quale un italiano su tre votava per il Pci di Enrico Berlinguer. Il partito «dell’onestà, della speranza civile, del riscatto sociale. Era composto e diretto da persone che credevano in quello che dicevano, oneste e colte, e da milioni di semplici cittadini che sentivano di partecipare a un progetto generale e riempivano la loro esistenza del significato, civile e morale, di un’identità laica, di una missione in cui la parola politica trovava, nelle assemblee dei gruppi di contadini o nelle cellule di fabbrica, il suo senso popolare più vero». Così parlava Giorgio Gaber, un «meraviglioso irregolare», la cui lucida sintesi Walter Veltroni ha riportato nella prefazione del suo libro dedicato a Berlinguer. Un testo che racconta, a suon di testimonianze, di un tempo e di un partito che — alla luce di quel che è oggi la sinistra italiana — sembrano storia remota. Forse solo una parola — opposizione — lega due mondi così lontani, alieni se non nelle radici.
Che tipo di opposizione ha in mente oggi il Pd dopo la dura sconfitta del 4 marzo? Come deciderà di interpretarla? Anche il Pci fece tipi diversi di opposizione: ora intransigente, ora lasciando nascere — «per senso di responsabilità» — esecutivi democristiani senza maggioranza (Andreotti 1976), ora cercando il «compromesso storico» per guidare il Paese in modo condiviso. Opposizione, dunque, non è solo sostenere tutto ciò che il nemico combatte e combattere tutto ciò che il nemico sostiene, come riteneva Mao Tse Tung. Nell’aprile 2008, all’indomani della sconfitta incassata dal Pd, il segretario Veltroni — in uno scenario bipolare, quindi assai più lineare — annuncia un’opposizione «molto forte» al centrodestra vittorioso: «Berlusconi non si illuda: non gli faremo sconti». E ancora: «Faremo un’opposizione riformista, dura ma non ideologica. Vigileremo sul rispetto delle regole. Incalzeremo il futuro premier sulla montagna di promesse che ha seminato in campagna elettorale». Insomma, un’opposizione classica, facile, invidiabile visto il quadro disarticolato — e annunciato — che la cervellotica legge elettorale ci ha consegnato. Il che non toglie che — al di là di vinti e vincitori — chi fa politica dovrebbe avere come orizzonte fisso la salvaguardia del Paese. E ha ragione Massimo D’Alema nel pensare che a fare opposizione ci vuole più passione che a governare.
Ma c’è un ma: il senso dello Stato, il rispetto delle istituzioni e dei cittadini-elettori deve valere per tutti, anche e soprattutto per chi vince. Il che non è per niente un fatto scontato, come le cronache di questi giorni ci raccontano. Di fronte a un Pd non solo perdente, ma umiliato e rabbioso per le proporzioni della sconfitta, ci sono due vincitori dai tratti a volte inutilmente arroganti. Con una differenza sostanziale: mentre Matteo Salvini — che ha ottenuto i consensi maggiori all’interno della coalizione che ha incassato la maggioranza dei voti nel Paese — tiene ferma la posizione pre elettorale del «mai con il Pd», Luigi Di Maio continua a picchiare il Pd, pretendendone nello stesso tempo il senso di responsabilità necessario al M5S di formare un governo. Un atteggiamento che, se solleva dubbi sulla strategia politica del giovane leader grillino, ne conferma l’arroganza. Il che non è un giudizio, ma ciò che realisticamente appare a chiunque abbia un minimo di buon senso e oggettività.
Essere esposti al pubblico ludibrio e chiamati a sostenere — per il bene del popolo sovrano — chi si delizia di quella sorte sventurata, di politico ha assai poco. Tutti, dunque, sono con lo sguardo rivolto al Quirinale nella speranza che Sergio Mattarella — punto di riferimento non solo per la carica che ricopre ma per la statura istituzionale acquisita — trovi il punto debole dei muri eretti da vinti e vincitori. D’altra parte, come ha avuto modo di dire Romano Prodi, il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. In fondo, è quel pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà di gramsciana memoria che tante volte è stato richiamato in situazioni di difficoltà. Dal momento che la pur breve storia dell’Italia repubblicana ci offre una gamma pressoché infinita di soluzioni a crisi e passaggi istituzionali delicati, è anche da lì che bisogna trarre suggerimenti e spunti. Il fatto che tanti milioni di italiani abbiano espresso così palesemente la volontà di cambiare in modo radicale il «sistema» nel suo complesso non esime chi li vuole rappresentare in modo corretto dall’attenersi sempre e comunque ai principi di una democrazia più o meno matura. Per contro, chi ha perso difficilmente potrà interpretare l’opposizione come una sorta di arma impropria per consumare vendette e trovare nuovi consensi. Palmiro Togliatti dopo l’attentato del ’48 invitò i militanti comunisti «a non fare fesserie». Ecco, giusto settant’anni dopo, evitiamo fesserie.

il manifesto 20.3.18
A Roma riparte Potere al popolo
Sinistra. Teatro strapieno. «L’assemblea sarà ancora il cuore della decisione, ma va affiancata da un forum online»
di Adriana Pollice


Teatro Italia strapieno domenica a Roma, folla anche all’aperto, per l’assemblea di Potere al popolo, la prima dopo il voto del 4 marzo. Almeno duemila i partecipanti, più numerosi del primo incontro di quattro mesi fa. Sul palco sale Viola Carofalo, portavoce della lista nata dall’esperienza dell’Ox Opg Je’ so’ pazzo di Napoli, e la sala le tributa una standing ovation. Tutti in piedi a intonare «lottare, creare, potere popolare!». Una lacrima scappa, una battuta («adesso basta se no si capisce che vi ho pagato») e l’assemblea può cominciare con l’analisi del voto: dove ci sono nuclei attivi nelle comunità di riferimento, Pap si è attestata intorno al 4,5% ma dove non sono conosciuti la media precipita, il risultato finale su base nazionale si ferma all’1,13%.
In platea l’età media è 30 anni,alla fine gli interventi saranno cinquanta. Tra il pubblico tre dei volti noti che hanno sostenuto Pap: il regista Citto Maselli, il cantautore Paolo Pietrangeli e l’allenatore Renzo Ulivieri. Tra i relatori, un rappresentante del Partito comunista della Repubblica popolare di Donetsk. Presenti in sala esponenti della comunità curda. Intervengono dal palco i rappresentanti dei partiti che hanno aderito a Pap per annunciare che rimarranno nel progetto. Così afferma, ad esempio, il segretario del Pci (ex Pdci) Mauro Alboresi. L’ex segretario Fiom Giorgio Cremaschi, a nome di Eurostop, sottolinea: «Pap resta in campo come soggetto autonomo». Il segretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, spiega: «Continuiamo a sostenere il progetto di Potere al popolo. Il risultato elettorale non ci scoraggia ma anzi ci motiva a insistere per un’alternativa di sinistra, che sia radicale e punti sulla solidarietà, di fronte al razzismo dilagante nelle altre proposte politiche».
Sul tavolo c’è il tema di come proseguire nel percorso, il punto su cui sono tutti concordi è la necessità di ripartire dal lavoro sui territori per non trasformare Pap in una lista di scopo da utilizzare per gli appuntamenti elettorali. Le conclusioni spettano a Viola, che dopo un’intera mattinata di testimonianze e confronti, si ripresenta sul palco con la platea ancora gremita: «La parola d’ordine è democraticizzazione: l’assemblea è stata e deve continuare a essere il cuore della decisione, anche se va affiancata da altri strumenti come un forum o una piattaforma internet, per ampliare la partecipazione. Se abbiamo fatto una bella campagna elettorale è perché ci siamo guardati in faccia». Altra parola chiave, spiega, è “esempio”: «Chi ci ha conosciuto e chi ha conosciuto cosa facciamo nei luoghi dove siamo attivi ci ha seguito, per questo esempio e radicamento sono due parole chiave. Facciamo proliferare le case del popolo, vediamoci nelle piazze, nelle abitazioni dei compagni, nei luoghi occupati per praticare mutualismo, solidarietà, antirazzismo, antisessismo. Quando ci dicono “ma chi se ne frega dell’antifascismo, dell’antirazzismo e dell’antisessismo” rispondiamo “interessa a noi”».
Infine, c’è la necessità di coordinare azioni comuni su temi generali e su questo arriva la conclusione di Viola: «Scuola, cancellazione del pareggio di bilancio, accoglienza, reddito e diritti sul luogo di lavoro saranno campagne nazionali, poi ci sono quelle dei singoli territori. Non sono discorsi diversi, vanno solo integrati. Saranno le pratiche a dirci se abbiamo visto giusto. Le parole ci dividono, i fatti ci uniscono e con i fatti vengono le persone. Persone che abbiamo solo dato solo in prestito ai 5S, alla Lega e all’astensione. Ma adesso ce li riprendiamo tutti».

il manifesto 20.3.18
Qualche alternativa alla contemplazione delle macerie di LeU
di Antonio Floridia


Cosa accadrà a sinistra, dopo la sconfitta del 4 marzo? Su quali basi è possibile ripartire, superando un diffuso scetticismo? I vertici di Liberi e Uguali sembra vogliano tener fede a quanto detto: ossia, procedere alla costruzione di un nuovo soggetto politico, un nuovo partito della sinistra.
Bene: ma come si pensa di rendere credibile questo progetto? Bisogna essere consapevoli che, senza metodi innovativi e idee originali, tutto è destinato ad arenarsi, o peggio a produrre dei contraccolpi ancora più negativi.
Occorre partire da una premessa: sarebbe esiziale attendere quel che accadrà dentro il Pd. Dialogo, certo, e attenzione a tutto ciò che si potrà muovere da quelle parti: ma bisogna essere consapevoli che, quali che siano i possibili esiti della crisi del Pd, non sono prevedibili né i tempi né i modi con cui questa crisi si dipanerà. E in ogni caso, è davvero difficile pensare che il Pd (ammesso che possa essere «de-renzizzato») possa tornare a porsi come un luogo unificante per tutta la sinistra.
Un partito della sinistra, ci vuole, comunque. Ed è bene non girarci attorno: non possono esserci surrogati movimentistici, o soluzioni assembleari: occorre pensare ad un partito, degno di questo nome. Ed è necessario riflettere sulle forme radicalmente innovative e inclusive con cui è necessario concepire questo processo «costituente» (meglio: «Rigenerante»).
Come garantire che le forze attuali (quel milione di voti, in gran parte di militanti), e quelle potenzialmente disponibili, siano veramente attratte da questo progetto? Vorrei partire da un’affermazione che potrà sembrare paradossale: ritengo che oggi vi sia a sinistra (sulle idee, i valori e anche i programmi) una potenziale, ampia convergenza, maggiore di quanto comunemente si pensi.
Cosa rende difficile, allora, la costruzione di un nuovo partito, con una massa critica tale da renderlo un soggetto politicamente rilevante?
Una possibile risposta va cercata nella mancanza di idee innovative sul modello di partito a cui ispirarsi. Se si vuole che un processo costituente possa avere successo occorre offrire subito, a tutti i potenziali aderenti, una garanzia piena sulla democrazia interna del futuro partito. Il nodo a cui occorre dare una risposta è quello di un ripensamento del nesso tra democrazia e partecipazione, e tra partecipazione e decisione. Qui si gioca la stessa possibilità che un partito della sinistra possa essere un soggetto largo, unitario, capace di contenere in sé la pluralità di idee e opinioni che inevitabilmente si confrontano in un grande (o medio) partito, e anzi capace di valorizzare le differenze (come spesso si proclama di voler fare, salvo poi rinchiudersi entro piccoli recinti).
Se ci sono garanzie adeguate sul modo di stare assieme, sarà più facile far comprendere a tutti quanto sterile sia una situazione in cui le diversità di idee e di opinione si cristallizzino in tanti, ininfluenti micro-contenitori.
Non mancano idee e proposte su come sia oggi possibile concepire un partito che sia pienamente democratico nel suo modo di operare: un partito che dia un ruolo politico agli iscritti (ad esempio, forme di consultazione vincolante su alcune scelte politiche fondamentali), ma soprattutto un partito che riesca ad essere un luogo di intelligenza collettiva, di discussione e formazione politica, di attiva elaborazione programmatica e di presenza organizzata.
Un partito che rompa con la logica plebiscitaria delle primarie, con ogni forma di leaderismo e con ogni pratica oligarchica.
Ma se si vuole che un processo costituente sia efficace, occorre lanciare un messaggio chiaro e credibile: è un processo aperto, senza reti protettive. Tutti i protagonisti devono essere ben consapevoli che i futuri gruppi dirigenti, a tutti i livelli, possono emergere, ed essere riconosciuti, solo grazie alla legittimazione che solo un reale processo democratico può conferire.
Cosa implica tutto ciò, concretamente? Propongo qui alcuni punti:
a) Costituzione di un comitato nazionale promotore, che comprenda i soggetti attualmente in campo, ma sia aperto ad altri apporti, anche di singole personalità; creazione di analoghi comitati ad ogni possibile scala territoriale;
b) La proposta di due documenti di discussione, a cui attribuire pari rilievo: un «programma fondamentale» di carattere politico e ideale e un documento sulla forma del partito e sugli strumenti e i canali di partecipazione degli iscritti (si potrebbe pensare anche ad una vera e propria bozza di statuto);
c) Una fase di tre-quattro mesi, una campagna intensa nel corso della quale si raccolgono le iscrizioni, controllate e certificate dai comitati promotori. Si possono presentare domande di iscrizione online, ma la consegna dell’attestato di adesione deve avvenire in forma diretta e personale;
d) Alla fine di questo percorso, – quando è ben definito il corpo sovrano chiamato a decidere – assemblee congressuali in cui si discutono, si modificano e approvano i documenti e si eleggono i delegati per il congresso nazionale costitutivo.
Può bastare? Certo che no: alla base devono esserci idee e analisi adeguate al momento storico che viviamo; ma il confronto politico e culturale potrà essere produttivo, e non risultare alla fine tanto suggestivo quanto inconcludente, solo se la sinistra saprà ricostituire un luogo e uno spazio collettivo in cui analisi e idee si facciano anche organizzazione e azione politica.
Non sarà, forse, un grande partito di massa, cui molti di noi tendono a guardare con rimpianto. Ma, vivaddio, stare in un partito in cui ci sia molta gente, che la pensa in modo diverso, è molto, molto più divertente e salutare, rispetto ad una condizione in cui non resti altro da fare che contemplare le macerie.

Repubblica 20.3.18
Lite tra i radicali
Bonino avanti con +Europa stop a Magi sulle primarie Pd “Dove vai? Non sei Pannella”
di Silvio Buzzanca


Roma «Tu non dici niente a nessuno e ti presenti qui con questa proposta. Tu sei il segretario di Radicali italiani, non sei Marco Pannella che era il leader, ma non era segretario di un … » . Tira una brutta aria in + Europa ed Emma Bonino non lo nasconde per niente. Attacca frontalmente Riccardo Magi che ha appena annunciato al comitato nazionale di Radicali italiani che vuole presentarsi alle possibili primarie “aperte“ del Pd. Preludio, forse, di una confluenza fra i dem. Ma Emma fa aleggiare nell’aria il paragone “ pesante” con Pannella che nell’estate del 2007 annunciò la candidatura alle primarie del Pd, vinte poi da Walter Veltroni. Candidatura che venne bocciata insieme a quella di Antonio Di Pietro.
Anche questo deve avere convinto Magi a fare un po’ marcia indietro e prima della fine dei lavori ha annunciato di avere rinviato la decisione alla prossima riunione del massimo organismo dirigente dei radicali boniniani. Convinto oltre che dalla reazione veemente della Bonino, dalle critiche seguite a ruota di Bruno Tabacci e Benedetto Della Vedova, gli altri partner della mini alleanza europeista.
«Io mi arrendo – dice la Bonino – perché non so più dove mettere le mani. Sono umiliata da un certo punto di vista, ma dispiaciuta e disperata per le 850 mila persone che ci hanno votato» .Sono «esterrefatta”, dice; ripete «non capisco, veramente non capisco. A che fine? A che pro? Che ci andiamo a fare nel Pd? Quelli non si stanno ammazzando per motivi di valori e di principi. Si stanno ammazzando per altri motivi», spiega.
Dice e ripete che la scelta di Magi mette a repentaglio il cammino di + Europa che adesso vorrebbe puntare alle elezioni Europee dell’anno prossimo. «Non capisco quale sia l’interesse a partecipare alle primarie del Pd», insiste.
In realtà a mollare non ci pensa proprio. E infatti cambia registro e riparte: « Stiamo uscendo da una campagna elettorale, - giudicatela come volete - in cui ci hanno votato 850 mila cittadini che ci chiedono di continuare. Altrimenti +Europa a giugno scade come uno yogurt» .
Ma la Bonino se la prende anche con Marco Cappato, il leader dell’Associazione Coscioni finito sotto processo per avere accompagnato Dj Fabo nella clinica svizzera dove si è suicidato. «Le sensazioni che provo oggi – dice infatti la Bonino – l’ho provata un sabato pomeriggio, quando Cappato mi disse che non si candidava».

il manifesto 20.3.18
Ada Colau: «Barcellona sostiene Open Arms, salvare vite non è reato»
Intervista alla sindaca. In campo per appoggiare l’Ong catalana: «Forniremo tutti i mezzi necessari per far fronte al processo»
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA La sindaca di Barcellona Ada Colau ha messo in campo tutto il suo peso politico per appoggiare l’organizzazione catalana Pro Activa Open Arms, che ha denunciato il sequestro della sua nave nel porto di Pozzallo. Ieri alle 12.30 la sindaca si è presentata nel porto di Barcellona per una conferenza stampa accanto al fondatore della Ong che si dedica dal 2015 a salvare vite umane, l’ex bagnino Óscar Camps, al giornalista Jordi Évole, autore di un documentario tv che ha fatta conoscere al pubblico spagnolo l’attività dell’ong, e al cantautore catalano Joan Manel Serrat.
Camps è convinto che il sequestro della nave ha l’obiettivo di eliminare dal Mediterraneo tutte le ong che si occupano di salvare i migranti e ha ricordato le minacce da parte della guardia costiera libica a cui è stata sottoposta l’organizzazione, che ha salvato da morte sicura già quasi 60mila persone. La settimana scorsa per la prima volta l’organizzazione ha dovuto esplicitamente chiedere l’aiuto del governo spagnolo per poter attraccare in un porto europeo».
Dopo aver inviato di prima mattina un tweet in italiano in cui chiedeva al governo di Roma di liberare la nave sequestrata, Colau ha seguito con preoccupazione tutta la vicenda e promette che il comune farà tutto quello che è in suo potere per aiutare l’organizzazione umanitaria.
Il “passaggio sicuro” che chiedete per le persone salvate in mare non potrebbe essere lo stesso porto di Barcellona?
Magari! Ne saremmo felicissimi. Ma il problema è che i porti li controlla lo stato, così come i flussi migratori. Se fossimo uno stato, se avessimo la nostra flotta, la città di Barcellona farebbe di tutto per accogliere le navi di Open Arms e salvare esseri umani. Con Pro Activa Open Arms abbiamo siglato un accordo perché come città ci sentiamo rappresentati da quello che fanno, agiscono come pensiamo si debba fare e hanno tutto il sostegno economico, giuridico e istituzionale del comune.
In che consiste questo sostegno?
Ogni volta che ci chiedono un aiuto concreto, come l’acquisto di giubbotti salvavita, noi glielo diamo. Abbiamo versato 100mila euro per sostenere le loro attività di salvataggio in mare. Anche se speriamo che le accuse formulate verso i membri dell’equipaggio vengano ritirate, se così non dovesse essere, forniremo tutti i mezzi giuridici per far fronte al processo. Siamo già in contatto con avvocati in Italia e Spagna. Istituzionalmente, ho chiamato il ministro degli esteri Dastis e la console italiana a Barcellona perché aiutino a sbloccare la situazione. Open Arms deve sapere che il comune si impegnerà al massimo nella difesa di questa imbarcazione e dell’equipaggio che rappresenta i valori di Barcellona e di molti barcellonesi.
Crede che il governo spagnolo abbia fatto qualcosa?
Deduco che il governo spagnolo si sia messo in contatto con quello italiano, perché il permesso per attraccare è arrivato venerdì come in molti avevamo chiesto. Ma ora ho l’impressione che i due governi si stiano rimpallando le responsabilità. Il problema è che nel frattempo qui, nel nostro mare, sta morendo la gente.
Che dovrebbero fare i governi?
Capisco che esiste un problema molto complesso, come quello dei flussi migratori. Ma ora siamo davanti a un problema umanitario, ci sono persone malate, bebè in mezzo al mare che hanno bisogno di aiuto urgente. C’è un obbligo giuridico di aiutare le persone in pericolo che i governi europei non stanno rispettando. Open Arms sta prendendo il loro posto. Non solo non riconoscono il suo lavoro, ma stanno cercando di criminalizzare la solidarietà e l’impegno umanitario. Noi cittadini non possiamo permetterlo perché senza la solidarietà l’Europa perde di significato.
L’Italia però affronta quasi da sola questa emergenza.
Non è giusto che l’Italia debba gestire da sola il flusso di migranti. Ci potete considerare vostri alleati: esigiamo che la Spagna accolga i 17.000 rifugiati che si era impegnata a ricevere. Ha ragione l’Italia: l’Ue ha una gran capacità di accoglienza che non sta mettendo in atto, al contrario di quello che fanno altri paesi del Mediterraneo che accolgono milioni di persone. È necessario che tutti si impegnino perché l’accoglienza sia ordinata e garantisca un trattamento degno e adeguato per tutti. Le persone che si stanno buttando in mare raccontano che in Libia ci sono violazioni massicce dei diritti umani, ci sono torture, assassini. Non possiamo delegare a paesi come la Libia o la Turchia la gestione dei migranti.
Cosa siete disposti a fare come comune se il governo non vi ascolta?
Purtroppo gli strumenti che abbiamo sono scarsi. Ma insisteremo fino a allo sfinimento, non accettiamo che lo stato alzi la bandiera spagnola solo per intervenire nel conflitto catalano. La nave Open Arms batte bandiera spagnola. Il vero patriottismo si dimostra difendendo una nave umanitaria.

Repubblica 20.3.18
Se il cuore diventa un crimine
di Fabrizio Gatti


Questa volta si è andati oltre l’osceno. Il soccorso di persone in difficoltà, e il dovere che lo impone, non è soltanto un obbligo di legge: è anche la condizione essenziale, minima, fondamentale dell’essere umano. Fuori da questa condizione, rimane la barbarie.
Due fatti avvenuti ai nostri confini dimostrano che in Europa abbiamo già superato il «saremo cattivi », promesso nel 2009 dall’allora ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni. Il primo fatto: una guida alpina è stata denunciata dall’autorità francese per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, per aver trovato in mezzo alla neve del Monginevro, a oltre 1.800 metri al confine con l’Italia, e portato a valle due bambini nigeriani di due e quattro anni, il loro papà e la loro mamma incinta in preda alle doglie. Il secondo: i ministeri dell’Interno e dei Trasporti italiani, grazie ai rimpalli di responsabilità diramati attraverso la Guardia costiera, hanno messo l’organizzazione umanitaria spagnola Proactiva Open Arms nelle condizioni di essere accusata dalla Procura di Catania di associazione a delinquere, con l’aggravante di avere messo in pericolo delle vite. Sia la guida alpina, sia l’equipaggio di una nave dell’ong di Barcellona avevano appena soccorso persone in difficoltà, in montagna e in mare aperto. E per questo si trovano ora sotto inchiesta. L’anno scorso Proactiva aveva firmato il protocollo del ministro dell’Interno Marco Minniti, ma a nulla è servito.
Le due vicende non toccano questioni sociali o economiche come il controllo dell’immigrazione, la pianificazione demografica, la pubblica assistenza. Riguardano semplicemente l’obbligo di soccorso. E la sua criminalizzazione, decisa dall’autorità di due Stati membri fondatori dell’Unione Europea.
Anche se guardiamo il mondo soltanto attraverso le lenti della legalità, la guida alpina e i marinai dell’ong hanno rispettato la legge. In Italia l’omissione di soccorso è punita dall’articolo 593 del Codice penale e, tra gli altri, dagli articoli 69 e 1158 del Codice della navigazione. La Libia, che rimane un inferno umanitario, non ha invece firmato e nemmeno applica le convenzioni necessarie per essere dichiarata un porto sicuro. Il fatto che i governi di Roma e Tripoli abbiano siglato un accordo politico bilaterale non colma le lacune in merito alle norme di valore internazionale.
La conseguenza di quanto sta accadendo dalle Alpi alla Sicilia non è semplicemente la criminalizzazione della solidarietà. È anche l’intimidazione giudiziaria verso quanti si dovessero trovare nelle circostanze di dover salvare un bambino straniero tra le montagne o gli occupanti di un gommone alla deriva.
Per quanto ci riguarda, la questione arriva da molto lontano. Da una parte ecco la Francia che nel 2011 ha esportato la guerra in Libia e, con le sue conseguenze, ha indirettamente destabilizzato le economie del Sahara. Dall’altra c’è l’Italia, che per diciassette anni, da Berlusconi a Gentiloni, non è stata in grado di mettere in campo una politica estera capace di prevenire e gestire i fenomeni. Perfino la missione italiana in Niger, contro i trafficanti che portano migranti in Libia, non partirà nei tempi previsti: si scopre ora che è stata approvata senza il minimo, necessario via libera del governo africano (che, guarda caso, risponde direttamente a Parigi). Una beffa. Se proprio vogliamo fare un processo al nostro tempo, cominciamo dai nostri fallimenti. E che nessuno tocchi chi soccorre i bambini.

il manifesto 20.3.18
Marielle fa paura anche da morta. Militari nelle favelas, sale la tensione
Brasile. A preoccupare i difensori dei diritti umani è proprio l’accelerato processo di militarizzazione delle periferie povere, secondo uno schema repressivo che identifica gli abitanti delle favelas come il nuovo nemico interno da annientare
di Claudia Fanti


Fa paura anche da morta Marielle Franco. In un Paese come il Brasile in cui l’élite golpista conta sull’apatia delle masse per calpestare i diritti della classe lavoratrice, i simboli, si sa, possono essere molto pericolosi. E che la consigliera comunale del Psol sia diventata un simbolo potente lo hanno bene indicato i 3,6 milioni di tweet di denuncia prodotti nelle prime 42 ore dalla sua esecuzione. Non sorprende allora che esponenti di estrema destra stiano tentando di infangarne la memoria, uccidendola una seconda volta.
HA INIZIATO, incredibile ma vero, la giudice Marília Castro Neves del Tribunale di Rio, insinuando su Facebook che Marielle Franco «era legata a dei criminali» ed era venuta meno a «impegni assunti con i suoi sostenitori» del Comando Vermelho, il più antico gruppo criminale del Brasile. Denunciata per calunnia e diffamazione dal Psol, la giudice ha poi dichiarato alla Folha de S. Paulo di aver voluto solo contestare, da semplice cittadina, «la politicizzazione della sua morte». Tanto è bastato perché il gruppo di estrema destra Movimento Brasil Livre pubblicasse il post «Giudice rompe narrazione del Psol e afferma che Mariella era legata a criminali», ottenendo in poche ore 38mila like e 28mila condivisioni.
È ANDATO ANCHE OLTRE il deputato Alberto Fraga, presidente del partito Dem (Democratas) del Distretto Federale, che in un post su Twitter, poi ritirato, commenta: «Ecco il nuovo mito della sinistra: incinta a 16 anni, ex moglie del trafficante di droga Marcinho VP, consumatrice di marijuana, eletta dal Comando Vermelho… ma chi l’ha uccisa è stata la Polizia Militare». E tutto ciò benché Marielle non sia mai stata sposata ad alcun narcotrafficante, abbia avuto una figlia a 19 anni e sia risultata la quinta più votata alle ultime elezioni.
Quanto al coinvolgimento della polizia nell’omicidio, è anche il procuratore José Maria Panoeiro ad affermare, in una dichiarazione alla Bbc Brasil, che tutto spinge a seguire tale pista. Tanto più dopo la conferma che i proiettili usati per uccidere Marielle e il suo autista Anderson Gomes provengono da un lotto venduto dall’azienda Cbc alla polizia federale di Brasilia nel 2006, lo stesso di cui facevano parte le munizioni impiegate nel massacro di 17 persone a Osasco, a São Paulo, nel 2015, per il quale sono stati condannati tre agenti della polizia militare e uno della polizia civile.
PROPRIO PER ESIGERE GIUSTIZIA hanno marciato in più di 5mila, domenica, nel Complexo da Maré, ricordando come «ogni donna nera in questo Stato oggi si chiami Marielle»
L’esecuzione della consigliera, tuttavia, ha alzato di molto il livello di tensione nelle favelas, a cominciare proprio da Acari, dove un gruppo di attivisti del gruppo Fala Akari che aveva denunciato le brutali violenze del 41° battaglione della polizia militare di Rio – quelle contro cui si era scagliata Marielle tre giorni prima di essere assassinata – ha dovuto fuggire per paura di rappresaglie.
E a preoccupare i difensori dei diritti umani è proprio l’accelerato processo di militarizzazione delle periferie povere, secondo uno schema repressivo che identifica gli abitanti delle favelas come il nuovo nemico interno da annientare. Significative, al riguardo, le recenti parole del comandante dell’esercito, il generale Eduardo Villas Boas, riguardo alla necessità che i militari abbiano «garanzie per agire senza il pericolo che una nuova Commissione della verità giudichi il loro operato», in riferimento alla Commissione creata da Dilma Rousseff per indagare sui casi di tortura e omicidio durante la dittatura militare. In poche parole, licenza di uccidere.

La Stampa 20.3.18
L’ultima scoperta di Hawking: in principio era il multiverso
Poco prima di morire il fisico aveva messo a punto la teoria dell’esistenza di infiniti universi: “Un’astronave attrezzata potrebbe scovare le prove”
di Vittorio Sabadin


L’astrofisico Stephen Hawking, scomparso il 14 marzo a Cambridge, aveva terminato dieci giorni prima di morire il suo lavoro più importante, quello che forse gli avrebbe procurato il Nobel che non ha mai ricevuto. Lavorando alla teoria del multiverso, in base alla quale non esiste solo l’Universo che possiamo vedere ma ce ne sono molti altri, Hawking ha indicato la strada per poterla finalmente dimostrare. Come sempre è avvenuto, anche l’ultima scoperta è stata accolta con scetticismo da una parte dei suoi colleghi e con entusiasmo da altri: secondo alcuni scienziati, potrebbe rappresentare la svolta che la cosmologia attendeva.
Hawking ha lavorato alla teoria insieme con il professor Thomas Hertog della Katholieke Universiteit di Lovanio, nei pressi di Bruxelles e sotto al testo pubblicato sul sito arXiv.org della Cornell University compare la firma di entrambi. Già nel 1983, in una ricerca compiuta con il fisico americano James Hartle, Hawking aveva affermato che il Big Bang era all’origine dell’Universo, ma aveva anche suggerito che potesse avere generato altri infiniti universi, la cui esistenza non poteva però essere testata. Da più di 30 anni gli scienziati discutono questa possibilità, un’ipotesi che ci costringerebbe a cambiare idea sul nostro spazio nel cosmo. Ma il multiverso è stato sempre impossibile da afferrare, era un paradosso matematico: non si potevano infatti misurare cose che si trovano al di fuori del nostro universo.
Carlos Frenk, cosmologo dell’Università di Durham e membro, come fu Hawking, della Royal Society, ha spiegato in poche parole la nuova scoperta: «L’idea intrigante è che il multiverso abbia lasciato un’impronta sulla radiazione di fondo permeando il nostro Universo, e che possiamo dunque misurarla con un detector su una nave spaziale». Lo spazio fra le stelle e le galassie ci appare come vuoto e nero, ma in realtà è permeato da una radiazione di fondo, una radiazione elettromagnetica che non è determinata dai corpi che la circondano e che è considerata la prova del Big Bang. In questa radiazione, dice Hawking, esistono particolarità che confermano l’esistenza di infiniti altri universi, e che potrebbero essere individuate se lanciassimo nello spazio un’astronave dotata di speciali sensori.
Intitolato nello stile di Hawking «A Smooth Exit from Eternal Inflation» (Un’agevole uscita dall’Inflazione eterna), lo studio parte dalle teorie che sostengono che l’espansione dell’Universo continua per sempre (Inflazione eterna) in modo sempre più accelerato e può generare alla fine altri universi. Il cosmo sarebbe dunque pieno di infinite «bolle» che contengono ciascuna un universo. Se fosse dimostrato, i non credenti troverebbero finalmente una spiegazione alla ragione della nostra esistenza: esistiamo semplicemente perché ci sono infinite possibilità che esistiamo.
Nella sua ultima teoria, Hawking afferma anche di sapere come finirà il nostro mondo: l’energia delle stelle si esaurirà, in un lungo periodo di tempo si spegneranno una a una, l’Universo diventerà buio e poi forse tutto ricomincerà. Hawking era un fisico teorico, che si esprimeva con complicatissime formule matematiche, la sua specialità: bisognerà lavorarci su, ci vorrà molto tempo.
Ma intanto, come ha detto il suo compagno di avventura Thomas Hertog, «ha voluto audacemente andare dove neppure Star Trek osava avventurarsi». Un complimento che gli sarebbe piaciuto: non è poco, per un uomo paralizzato da 55 anni su una carrozzina.

Corriere 20.3.18
La banalità di Robespierre
È stato decisamente sopravvalutato dagli esaltatori come dai detrattori
La biografia di Jean-Clément Martin edita da Salerno riporta alle giuste proporzioni la figura del più noto leader giacobino. Venne usato come capro espiatorio da coloro che lo eliminarono ma erano stati a lungo suoi complici nel Terrore
di Paolo Mieli


Cinque anni fa, nel 2013, in Francia si pensò di ricostruire la testa di Robespierre come era davvero. Ma, quando il lavoro fu ultimato, all’autore della «maschera» fu mosso il rimprovero di aver raffigurato l’«incorruttibile» con «uno sguardo arcigno», una «carnagione butterata» e un «cranio eccessivamente grande». Con l’intenzione appena dissimulata, secondo gli accusatori, di «disprezzare la Rivoluzione», non solo quella del 1789, «ma anche tutte le altre, trascorse e a venire». Un «episodio ai limiti del grottesco» lo definisce Jean-Clément Martin in Robespierre , che la Salerno si accinge a pubblicare nell’eccellente traduzione di Alessandra Manzi. Del resto è più di un secolo che la città natale di Robespierre ha annunciato la costruzione di un museo dedicato al principale artefice della Rivoluzione francese. Museo di cui, però, la prudenza per decenni ha suggerito il perenne rinvio. Persino della posa della prima pietra.
Sembra che, almeno per quel che riguarda Robespierre, «la Rivoluzione non sia ancora terminata». Non si capisce perché, si interroga Martin, si possa tranquillamente discutere «della violenza di Marat, della venalità di Danton o della frivolezza della regina Maria Antonietta», ma, non appena si chiama in causa Robespierre, «subito la sensibilità nazionale viene scossa». I suoi ammiratori non sono nemmeno disponibili ad ammettere che avesse la pelle rovinata. Nel contempo, sulle sue spalle viene addossato — dai detrattori — il pesantissimo fardello dell’intera stagione del Terrore. Tutto ciò è stato frutto dell’astuzia di Bertrand Barère de Vieuzac e di Jean-Lambert Tallien, i quali, dopo averlo fiancheggiato e spesso scavalcato nei giorni più sanguinosi, ordirono poi contro di lui la cospirazione del Termidoro (luglio) 1794, e lo mandarono a morte assieme ad altri 71 «robespierristi». Furono Barère e Tallien ad annunciare che il Paese — in quel momento e per merito loro — si era sbarazzato del «tiranno» e poteva finalmente uscire dalla dittatura. A Barère, a Tallien e ai loro sodali è «brillantemente riuscito», scrive Martin, «il gioco di prestigio di far dimenticare le loro specifiche responsabilità nel Terrore, nonché gli stretti rapporti che avevano avuto a lungo con lo stesso Robespierre».
Tali circostanze colpirono già nel 1824 i fratelli Michaud, che diedero alle stampe la Biographie universelle , un’opera decisamente ostile alla Rivoluzione, in cui si spiegava però come non si dovesse cedere alla tentazione di immaginare che Robespierre fosse stato «l’autore di tutti i crimini» addebitatigli. Molte di tali nefandezze Robespierre le aveva condivise con alcuni di quelli che «dopo aver contribuito a rovesciarlo, si sono presentati, ancora imbrattati del sangue delle sue spoglie, come i difensori della giustizia e dell’umanità». La verità, riconoscevano già due secoli fa i fratelli Michaud, è che — «similmente a quegli animali impuri che alcuni popoli dell’antichità caricavano delle nequizie di una nazione intera» — Robespierre è stato ingiustamente ritenuto, dopo la sua decapitazione, responsabile non soltanto dei crimini perpetrati con la correità dei componenti del Comitato di salute pubblica, ma «persino di quelli commessi dai suoi nemici». Tutto questo Martin lo ha ben chiaro. Il comandamento a cui ha deciso di obbedire è stato, di conseguenza, quello di sottrarsi alla disputa tra ammiratori e denigratori del rivoluzionario francese. E di esaudire la richiesta che fu di Marc Bloch: «Robespierristi, anti-robespierristi vi supplico con umiltà, limitatevi a dirci chi fu Robespierre!».
Per riuscire così a rispondere ad una fondamentale e ineludibile domanda: come è mai possibile che un uomo la cui esistenza si riduceva a pochissimo, che «visse senza denaro», che «non disponeva di relazioni importanti», che «mai ottenne poteri eccezionali», sia riuscito a conquistare un ruolo tanto cruciale. Il fine è quello di comprendere «come e perché gli elementi della sua breve vita abbiano potuto favorire la costruzione di quella mostruosa impalcatura che lo ha seppellito e al tempo stesso reso immortale». Cosa che, fa notare Martin «non ha invece avuto luogo per nessun altro dei suoi contemporanei, neppure per quelli che gli furono vicini, fossero amici o avversari».
Il saggio è molto accurato e ricco di notazioni intelligenti nel descrivere la «carriera rivoluzionaria» di Robespierre. Ma di ancor maggiore interesse è la parte del libro che prende in esame la fase iniziale della sua vita. Non ha alcun senso — scrive l’autore — far risalire il suo carattere all’infanzia e giovinezza. È sbagliato fissarsi, come Max Gallo, sulla «solitudine» infantile del rivoluzionario. È vero: Maximilien Robespierre nacque a metà Settecento (1758) da un matrimonio contrastato; fu orfano di madre a sei anni e poco dopo venne abbandonato dal padre; rimase solo e poi fu un povero studente a pensione, rinchiuso in un collegio di Parigi; quindi fu «un avvocato che vivacchiava in una provincia poco accogliente». Ma, fa notare Martin, anche Napoleone Bonaparte fu orfano di padre, anche Georges Danton e Jean-Jacques Rousseau ebbero un’infanzia travagliata, anche il padre dello stesso Rousseau e quello di Jean-Paul Marat si dileguarono quando i loro figli erano ancora piccoli. E va ricordato che all’epoca almeno un bambino su dieci perdeva il padre o la madre nei primi dieci anni di vita. Capitò a Jacques-René Hébert, a Jérome Pétion. Joseph Fouché il padre lo perse a dodici anni.
La Chiesa fu, in compenso, generosa con lui. Robespierre studiò nel collegio religioso di Arras grazie ad una borsa di studio dell’abbazia di Saint-Vaast assegnata direttamente dal vescovo riformatore monsignor de Conzié. Soldi per la sua formazione ottenuti per i buoni uffici di due sue zie. La leggenda vuole che, in virtù dei suoi successi scolastici, sia stato scelto nel 1775 per pronunciare, in nome del collegio in cui studiava, un omaggio al giovane Luigi XVI. Ci sono dipinti che lo raffigurano inginocchiato sotto la pioggia ai piedi della carrozza del re. Ma si tratta appunto di una voce tramandata. Il suo più recente biografo, Hervé Leuwers, non ha trovato tracce archivistiche che garantiscano l’autenticità dell’aneddoto. Nel marzo del 1782, a 24 anni, Robespierre fu nominato giudice della corte vescovile di Arras. Precoce: il che «attesta una volta di più che egli poteva contare sulla protezione del vescovo e su una potente rete familiare», scrive Martin. E non fu affatto un «avvocato senza cause e senza successo» come più volte è stato scritto. Tra il 1782 e il 1789 patrocinò in media dai 12 ai 24 procedimenti (uno o due al mese) davanti al Consiglio d’Artois, intervenendo in una ventina di udienze l’anno. A queste, scrive Martin, vanno aggiunte «alcune cause patrocinate presso altre giurisdizioni locali e le funzioni esercitate con l’incarico di giudice della Camera episcopale, che lo portarono ad inviare al patibolo un assassino». Esperienza che lo avrebbe «segnato profondamente».
La ricostruzione di Martin è molto scrupolosa. Si scopre che Robespierre, divenuto negli anni che precedettero la Rivoluzione direttore dell’accademia di Arras, era assai meno «irrequieto» di un Marat o di un Brissot «uniti nella denuncia dei pregiudizi nel rifiuto dei salotti, nella contestazione delle gerarchie». Che lui, a differenza di molti altri futuri rivoluzionari, frequentava i salotti e «piaceva in società». Che non fu mai affiliato alla massoneria. Che era «un cantante scadente ma un discreto ballerino». Che scrisse versi ritenuti da Henri Guillemin di «nullità poetica, ma di buona fattura». Era insomma «un giovane uomo alla moda». Lo studioso affronta poi il tema, più volte analizzato, della «castità insolita, addirittura inquietante» di Robespierre, il quale oltretutto aveva fin da bambino «un’autentica passione per il ricamo».
L’epoca, fa notare l’autore, era certamente segnata «dagli appetiti sessuali di un Mirabeau o di un de Sade, o anche di Danton, ma la libertà di costumi non era in generale diffusa». Marat, confessò di non aver avuto rapporti sessuali prima di aver compiuto i 21 anni. Carnot, fallito nell’intento di sposare una ragazza di Digione corteggiata a lungo, si sposò a 38 anni. L’astinenza «non era poi così eccezionale in un tempo in cui bisognava essere sistemati per costruire una famiglia e le statistiche ci ricordano che l’età media di un uomo al matrimonio era attorno ai 27 anni».
E il sangue versato nella fase conclusiva della Rivoluzione? Dopo anni di ricerche, scrive lo storico, non si può che giungere ad un’unica conclusione: è sbagliato indicare Robespierre come il solo responsabile della violenza rivoluzionaria dal momento che, al di là delle testimonianze interessate, «niente negli archivi come nella memorialistica, permette di affermarlo». Fu senza dubbio «tra coloro che inventarono la rivoluzione», ma lo fece «come tutti senza esserne pienamente cosciente, il più delle volte senza dominarne gli sviluppi e ancor meno le conseguenze». La sua peculiarità consiste nel fatto di esser divenuto — come si diceva — un capro espiatorio, e soprattutto di essere servito a dare una spiegazione «della svolta più significativa della rivoluzione».
In questo non è del tutto solo. I girondini e, «anche se a minor titolo», gli hebertisti (gli «esagerati», seguaci di Jacques-René Hébert), oppure Georges Danton, ma soprattutto Jean-Baptiste Carrier «che raggiunse Robespierre nell’obbrobrio», sono stati «tutti gettati in pasto alle belve quando l’urto dei partiti e delle fazioni lo richiese». Robespierre «subì però la cosa nel momento più difficile, fu subito confuso con un sistema, quello del Terrore, inventato per l’occasione» e, «tramite una propaganda spudorata», lo si rese «colpevole delle peggiori atrocità». Certo, riconosce lo studioso, «la sua personalità vi si prestava». L’uomo privato «si era dissolto in un astratto spazio pubblico, quello delle tribune e dei discorsi». Non era stato, a dire il vero, un «cospiratore e un manipolatore» come Mirabeau, né un leader d’opinione come Brissot e non aveva «nessuno dei tratti eccessivi di Danton»; non aveva neppure la «capacità politica» di Barère, Vadier, Carnot o Fouché, tutti disponibili al compromesso e «pronti, all’occorrenza, a farsi dimenticare». Insomma il 9 Termidoro «la corona di spine non gli venne posta sul capo a caso». Molto più di altri «aveva assunto un atteggiamento sacrificale, raccoglieva consensi, faceva temere di puntare a una magistratura suprema», ma «non disponeva di una precisa linea politica». Sapremo mai, si domanda Martin, quali furono davvero le sue intenzioni in quei quattro anni di rivoluzione? «Sicuramente no», risponde lo storico. No, dal momento che «non è affatto sicuro che avesse una chiara idea delle cose». Ma, aggiunge, non è che i suoi amici, poi divenuti suoi avversari, ne avessero una migliore. Così, la manovra che scatenarono contro di lui sfuggì loro di mano e provocò quell’onda d’urto che rafforzò e finì per fissare l’immagine di Robespierre, dimostrando una volta di più due cose fondamentali. La prima è che spesso (quasi sempre) «gli uomini non hanno alcuna idea della storia che stanno producendo». La seconda: quanto sia inutile oltreché falso attribuire a un individuo soltanto chiunque sia — Robespierre in questo caso — «un ruolo eccezionale».
Nei giorni che portarono alla destituzione e alla decapitazione del principale protagonista della Rivoluzione francese, le cose, secondo Martin, furono molto più banali di quanto si creda. Non ci fu «enigma, né trascendenza, né abominio demoniaco»; solo «giochi politici e politiche urgenze, rivalità tra uomini e drammatiche difficoltà di uno stato in guerra». Ci fu soprattutto «la tradizionale alternanza di momenti di forza e momenti di debolezza che scandiscono la vita dei grandi protagonisti della storia». Ne vien fuori una ricostruzione assai più convincente di quelle tradizionali. Siano state esse simpatizzanti o grondanti ostilità nei confronti di Robespierre.