il manifesto 1.3.18
A Bombay l’eccesso è normale
Reportage.
Nella città indiana la gente vive sui marciapiedi, si mangia e si dorme
all’addiaccio, il barbiere sbarba o taglia en plein air, le capre e le
mucche camminano libere, i ragazzini giocano a cricket bloccando il
traffico
di Angelo Ferracuti
BOMBAY Già uscendo
dall’aeroporto di Bombay, il chiarore pallido fatto di umidità e
inquinamento atmosferico che mi aspettavo avvolge la città e si
materializza, tanto da rendere tutto quello che vedo non a fuoco,
illumina le cose di una luce smorta, appannata. L’aria, invece, ha uno
spessore polveroso e denso, anche la vegetazione ai lati delle strade è
esangue mentre viaggio a bordo di un piccolo taxi nero, uno dei tanti
che sfreccia nel traffico frenetico, che con i suoni dei clacson
sgraziati e perturbanti sono la jam session quotidiana di questa
metropoli indiana dai molti primati negativi: è una delle città più
inquinate del mondo, e anche quella con la più alta densità demografica,
390 mila persone per chilometro quadrato, con gli slum fatiscenti sotto
i grattacieli lasciati grezzi e incompiuti per abusivismo edilizio. Ma
questo luogo di luoghi è anche pieno di energia vitalistica, e milioni
di poveri già alle prime ore dell’alba si mettono in movimento frenetici
alla ricerca disperata di sbarcare il lunario.
Questi piccoli
taxi sono un buon osservatorio per attraversare la città, cercare di
coglierne il conio, e nei pochi giorni di permanenza ne ho presi
parecchi, anche perché sono economici e gli autisti degli ottimi
raccontatori, insomma si danno da fare per dirti dove stai in quel
determinato momento indicandoti edifici e mercati, o cercando di
accompagnarti altrove deragliando per rendere più redditizia la tratta.
Mentre viaggiamo verso il centro, e l’autista giovane dai capelli
nerissimi e dalle ciglia folte cerca di farsi largo nel traffico, dai
quadrati delle baracche costruite a nido d’ape, con piccole celle una
attaccata all’altra fatte di materiali diversi, spuntano facce e corpi
di uomini e donne che vivono ammassati come formiche pullulanti in zone
di città fatiscenti e nauseabonde, senza acqua e fognature; bambini che
corrono scalzi e mezzi nudi nelle vie ingorgate, donne con in testa
fagotti, uomini atavici che trascinano carri, sono i reietti, due terzi
della popolazione, che occupano solo il 5% del suolo della città, mentre
quelli più abbienti e capaci di corrompere polizia e politici stanno
comodi nel resto. Ma dai tetti di questi sobborghi sporchi e puzzolenti,
spuntano centinaia di antenne satellitari, così come i balconi dei
palazzi con le facciate annerite sono tutti occupati da panni stesi di
molti colori. Sono appena arrivato e già Bombay mi mostra il suo volto
sudicio e rovinato. L’aria è piena di polveri, la polvere prevale su
tutto il resto, è una polvere che dopo un po’ diventa persino
famigliare, copre le strade, sta sopra i marciapiedi dissestati, è sulle
superfici delle automobili, arriva prepotente alle narici, e chi è
costretto a respirarla soffre di faringite granulare. L’autista mi dice
che questa è una città strana, qui molti si ammalano di tifo o di colera
per colpa dell’acqua putrida che sta nelle strade, per giunta, metà
della popolazione non ha il bagno, quindi si calcola che otto milioni di
persone defecano all’aria aperta, per non dire dei topi, anche loro un
esercito, che però almeno hanno un pregio, eliminano la parte mangiabile
dei rifiuti che impestano i quartieri, anche quelli del centro.
LA
MATTINA SEGUENTE, mi sveglio all’alba e prendo un treno dalla stazione
di Chhatrapati Shivaji. All’entrata, derelitti dormono per terra,
avvolti da coperte logore, un uomo senza gambe si sposta con la sola
forza delle mani come una trottola sulla banchina, altri stanno supini
dentro i vagoni, la pancia scoperta, i piedi sporchi e feriti, mentre mi
siedo nel sedile rigido in formica spartano, e il convoglio parte
veloce, le portiere aperte, quasi come quelle di un carro merci, qualche
ritardatario corre e salta su all’ultimo momento, e fuori è ancora
notte. Sono poche fermate e a Dadar, proprio dietro la stazione e sotto
un cavalcavia, è iniziato già il mercato della verdura, su una strada
laterale illuminata da luci fioche infestata di rifiuti e cartacce, in
terra sono seduti dietro ceste colme di ortaggi centinaia di venditori,
accovacciati e quieti, e ragazzi con mazzi dei due maggiori quotidiani
freschi di stampa. In terra, in questa colonna di acquirenti che
s’ingrossa più passa il tempo e sta per albeggiare, altri venditori
ritardatari che arrivano frenetici, trasportando i pesanti fagotti in
spalla, mentre avanzo inalando gli odori delle erbe speziate insieme con
quelli del fango e delle fogne, e la polvere, l’onnipresente polvere di
Bombay, che è la città dove ogni quartiere, ogni piazzetta, ogni via ha
i suoi particolari e unici odori e fetori. I venditori ti guardano
smarriti, con dolce tristezza mostrano i piccoli grappoli di banane, le
zucchine bianche, rimescolano cesti colmi di lunghe carote, e cavoli
posati in terra come palle da rugby.
Nella via successiva i
piazzisti di fiori, dalla cui ceste spuntano boccioli recisi
coloratissimi, vendono anche ghirlande, collane di fiori che mani
sapienti intrecciano, e alla fine della via in un baracchino un
venditore sta friggendo su una pentola vadapav, dei bignè ripieni.
All’alba la città ha ancora una patina sbiadita, il cielo è ancora
smorto, privo di luce chiara. Passando per la zona del lungomare, sullo
specchio d’acqua una nuvola di smog si alza dal livello del mare e
cancella in parte gli alti palazzi di fronte, ma per vedere Bombay
bisogna andare nella zona di Crawford market, dove la gente vive sui
marciapiedi, e questo margine diventa una casa all’aperto dove si mangia
e si dorme all’addiaccio, il barbiere sbarba o taglia en plein air, le
capre e le mucche camminano libere, i ragazzini scalzi giocano a cricket
con mazze in legno rudimentali bloccando il traffico tra un lancio e
l’altro.
SUKETU METHA ha scritto un libro straordinario su questa
città che lui stesso definisce «degli eccessi», Maximum city, un
prototipo del reportage massimalista, dove come succedeva per i classici
del realismo sociale, come a Zola, Dickens e Jack London, riesce ad
entrare nel ventre palpitante e putrido della città dove torna a vivere
proprio da New York insieme alla sua famiglia con l’intento di
raccontarla. Leggendolo, capisci quanto sia temerario, forse
impossibile, raccontare i luoghi, decifrarne i sedimentati profondi. La
mia piccola percezione è ingigantita dall’esperienza diretta: «Il cibo e
l’acqua di Bombay, (…) sono contaminati dalla merda. La dissenteria
amebica si trasmette attraverso gli escrementi. Abbiamo nutrito nostro
figlio di merda. Può essere stato il mango che gli abbiamo dato da
mangiare, o la piscina dove lo abbiamo portato a nuotare. O forse è
venuta dai rubinetti di casa», ammette alla fine sconsolato lo
scrittore.
DELL’ULTIMO GIORNO, resta tra tutte le cose viste,
mentre la sera ritorno in albergo, l’immagine di un uomo magro e molto
anziano, seduto per strada, le gambe scheletriche, il corpo gracile come
quello di un uccello, un saio nero sudicio che gli lascia liberi gli
ossuti arti inferiori, che continua a girare la testa da destra a
sinistra, da sinistra a destra meccanicamente, mostrando gli occhi
vitrei e arrossati ai passanti, senza allungare la mano per elemosinare,
ma tenendola stretta a sè rigida come gli artigli di un iguana,
roteando faccia e sguardo, avanti e indietro, instancabile. Mi fa capire
semplicemente che la povertà in una città assurda come questa può farti
diventare pazzo.