Il Fatto 18.3.18
Rodotà, l’eterna giovinezza trovata nella Costituzione
1933-2017
- A Torino si ricorda il grande giurista: per lui la Carta non era una
dichiarazione di principi, ma un’agenda da applicare
Rodotà, l’eterna giovinezza trovata nella Costituzione
di Salvatore Settis
Stefano
Rodotà era così popolare perché sapeva parlare con una palpabile,
contagiosa passione civile. Fra tanti, un esempio. Commentando l’art. 3
della Costituzione, egli poneva a contrasto il primo e il secondo comma,
ravvisandovi due componenti concettualmente e storicamente distinte.
Nel primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge”), riconosceva la costruzione di una
soggettività astratta, che assevera ma non garantisce l’uguaglianza fra i
cittadini.
Nel secondo comma (dove si assegna alla Repubblica il
compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana”) egli rintracciava, attraverso
la nozione di persona, l’irruzione sulla scena di una prepotente
corporeità, coi suoi desideri e i suoi bisogni, che trascina con sé una
forte tensione verso l’uguaglianza, che la Costituzione indica come
imprescindibile obiettivo dell’azione pubblica. Insomma, il primo comma
dell’art. 3 configura una sorta di uguaglianza formale dei cittadini,
mentre il secondo comma prende atto della loro diseguaglianza materiale e
prescrive di rimuoverne le cause, ostacoli a una vera uguaglianza.
Perché
questa linea interpretativa non apparisse troppo teorica a un pubblico
digiuno di diritto, Rodotà adottava un’argomentazione narrativa,
proiettando l’art. 3 all’indietro, su un dato di immediata esperienza
comune, l’estensione del diritto di voto. Riservato all’inizio a una
porzione ristretta della popolazione maschile, sulla base
dell’istruzione e del censo, esso raggiunse tutti i cittadini (in
particolare le donne) solo nel 1946. Nel 1861 votò il 2 per cento della
popolazione italiana, nel 1946 l’89 per cento: un dato statistico che ci
tocca da vicino.
La restrizione del diritto di voto creava una
“cittadinanza censitaria”, contro lo spirito della democrazia; ma gli
“ostacoli di ordine economico e sociale” venivano da lui additati come
strumenti di una risorgenza della “cittadinanza censitaria”, possibile
anche oggi date le crescenti ineguaglianze, le nuove povertà, le
discriminazioni sociali mascherate da intolleranza religiosa o razziale.
Per converso la rimozione di tali ostacoli concorre a caratterizzare la
cittadinanza secondo i principi dell’art. 3, inclusa l’ “effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”.
Con trascinante convinzione e
lucida onestà Rodotà ci spingeva a leggere nella Costituzione non un
compromesso fra forze politiche, non il disegno di un futuro utopico,
non una dichiarazione di principi senza immediata precettività. Ma come
un’agenda di cose da fare, che tali in gran parte restano ancora oggi.
Perciò egli contrastò duramente ogni interpretazione riduttiva del
diritto al lavoro che, secondo l’art. 4 della Costituzione, la
Repubblica “riconosce a tutti i cittadini”. Infatti, se l’art. 1
definisce l’Italia come “una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro”, ogni menzione del lavoro nella Costituzione deve intendersi
come costitutiva della democrazia e della cittadinanza, anzi della
Repubblica. Lettura indubitabile, ma di cui i nostri governanti paiono
essere inconsapevoli.
Evocando la propria giovinezza in una bella
intervista di Antonio Gnoli, Rodotà racconta di aver studiato
Giurisprudenza perché “attratto da quell’imponente e complicato edificio
che è il diritto. (…) Senza la forza il diritto è inerme. Senza
giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla
società”. Perciò egli parlò sempre da giurista, ma anche da cittadino
fra cittadini. Egli guardava sempre, come un generale dall’alto di una
collina, la forma cangiante della società e il mutevole atteggiarsi del
diritto. Sapeva che né l’una né l’altro possono essere ibernati in
configurazioni immutabili. Pensava al diritto come il prodotto di
momenti storici, economici, sociali, ma anche come una forza concettuale
che plasma la società recependone tendenze, codificandone istituti,
indirizzandone sviluppi. E pensava alla società come il prodotto di un
perpetuo dialogo o conflitto fra il tessuto delle norme e l’esercito dei
bisogni, dei desideri, delle aspirazioni, che devono esser calate entro
le maglie del diritto, per poi fatalmente ribollire di nuovo. Fu in
questo incrocio fra società e diritto che Rodotà vide la missione
storica della Costituzione, evidenziandone la progettualità
lungimirante, e per converso la sciagura dei molteplici tradimenti e dei
ricorrenti oblii a cui va soggetto il testo della Carta, che pure ancor
oggi si presterebbe a fungere da manifesto per il destino delle
generazioni future.
In questa perpetua giovinezza della
Costituzione si rispecchiava la perpetua giovinezza di Stefano Rodotà:
nel limpido sguardo che egli si volgeva intorno quando, non senza un
commovente imbarazzo, si vedeva candidato alla Presidenza della
Repubblica, o quando combatteva con energia per il No al referendum. In
quello sguardo c’era il desiderio di capire a fondo come la forma della
società e l’evoluzione del diritto potessero, messi a dialogo sulla base
della Carta fondamentale, costruire per le generazioni future un’Italia
con un più alto senso della cittadinanza, dell’uguaglianza, della
democrazia.