Il Fatto 13.3.18
“Il Pd ignora la sua base sociale e la lascia al M5S”
L’eurodeputata della sinistra Ue che ha lanciato l’appello all’alleanza: “Il reddito di cittadinanza è proposta molto condivisa in Europa”
Barbara Spinelli e Pascal Durand, i promotori dell’appello
di Stefano Feltri
Barbara Spinelli, a lungo firma di Repubblica e oggi europarlamentare eletta nella lista Tsipras e membro del gruppo Gue, è una delle voci più ascoltate nel centrosinistra e ieri ha lanciato, insieme al collega francese Pascal Durand, un appello (pubblicato sul Fatto) per un dialogo tra Pd e Movimento 5 Stelle dopo il risultato delle elezioni italiane che sta facendo molto discutere. Le abbiamo chiesto di spiegare come e perché due partiti fino a ieri avversari dovrebbero collaborare.
Barbara Spinelli, che messaggio è arrivato dagli elettori con la doppia vittoria di Lega e M5S?
È evidente che a Nord come a Sud gli elettori esigono un cambiamento: non solo formale, di qualche ministro. Denunciano l’enorme divario che esiste tra un establishment di tipo oligarchico e la sovranità popolare, chiedono di colmarlo. Per la sinistra la sconfitta è monumentale: con le classi popolari aveva un legame storico perduto da anni.
Quell’establishment, prima del voto, ha dato il solito messaggio “o noi o il disastro” ed è rimasto inascoltato. Un risultato preoccupante o di speranza?
Il messaggio non funziona più perché negli anni in cui governava, quel “noi” ha ottenuto risultati non troppo distanti dal disastro agitato come spauracchio. Se si fa una netta distinzione tra Lega e M5S, forse si può ancora salvare il salvabile. Se la spinta impersonata dal M5S, la più inserita nel quadro democratico, viene colta e tradotta in un programma concreto di governo, il disastro è evitabile.
Eugenio Scalfari ha detto che il M5S è la nuova sinistra. È d’accordo?
Il Movimento 5 Stelle comprende molti elementi, anche liberali, tanto che nell’Europarlamento ha provato ad allearsi con l’Alde (il gruppo dei liberal democratici europeisti di Guy Verhofstadt, ndr). Ma sicuramente il M5S ha una forte componente di sinistra. L’alleanza più coerente sarebbe quella con Pd e LeU, anche se la maggioranza sarebbe esilissima e dipendente da fedeltà improbabili.
E il sorpasso della Lega su Forza Italia che segnale è?
Esprime paure e xenofobie che esistono, meno chiassose, anche in Forza Italia. Se Berlusconi prova a lusingarle, gli elettori continueranno a preferire Salvini. Quanto all’Unione europea, l’elettorato leghista non è scettico, ma ostile. Non così i Cinque Stelle.
I Cinque Stelle hanno smesso di essere euro-scettici?
Li ho osservati da vicino al Parlamento europeo, nella loro propensione a fare compromessi positivi. Quello che le forze democratiche notano a Bruxelles è la loro capacità di fare proposte, soprattutto sui temi sociali e sui diritti. La stessa idea del reddito di cittadinanza, criticata e svilita dall’establishment italiano, è molto europea. Nell’ottobre scorso, il Parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione che chiede l’introduzione di un reddito minimo nell’Unione. Il relatore era Laura Agea del M5S. Solo Italia e Grecia non hanno schemi permanenti di reddito di cittadinanza. Su alcuni temi i Cinque Stelle sono perfino troppo “europei”, a mio parere.
Per esempio?
Sul respingimento dei migranti verso il Sudan, una dittatura con cui abbiamo firmato accordi di rimpatrio, e in particolare sul rimpatrio dei migranti in Libia. L’appoggio dei 5Stelle alla strategia libica di Minniti è identico a quello dato dalla Commissione Ue, e come nel 2012 potrebbe sfociare in una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Vista da Bruxelles, la Lega è pericolosa come il Front National? Non sembra ci sia lo stesso grado di allarme.
Spero che l’allarme ci sia. Quando Salvini parla di Europa mostra un’ignoranza abissale: quando fa l’elogio di Marine Le Pen o dei governi del gruppo di Visegrád, nasconde agli elettori che costoro vogliono chiudere le frontiere e si rifiutano di ricollocare i rifugiati, lasciandoli tutti nel Paese d’arrivo, che è il nostro. Un disastro per l’Italia, che Salvini furbescamente occulta.
Si parla di un’alleanza Lega-M5S, per mancanza di alternative.
Dell’ignoranza militante e ipocrita di Salvini ho appena detto. Non voglio neppure prendere in considerazione un’alleanza, suicida e contronatura, con un simile personaggio, dichiaratamente xenofobo e violento.
L’atteggiamento del Pd ora verso i loro elettori è “andate pure dai populisti, ve ne pentirete e tornerete da noi con tante scuse”.
È un atteggiamento di persone psicologicamente fragili che non sanno guardarsi allo specchio e fare gli autoesami richiesti: è la stupidità senza fondo che caratterizza le mosse di Renzi da quando ha perso il referendum sulla Costituzione. Vuol dire mostrarsi del tutto indifferenti alla propria storica base sociale. Averla in gran parte perduta non significa smettere di esserne responsabili. Lasciare i Cinque Stelle senza sponde a sinistra significa rovesciare lo slogan “o noi o il caos”, e scegliere il caos. Dire “ben venga il caos” è un atteggiamento sovversivo. Né credo che la soluzione consista nello schema Macron, carezzato forse da Renzi o Calenda: Macron ha vinto lasciandosi alle spalle un deserto di rappresentanza politica.
Come verrebbe vista in Europa la coalizione Pd-M5S? Una resa del Pd ai populisti?
Consiglio di abbandonare per sempre l’aggettivo populista, utilizzato per delegittimare chiunque chieda cambiamenti ma non appartiene alle oligarchie nazionali o europee. Parliamo dei problemi veri: non siamo fuori dalla crisi, dobbiamo uscire dalla bolla dentro cui vivono poteri assediati, sempre più infastiditi non tanto dai populisti, ma dallo stesso scrutinio universale e dalle inevitabili sorprese che esso riserva.
Che succede se i Cinque Stelle deludono? Hanno sollevato molte aspettative.
Hanno diminuito il numero delle promesse. Quella che più viene loro rimproverata dagli economisti dell’austerità è il reddito di cittadinanza, difficilmente contestabile essendo un obiettivo dell’Europarlamento. Lo stesso Parlamento ha detto che non bastano gli 80 euro o qualche piccola misura sull’inclusione. In Italia servono proposte sociali importanti e per questo il Pd e il M5S dovrebbero allearsi. Nel programma 5Stelle c’è anche la lotta alla mafia e alla corruzione. Vorrei sapere se anche questa lotta sia catalogabile come populista.
il manifesto 13.3.18
Michel Foucault
Il cambio di passo che scopre il valore dei movimenti
Era Francesco. Cinque anni di Bergoglio
di Alessandro Santagata
Scrive Michel Foucault che il «potere pastorale» della Chiesa è stato uno dei dispositivi sui quali si è definita la «governamentalità» occidentale. Comunemente si dà per scontato che a partire dal XVIII secolo, sotto i colpi della secolarizzazione, la Chiesa abbia sostanzialmente perso tale prerogativa, anche in conseguenza dell’erosione del potere temporale. Una possibile chiave di lettura del pontificato di papa Francesco comporta una messa in discussione di tale considerazione cronologica.
La preoccupazione per le difficoltà di Bergoglio nell’operare le riforme strutturali è il leit-motiv dei settori del cattolicesimo progressista, giustamente in ansia per ciò che succederà dopo la fine del pontificato. Se però si adotta una prospettiva più larga (ed esterna), il problema della riforma delle strutture appare invece ridimensionarsi. In cosa consiste oggi il potere pastorale della Chiesa? È ormai evidente che il piano della compenetrazione e poi della contesa con lo Stato moderno non è più il principale. Senza contrasto con quella che è da sempre la funzione principale della cura delle anime, da tempo la partita più importante della Chiesa sembra giocarsi altrove, nel campo dei discorsi, delle identità e delle appartenenze. Nel corso degli ultimi 50 anni, dal Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha riscoperto nella missionarietà la propria funzione principale. Dopo il Concilio si è assistito però a una sorta di normalizzazione delle aperture alla società contemporanea, che si è tradotta in una campagna di contrasto alla secolarizzazione, in larga parte incentrata sulla sessualità e volta a ricomporre una comunità frammentata. Rispetto a tutto questo, la discontinuità introdotta dal pontificato di Bergoglio è dirompente e riguarda la ridefinizione della pastoralità e dei suoi contenuti. Nessuna rottura con la tradizione, ma un chiaro cambio di passo che si è manifestato nella sua radicalità in occasione degli incontri mondiali con i movimenti popolari tra il 2014 e il 2016.
Il manifesto ha diffuso i discorsi tenuti dal papa in queste occasioni, con l’idea che la contaminazione che si è venuta a creare in quella sede con altre culture politiche (comprese quelle della sinistra radicale) non possa essere sottovalutata. È stato qualcosa di inedito nella storia: precari, famiglie senza tetto, contadini senza terra riuniti sotto la regia del Vaticano per discutere di diritti e lotte sociali; una rete di centinaia di organizzazioni internazionali che ha elaborato piattaforme politiche fondate sulle esperienze concrete di movimento, dalle battaglie contro la privatizzazione dell’acqua alla difesa della sovranità alimentare, dall’introduzione di un salario sociale universale alla garanzia dell’inviolabilità della casa familiare (contro gli sgomberi).
Nell’ultimo incontro papa Francesco ha esortato i movimenti a non farsi «incasellare e corrompere» in un sistema di welfare che tende ad addomesticare il conflitto sociale e a non avere paura di entrare «nella Politica con la P maiuscola», pur senza assumere la forma dei partiti politici. Sono affermazioni che evidentemente forzano i confini della dottrina sociale e che sono da interpretare all’interno di un processo complesso – e non privo di retaggi della cristianità – che vuole ripensare gli assetti della presenza cristiana nella società.
La riforma della Chiesa incontra resistenze perché sta liberando energie a lungo sopite. In un momento storico in cui le istituzioni del ‘900 stanno collassando e, contrariamente a quanto previsto negli anni ‘70, il religioso sta assumendo un nuovo rilievo nella sfera pubblica, la trasformazione assume una valenza che non riguarda solo i cattolici e va ben oltre il nodo delle strutture.
Il Fatto 13.3.18
“Moro, gli agenti uccisi, la prigionia e la lotta. Fu tutto terrificante”
Adriana Faranda racconta a Francesca Fagnani il rapimento e la morte dello statista Dc
Pubblichiamo una parte dell’intervista televisiva che Francesca Fagnani ha realizzato con Adriana Faranda, ex militante della colonna romana delle Brigate Rosse, una dei “postini” che le Br utilizzarono – tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 – per consegnare alla famiglia e ai politici della Democrazia cristiana le lettere di Aldo Moro, prigioniero nel covo brigatista di via Montalcini a Roma
Le domande e le risposte che leggerete sono proprio la parte dedicata alla rievocazione dei 55 giorni del Caso Moro. Il colloquio con Adriana Faranda è il primo della nuova trasmissione di Francesca Fagnani, “Belve”, una serie originale di otto appuntamenti prodotta da “Loft Produzioni” per Discovery Italia. La prima puntata, con l’intervista ad Adriana Faranda, andrà in onda domani sera alle 23.30 sul canale “Nove”.
Adriana Faranda, lei ha partecipato al piano per il rapimento di Aldo Moro e l’ha condiviso. Quel giorno in via Fani sono morti tutti gli agenti della scorta di Moro. L’annientamento della scorta era previsto nei vostri piani, era condiviso da tutti nelle Brigate Rosse?
Questo è un tema molto delicato, nel senso che noi non immaginavamo che gli uomini della scorta fossero, non dico impreparati, ma che addirittura alcune armi fossero in un portabagagli o in un borsello. Credevamo che rispondessero al fuoco, che si aspettassero che potesse succedere una cosa del genere. Ovvio che noi puntavamo alla sorpresa, ma non ci aspettavamo che fossero così sorpresi.
Non lo avevate messo in conto.
Non avevamo messo in conto, ovviamente, il colpo di grazia. Io non ricordo sicuramente alcuna discussione in cui è stato detto: bisogna ucciderli. Certo, dovevamo garantire al nucleo la possibilità di scappare. Però quello che non sapevamo è se ci sarebbero stati morti anche dalla nostra parte.
Lei dov’era mentre capitava?
Ero a casa e ascoltavo la radio. Per sentire cosa stava succedendo, ma dalle comunicazioni non si capiva bene.
Quando ha saputo che gli agenti erano morti tutti e invece dei vostri nessuno, come si è sentita?
Da una parte sollevata, dall’altra ho sentito immediatamente il peso di quello che era avvenuto. La prima cosa che udii fu che uno degli agenti era sopravvissuto ed era stato portato in ospedale. E devo dire che mi augurai che non morisse.
Barbara Balzerani, un’altra brigatista che ha partecipato al Piano Moro, ha detto: io non mi ritengo un’assassina, perché sostanzialmente quella era una guerra, quelle erano le regole di ingaggio. Lei come la giudica e come giudica un po’ tutti voi?
No, io non giudico la Balzerani e nessun altro mio ex compagno di allora.
Allora mettiamola su di lei. Si giudica un’assassina?
È dura questa domanda. Nel senso che dal punto di vista umano, per come la vedo adesso, sì: so che ho contribuito all’uccisione di persone. Però, è vero anche quello che dice la Balzerani. In quel momento, noi ci sentivamo in guerra, al di là che questa cosa fosse reale o meno. E la guerra è spietata, la guerra è cinica, la guerra uccide.
Nella vostra visione voi eravate in guerra, per liberare il popolo oppresso dal Sim, lo stato imperialista delle multinazionali, diciamo così, banalizzando…
Banalizzando…
Di fatto, però, il giorno dopo il rapimento Moro ci fu un grande sciopero contro di voi. Le piazze si riempirono di bandiere e di operai. Quel popolo che volevate liberare era contro di voi. Ma non vi siete chiesti: forse siamo dalla parte sbagliata della storia? Non vi è venuto qualche dubbio?
Un minimo di dubbio c’era sempre, ma non era sulle manifestazioni organizzate dal Pci. Non ci stupiva che riuscissero a mobilitare tante persone.
Eppure quelle persone c’erano, erano persone vere, erano operai.
Di noi si dice che eravamo pochissimi, è giusto: eravamo molti di meno, però ci sono stati anche dai 20 mila ai 40 mila inquisiti, in quegli anni, per attività sovversive.
Ma la gente era con voi?
No, la gente non era con noi. Però, che cosa significa essere con noi? Noi pensavamo di essere una avanguardia che innescava un processo, cioè non era un periodo in cui quattro persone chiuse di una stanza avevano deciso un percorso. Accanto alle manifestazioni del Pci c’erano le persone che avevano brindato nei bar alla notizia, perché lì per lì, tra l’altro, non ci si era resi conto della gravità dell’episodio.
Durante quei 55 giorni del rapimento, lei ha frequentato il covo di via Montalcini, la “prigione del popolo” di Aldo Moro?
No, mai. Mai perché non poteva essere una base da frequentare, ma doveva essere un appartamento da tenere assolutamente il più possibile separato e al sicuro.
Lei non ha mai incrociato il presidente Moro?
No, mai. Soltanto durante l’inchiesta preliminare al sequestro.
Il suo compito, assieme a Valerio Morucci che, allora, era anche il suo compagno di vita, era di recapitare la “posta, le lettere che scriveva Moro, sia quelle politiche sia quelle private”. Erano 36, lei le ha recapitate tutte?
Moro sicuramente ne scrisse di più. Poi, per tutta una serie di valutazioni, non tutte furono inviate ai destinatari.
Erano lettere, dicevamo, sia a familiari sia private, sia a politici del suo partito. Lei immagino avrà avuto modo di leggerle in anteprima. Come si sentiva? Perché quelle private erano davvero struggenti…
Certo, diciamo che quelle politiche erano estremamente importanti perché segnavano tutto un percorso di Moro che cercava di aprire degli spiragli che avrebbero significato la sua liberazione. Quelle private lo spogliavano gradatamente di quella che era la sua funzione, quella per cui era stato catturato.
E lei come si sentiva?
Male.
La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi?
No, spazio no. A volte è uscita fuori, in maniere differenti. Però spazio politico non poteva averne.
Com’è noto, lei e Morucci vi siete opposti all’esecuzione del prigioniero Moro. A muovervi erano ragioni più politiche o più etiche?
Erano le due cose. Uccidere un prigioniero politico, reintrodurre la pena di morte come diceva Moro nelle lettere alla Democrazia cristiana: diceva ‘state reintroducendo la pena di morte’, in realtà era rivolto anche a noi, esattamente come alle istituzioni che non si stavano muovendo. Meglio: al suo partito, piuttosto che alle istituzioni. E anche problemi politici, perché per noi l’uccisione di Moro era un errore politico gravissimo. Già il sequestro era stato un azzardo, superiore alle nostre forze anche di elaborazione e di gestione politica e l’uccisione sarebbe stato un errore ancora più grave. Per noi la sua liberazione, anche senza contropartita, era una prova di forza e, se vogliamo, anche di eticità maggiore di quella che stava dimostrando lo Stato.
Ma uccidere le persone per strada non equivale alla pena di morte?
Assolutamente sì, assolutamente sì.
Lei e Morucci siete riusciti effettivamente a rimandare l’esecuzione di Moro, ma non a evitarla. Eppure avreste potuto salvare la sua vita e le vostre, denunciando
Non si può. A quei tempi non si poteva assolutamente neanche immaginare una cosa del genere. Tu per tua scelta, per tua responsabilità hai accettato di far parte di un’organizzazione in cui credevi, con cui hai condiviso tutto: anche davanti a un dilemma umano, etico e politico di quel tipo, passare alla denuncia significava capovolgere tutto e schierarsi con lo Stato contro i tuoi compagni. Era inammissibile per me, in quel momento, assolutamente inammissibile.
Il giorno dell’esecuzione, le toccò un altro terribile compito: accompagnare Morucci nella telefonata all’assistente di Moro per comunicare dove avrebbero ritrovato il cadavere. Com’è, per chi ne ha la responsabilità, annunciare una morte senza dare la possibilità di dire addio?
Beh, quello è stato un momento durissimo. A Valerio costò moltissimo fare quella telefonata. Annunciare una morte è sempre una cosa terrificante, ancora di più se non la condividi, in quel momento l’angoscia era molto alta, non so. È stato uno dei momenti più difficili.
È stato il più difficile? Oppure qual è stato il più difficile di quei 55 giorni?
Non c’è un momento terrificante, erano tutti terrificanti. Fu terrificante anche quando si decise che non si poteva più aspettare. Furono tutti terrificanti. Tranne forse, non so, quando si sperava che ci fossero delle aperture…
il manifesto 13.3.18
Vegetti e Lanza, nel mondo degli antichi
La scomparsa, a distanza di pochi giorni, di due grandi figure di studiosi di Platone e Aristotele
di Massimo Stella
Mario Vegetti e Diego Lanza sono mancati a quattro giorni di distanza l’uno dall’altro. Per chi ha studiato con loro e da loro è stato avviato alla ricerca è un momento di riflessione. Li ha accomunati, durante tutto il loro percorso, un’attenzione strutturale per il dialogo tra il mondo antico e il mondo moderno e contemporaneo.
Prendere posizione dentro il sapere (in accademia e fuori dall’accademia) attraversare, con il rigore della competenza, i confini delle discipline, incrociandone i linguaggi e le pratiche discorsive, è il tratto che li contraddistingue, facendone degli intellettuali, oltre e al di là della cattedra.
DELLA TRADIZIONE marxista hanno rappresentato la declinazione politico-scientifica, non quella storicistico-umanistica: ed è per questo che hanno saputo innovare, a partire dall’Ideologia della città – il loro esordio comune (era il 1975), o meglio, l’approdo comune, destinato a diventare noto, di un percorso parallelo iniziato, insieme, un decennio prima.
STUDIARE Platone e Aristotele con Mario Vegetti significava leggere i filosofi della tradizione occidentale da Hegel a Nieztsche a Foucault a Deleuze, dai neoplatonici a Hobbes e Spinoza: L’etica degli antichi è, oltre che quella celebre sintesi sul «pensiero morale antico» da tutti conosciuta, un libro-prisma in cui si ripercuotono alcune delle più grandi questioni etico-politiche della nostra modernità e della nostra contemporaneità.
Così i saggi fondamentali di Diego Lanza sulla tragedia e sulla commedia antiche, La disciplina dell’emozione e Lo stolto, ci mettono di fronte a un teatro antico che è, innazitutto, una forma di conoscenza rivolta alla comunità: una «forma», appunto, linguistica e antropologica, prima e oltre che un prodotto storico (e/o letterario), un’ esperienza del pensiero (il lavoro di Lanza sulla Poetica di Aristotele prende senso da qui), dietro alla quale si intravede costantemente il rapporto con le riemergenze del tragico nella filosofia post-nietzschiana fino a Szondi e la lezione viva di Edoardo e di Dario Fo.
L’interesse, ancora comune, di Lanza e di Vegetti per il sapere scientifico degli antichi, dalla medicina ai discorsi delle tecniche – Il coltello e lo stilo e Tra Edipo ed Euclide (Vegetti); Lingua e discorso nell’Atene delle professioni (Lanza), senza parlare delle Opere biologiche di Aristotele (Lanza-Vegetti) – costituiva, di nuovo, il risultato di un posizionamento e d’un atto di coscienza scientifica: la reazione marxista al culto delle belles lettres (che tanta critica marxista continuava, nonostante tutto, a praticare) e la convinzione che l’intellettuale dovesse riscoprire i movimenti della materialità mentre anatomizzava le rappresentazioni (ideologiche) della «realtà»: il discorso del corpo, la differenza di genere, i paradigmi antropologici in conflitto o in armonia con le epistemologie, la frontiera umano-non umano (uomo-animale).
PER TUTTE QUESTE RAGIONI, e forse anche per una forma di nostalgia politica, Lanza e Vegetti erano studiosi legati al collettivo di studi. I seminari di letteratura greca diretti da Lanza erano straordinari laboratori di pensiero in cui laureandi, dottorandi, ricercatori e professori dialogavano democraticamente, collaborando a opere collettive o traendo energie fondamentali per lo sviluppo dei propri lavori individuali.
Il decennale laboratorio di traduzione e commento della Repubblica di Platone, diretto a Mario Vegetti, è stata, per chi vi ha partecipato, un’esperienza assolutamente determinante sotto ogni aspetto, metodologico, scientifico, umano.
La Stampa 13.3.18
Addio a Mario Vegetti: l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri
di Maurizio Assalto
In un’intervista di alcuni anni fa ci aveva detto che Aureliano Buendía, l’eroe di
Cent’anni di solitudine
«che nella sua vita ha tentato 32 rivoluzioni e le ha fallite tutte, è l’emblema del platonismo di ogni epoca». A Platone e alla sua opera Mario Vegetti, morto domenica a Milano a 81 anni da poco compiuti, ha dedicato gran parte del suo lavoro di storico della filosofia antica, tra i più profondi che abbiamo avuto in Italia, senza arretrare di fronte agli aspetti più controversi del suo pensiero.
Professore per trent’anni all’Università di Pavia, dove era stato allievo di Enzo Paci e si era laureato con una tesi su Tucidide, proprio dall’impostazione metodologica dello storico ateniese, che intendeva la sua indagine come ricerca delle cause, aveva sviluppato un interesse per la scienza antica, guidato dall’incontro con Ludovico Geymonat e nutrito dagli studi su Galeno e sulle opere biologiche di Aristotele. Tra i contributi più stimolanti, generati da questo approccio, Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), dove individuava i due strumenti, della dissezione anatomica e della scrittura, che hanno contribuito alla classificazione e all’organizzazione del sapere, e quindi alla razionalità scientifica occidentale. Nello stesso tempo, dalla lettura di Jean-Pierre Vernant traeva l’attitudine a pensare il mito non come l’opposto della ragione, secondo la lettura ottocentesca consacrata dal classico di Wilhelm Neste Vom Mythos zum Logos, ma come un elemento che alla ragione si intreccia inestricabilmente, dando vita a forme complesse di cui è possibile sondare la stratigrafia.
All’opera di Platone era arrivato sulla scorta di un’attenzione crescente per le implicazioni etico-politiche del pensiero antico (su L’etica degli antichi aveva pubblicato un importante volume nel 1989 da Laterza). Della Repubblica aveva curato una monumentale edizione commentata in sette volumi, uscita tra il 1998 e il 2007 per Bibliopolis, e al suo modello ideale di società giusta aveva dedicato tra gli ultimi titoli Un paradigma in cielo (Carocci, 2009), storia delle interpretazioni politiche a cui l’utopia platonica è andata incontro nei secoli: visione filosofica di un altro mondo possibile, secondo Kant, ma anche matrice di tutte le derive totalitarie, come è stata stroncata da Popper. Vegetti riconosceva in Platone entrambi gli aspetti, il programma illuministico del sapere al potere ma delineato con una radicalità estrema, che è sempre stata sentita come un «elemento perturbante», e che lo oppone al «riformismo» di Aristotele. Un modello di valore ideale, a cui sempre guardare, ma senza la tentazione di tradurlo in pratica. Per non fare (se non peggio) la fine di Aureliano Buendía.
Repubblica 13.3.18
L’intervista alla storica Mary Beard
“Il primo #MeToo? Lo twittò Penelope”
Nel nuovo saggio, “ Donne e Potere”, la studiosa di Cambridge ripercorre le origini della misoginia
Partendo dalla moglie di Ulisse, zittita dal figlio Telemaco in un passaggio sottovalutato dell’Odissea
di Anna Lombardi
Il movimento #MeToo ha un precedente classico: il mito di Filomele come lo narra Ovidio.
Violentata da Tereo, re di Tracia e marito di sua sorella Procne, subisce il taglio della lingua per non svelare la violenza. Ma denuncia ugualmente: tessendo lo stupro sulla tela. Non è simile a quel che fanno le donne in questo momento? Messe a tacere per secoli ora trovano voce su Twitter: la rete è la loro tela». Mary Beard, 63 anni, è la classicista di Cambridge che con bestseller come SPQR ha reso accessibile a tutti, senza mai banalizzarla, la storia dell’antica Roma. La scorsa estate finì nella bufera per aver difeso un cartoon della Bbc che raffigurava un centurione nero, ricordando a chi protestava che “sì, quella romana era una società mista”. Ora torna a far discutere col suo ultimo saggio, Donne e potere (Mondadori), basato su due conferenze tenute nel 2014 e 2017, dove traccia una storia della misoginia: cercando di spiegare quanto siano radicati nella cultura occidentale i meccanismi che impongono alle donne il silenzio – e tendono a escluderle dalle posizioni di potere. Partendo da un episodio dell’Odissea: Penelope zittita dal figlio Telemaco per aver chiesto al cantore Femio qualcosa di meno triste del difficile ritorno da Troia degli eroi achei: «La parola spetta agli uomini».
Perché proprio quell’episodio è fondamentale?
«È il primo esempio letterario di un uomo che mette a tacere una donna: dimostra che in questo ambito la cultura occidentale ha migliaia di anni di pratica. L’ho scelto perché, solo capendo quanto sia antico il privilegio dato alla voce maschile, possiamo comprendere il presente: e lavorare sul futuro».
Per comprendere lo scandalo Weinstein e quel che ha comportato dobbiamo dunque andare indietro di 3000 anni?
«Certi comportamenti non sono innati o naturali: sono culturali, tramandati nei secoli. Nell’esporli non ho pensato certo di condannare la cultura classica che pure offre una visione delle donne che deploriamo. Ma per contrastarli dobbiamo capire da dove vengono».
Nel libro lei suggerisce che le donne hanno sempre tentato di rompere il silenzio. Il #MeToo ha dunque radici storiche?
«Battersi per se stesse e le altre alle donne è sempre stato permesso. Il #MeToo dunque rientra in uno spazio tradizionalmente concesso.
Plaudo a chi se lo è ripreso: ma non è nuovo».
Nel libro dice di aver notato solo di recente l’episodio di Telemaco che zittisce la madre: siamo così abituate a scene del genere da considerarle norma?
«Temo di sì: per i miei studi ho letto e riletto i classici notando cose nuove ogni volta, ma anche io sono così abituata a veder zittire le donne da non averci fatto caso fino a poco tempo fa. Lavoro a questo tema da prima del #MeToo, ma quel che sta succedendo ha certo ravvivato la nostra sensibilità. Una volta notato quell’episodio non puoi più non vederlo: è un “momento Penelope” inconfondibile, che torna in molti altri esempi letterari. E qualcosa in cui tutte le donne si riconoscono per averlo vissuto sulla loro pelle».
Una sorta di archetipo?
«Piuttosto un’attitudine tramandata e radicata nei secoli.
Essendo qualcosa di appreso possiamo disimparare ad attuarla».
Lei nota come da allora la voce femminile in letteratura sia stata irrisa o svilita: ancora oggi quando le donne prendono la parola rischiano ingiurie. Accade anche a lei su Twitter: le sue battaglie coi troll sono celebri.
«C’è ancora chi considera la competenza femminile meno autorevole di quella maschile. E la situazione è più grave per le donne che fanno politica: un esempio è l’immagine di Hillary Clinton decapitata come Medea circolata in ambienti vicini a Donald Trump. O il tentativo di zittire la democratica Elizabeth Warren mentre leggeva una lettera di Coretta King in Senato. La scena ha dato vita allo slogan femminista Nevertheless she persisted, nonostante tutto è andata avanti. Quel “ nonostante tutto” indica che, anche se i tentativi di silenziare le donne falliscono, le cose non sono cambiate abbastanza».
Il silenzio come arma contro le donne nell’America moderna come nella Grecia antica?
«Per fortuna le cose in 3000 anni – e soprattutto negli ultimi 100 – sono cambiate. Non sminuisco i progressi: ma c’è ancora da fare».
Nel libro racconta delle lezioni prese da Margaret Thatcher per rendere la voce più profonda...
«Nei corsi di leadership alle donne si raccomanda ancora di abbassare il tono per renderla più calda: più maschile. Ma perché una voce acuta non è considerata autorevole?».
Lei conosce il passato: come vede il futuro?
«Conoscere la storia mi rende ottimista. Dobbiamo però restare vigili. In tempi di austerità economica i progressi che riguardano le donne subiscono i rallentamenti maggiori».
Il suo è un invito a lavorare sul nostro linguaggio, troppo discriminatorio: dobbiamo inventarne uno nuovo?
«Dovremmo riflettere sulle implicazioni di certe parole. In inglese “ambizioso” è un complimento se rivolto a un uomo, ma un insulto per una donna. Il linguaggio conta. Dobbiamo avviare un processo di aggiustamento e trovare un più giusto modo di esprimerci».
il manifesto 13.3.18
Hitler vs Picasso», la macabra ossessione nazista per l’arte
Cinema. Nelle sale il 13 e 14 marzo il documentario di Claudio Poli. Furono circa 600 mila le opere trafugate, razziate, rubate nelle case degli ebrei
1937, la mostra della «Grande arte germanica»
di Arianna Di Genova
Hitler e Goering erano amici stretti, nella politica e nella vita. Condividevano una visione politica e quello stesso sogno di una grande Germania, «epurata» di tutti gli elementi contaminanti che non entravano nel loro progetto. A un certo punto però divennero rivali: fu quando cominciarono a contendersi i bottini artistici, quando le meraviglie prodotte dai migliori talenti d’Europa presero a passare per le loro mani e per quelle di intermediari – galleristi, artisti, storici dell’arte – senza scrupoli. Pronti a fare razzie nei musei delle città che via via occupavano, o in casa d’altri, turlupinando i legittimi proprietari di quei beni (spesso ebrei) o deportandoli per poi depredare meglio le loro residenze, come avvenne nel caso dei coniugi Gutman, spediti in campo di concentramento.
A Jacques Goudstikker, invece, che aveva una collezione di fiamminghi e barocco italiano nelle sale del suo castello Nyenrode, furono confiscate 1240 opere: 50 per essere donate a Hitler, altre disperse in varie vendite all’asta per «fare cassa», altre ancora «nazionalizzate». I suoi eredi – come quelli del raffinatissimo gallerista parigino Paul Rosenberg, la cui Femme assise di Matisse è riapparsa nel ritrovamento eccezionale in casa Gurlitt di 1500 opere credute perdute nel bombardamento di Dresda – sono oggi tra i protagonisti di battaglie legali che infrangono il tabù della cosidetta «restituzione», pratica che spoglierebbe i maggiori musei del mondo dei loro tesori.
Sono questi solo alcuni dei casi che vengono ricordati nel documentario Hitler vs Picasso, nelle sale italiane oggi e domani. Regia di Claudio Poli su soggetto di Didi Gnocchi, con la partecipazione straordinaria di Toni Servillo e la colonna sonora originale di Remo Anzovino (per la 3D Produzioni e Nexo Digital con Sky Arte HD), il film affronta l’ossessione compulsiva del nazismo per l’arte sia quando era «degenerata», una minaccia per i valori del Reich (quelle pitture e sculture da mostrare al pubblico ludibrio, circa 650, contarono su due milioni i visitatori), sia quando classica e orgogliosamente «germanica», come testimoniarono le due esposizioni parallele e antitetiche del 1937. Con qualche paradosso: l’espressionista Nolde, antisemita e iscritto al partito, finì tra i «degenerati» nonostante figurasse nei salotti buoni e fosse amato da Goering, mentre lo scultore Belling appariva in entrambe le sedi – paladino ariano oppure diavolo.
Ma il vero racconto sotteso a quell’olocausto culturale narrato nel documentario riguarda il destino dei mediatori compiacenti del nazismo: la maggior parte di loro riprese a fare il proprio mestiere, a guerra finita. Senza disturbo.
Corriere 13.3.18
Ci vuole più rispetto per la follia (vera)
di Paolo Di Stefano
Bisognerebbe avere più rispetto per la follia: parlarne solo a ragion (o follia) veduta. Per esempio, mai in una campagna elettorale si è tanto sentita la parola «follia», che, con i rispettivi aggettivi, è diventata l’accusa più ricorrente agli avversari politici. Il reddito di cittadinanza del M5S? Una follia per Salvini e per Renzi. La flat tax di Salvini? Una follia per Renzi e per Di Maio. E la tassazione attuale? Una follia per Berlusconi, per Salvini e per Di Maio. Uscire dall’euro? Una follia quasi per tutti. Diceva la poetessa matta Alda Merini che anche la follia merita i suoi applausi. Non si riferiva alla presunta follia dei furbi o dei finti tonti ma alla follia dei veri folli. Di cui bisognerebbe avere più rispetto, senza parlarne a sproposito. Se qualcuno volesse davvero viaggiare, senza essere osservato, dentro la testa, i pensieri, i sensi e i nonsensi, le pazzie dei folli, sconsiglierei di rincorrere le reciproche accuse della politica e raccomanderei invece di leggere un libretto pubblicato da Le Farfalle, un editore minimo, siciliano di Valverde. Si intitola «Vento traverso» ed è stato scritto da Anna Pavone, che vive divisa tra Milano e Catania dedicandosi a lavori editoriali. Contiene, con i disegni di Bruno Caruso, voci senza nome ascoltate nei manicomi e liberate in poche righe sul bianco delle pagine. Piccoli cortocircuiti mentali, abissi di verità, di dolore e di fantasia che dimostrano quanta saggezza c’era in quella frase di Alda Merini. Poesia involontaria e vertiginosa nel solco della letteratura semplice e stralunata praticata da Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni, narratori delle riserve e dei margini che i politici non conoscono. E anche nella linea sproloquiante dei repertori dei matti di Palermo, di Parma, di Livorno, di Roma, di Milano, di Bologna raccolti e raccontati da Roberto Alajmo e da Paolo Nori. Uno dice: «Io penso che morire mi farebbe bene», e un altro: «Dipingo le sbarre, metto le luci per tenere lontana la notte». E sempre a proposito della notte: «Non sono riuscita a dormire l’altra notte. Sapevo che eri dietro le tende». Altri sono più luminosi: «Sono saltato dalla finestra perché volevo raggiungere il sole e danzare». Altri più cauti: «Se esco potrei volare via, oggi c’è vento». Ma la domanda finale non la troverete mai sulla bocca di un finto folle dopo una catastrofe elettorale: «Come ho fatto a estinguermi così?». Applausi.
il manifesto 13.3.18
Potere illimitato, ma Xi Jinping non è il «nuovo Mao»
Cina. Quella Cina non c'è più e i rischi di un uomo solo al comando a tempo indeterminato fanno parte tanto della storia dell’umanità, quanto della sua fase capitalistica più vicina a noi
di Simone Pieranni
L’Assemblea nazionale cinese ha ratificato l’abolizione del limite di due mandati per il presidente della Repubblica popolare cinese; in questo modo Xi Jinping potrà estendere il suo «regno» ben oltre i dieci anni canonici. Il limite venne stabilito da Deng Xiaoping negli anni ’80 proprio contro i rischi di un potere illimitato, per garantire una leadership collettiva al partito e per gestire in modo «morbido» la successione al vertice.
La recente decisione dell’Assemblea – quanto di più simile a un parlamento, anche se in realtà ha un mero compito di ratificare quanto già deciso dal partito comunista – ha preso atto di quanto si poteva osservare in Cina da tempo: Xi Jinping, infatti, al recente congresso del Pcc di ottobre, non aveva fornito alcuna indicazione sulla sua successione, lasciando intendere la volontà di andare oltre il suo mandato.
Questa novità nella recente storia cinese è stata spiegata dai media statali con la necessità di garantire stabilità a un paese in una fase delicata. La Cina infatti sta gestendo una crescita controllata e una complicata trasformazione da un’economia trainata dalle esportazioni a una con un fiorente mercato interno basato su innovazione e progresso tecnologico, contemporaneamente alla necessità di proseguire sulla linea di espansionismo commerciale internazionale tracciato dalla Nuova via della seta.
Allo stesso modo il paese deve fare i conti con una realtà internazionale cangiante, con accelerazioni improvvise, come dimostrano le recenti decisioni di Donald Trump sui dazi e sulla possibilità di un incontro con Kim Jong-un (doppio potenziale colpo a Pechino).
Si tratta di due eventi recenti che devono aver rafforzato l’idea di chi sostiene che Xi Jinping debba continuare a controllare il paese, ora che il partito comunista ha ottenuto una nuova popolarità e la Cina è tornata ad avere una postura internazionale rilevante. Le insidie, per entrambi i risultati ottenuti ad oggi da Xi, sono tante e si è dunque scelto per la continuità.
Prima di analizzare alcune storture in questa decisione, è necessario liberarci subito da un equivoco sul quale in realtà sembrano aver giocato alcuni media: Xi Jinping non è «il nuovo Mao», per la semplice ragione che quella Cina non c’è più, non esiste più da tempo e sarebbe il caso che tutti lo ricordassero; riportare Pechino sempre indietro nella storia, anche solo attraverso facili richiami, significa continuare a considerare la Cina al di fuori di un consesso internazionale nel quale, basti pensare agli Usa di Trump, in questo momento sembra essere l’unica potenza responsabile.
Allo stesso modo, però, non reggono le spiegazioni di chi – ritenendo la volontà di avere uomini forti e Stati in rischiosa involuzione autoritaria come una sorta di costante in questo periodo storico (pensiamo ad altri paesi asiatici o alla Russia, alla Polonia e all’Ungheria) – finisce per supportare una sorta di esenzione per la Cina dai pericoli di questa traiettoria.
I rischi, infatti, di avere un uomo solo al comando e per di più a tempo indeterminato fanno parte tanto della storia dell’umanità, quanto della sua fase capitalistica più vicina a noi: in questo caso non ci sono «caratteristiche cinesi» che tengano.
Il limite al doppio mandato non garantisce che – in futuro – chi potrà utilizzare quel potere, sarà esentato da pericolosi tentazioni, finendo poi per rivolgerlo contro qualcosa o qualcuno, un nemico interno o uno esterno. Inoltre Xi Jinping, in questo momento, non è solo un uomo forte al comando; è un politico che tra le armi a propria disposizione per assicurarsi e perpetuare il suo status, avrà anche una Commissione nazionale di supervisione, anch’essa ratificata dall’Assemblea nazionale: un organo al di sopra perfino della Corte suprema e dedicato a ribadire la durissima lotta alla corruzione iniziata da Xi nei primi giorni del suo mandato.
Solo che questa Commissione – di cui si aspetta la ratifica della legge che ne determinerà i compiti – rischia di diventare un tribunale personale di Xi, capace di sottoporre al proprio arbitrio non solo funzionari corrotti ma anche chi dovesse «deragliare» dalla linea politica del presidente, segretario del partito e capo delle forze armate per chissà quanto tempo.
Il Fatto 13.3.18
Renzi sovraesposto: una foto malfatta
di Giandomenico Crapis
Prima ancora di chiedersi cosa ne sarà di Renzi e del Partito democratico giunto al suo minimo storico, c’è un nodo da sciogliere, grande quanto la bersaniana vacca nel corridoio: cioè di come la potente macchina da guerra comunicativa costruita dal giovane leader del Pd, superiore per pervasività forse anche a quella approntata in passato dallo stesso Berlusconi, sia risultata non solo inefficace nel creare consenso, ma abbia addirittura prodotto un risultato così drammatico.
Il fatto, da studiare nelle università come un vero caso di scuola, sarà capire cosa sia successo per determinare un simile tracollo, dopo anni di esposizione mediatica senza precedenti, di autoproduzione quotidiana di messaggi “protetti”, di sforzi per creare lo spin giusto (ne ha scritto Fabio Martini ne La fabbrica della verità), di casting spietato per selezionare facce e corpi per la tv.
Ebbene questa “poderosa macchina per il consenso” che non ha risparmiato nessuno, neanche i giornalisti, indirizzati per anni con veline e sms sull’interpretazione dei fatti e il pensiero del leader, alla fine ha prodotto un’emorragia di due milioni e mezzo di voti rispetto al 2013, di cinque rispetto alle europee 2014, e messo gravemente in ginocchio un partito, la sua identità, la sua ragione sociale.
Renzi, infatti, pochi giorni dopo essersi insediato a Palazzo Chigi scatenava sui media un attacco senza precedenti, portato, a differenza dell’ex Cavaliere, in tutti gli apparati della comunicazione moderna, nessuno escluso (dalla tv ai social, alla radio, a Internet, ai telefonini). Solo per restare alla tv da quel momento Renzi inanellava un’impressionate serie di presenze, non solo nelle tradizionali trasmissioni informative, ma anche, ed era questa la novità più importante, in formati dove l’intrattenimento era prevalente, comparendo più volte sia a Che fuori tempo che fa che a Domenica Live o a Domenica In. L’assalto riguardava non solo, dunque, i telegiornali, dove comunque egli raramente mancava all’appuntamento e che gli regalavano sia in Rai che in Mediaset percentuali mai raggiunte da un capo di governo (come testimoniano i dati Agcom), ma, da allora e senza soluzione di continuità, anche gli spazi poco politicizzati del divertimento, da lui utilizzati più volte per parlare ai cittadini, lanciare messaggi, raccontare del suo governo. Rimane esemplare la partecipazione a Un mondo da amare al fianco della Clerici la sera del 18 dicembre 2014. L’anno 2016, con il referendum costituzionale, avrebbe rappresentato il momento clou di una mobilitazione elettorale permanente, capace di produrre uno stress comunicativo rimasto ininterrotto fino a oggi, salvo per pochi mesi dopo la sconfitta del 4 dicembre. Com’è accaduto, c’è da chiedersi, che questa permanent campaign poderosa e inedita non abbia prodotto i frutti sperati, anzi tutt’altro? Azzardiamo un paio di spiegazioni, che diamo al netto delle pur necessarie valutazioni politiche sul personaggio. La prima è che Matteo Renzi lanciava la sua offensiva proprio quando la comunicazione politica in tv cominciava, ingenerando disaffezione e distacco nella gente, una sua inesorabile parabola declinante: una sfasatura strategica non da poco rispetto all’esprit du temps per la sua crociata mediatica; la quale, a sua volta, scatenava altra comunicazione avversa e altre chiacchiere nelle tv da lui meno frequentate (vedi La7), generando un fatale cortocircuito negativo.
La seconda è che, come sanno gli specialisti della materia, la tv e i media non bastano sempre da soli a fare la differenza. Essi si nutrono di velocità e, come scriveva Paul Virilio, sono nemici della durata. E la sovraesposizione, come in una fotografia malfatta, produce una cattiva immagine. È la vecchia storia della televisione e del consenso: la prima non garantisce il secondo, perché il consumo di essa avviene sempre in un contesto, che è quello che alla fine conta.
Eco diceva che se un poveraccio vede una pubblicità fatta di ricchezze possibili e luoghi da sogno alla fine, piuttosto che comprare la saponetta, può darsi che s’incazzi con chi lo sottopaga e lo sfrutta. La chiamava “decodifica aberrante”, variabile essenziale per capire le comunicazioni di massa. Ecco, forse è quello che è accaduto in questi anni a Matteo
il manifesto 13.3.18
La ruota bucata di Renzi
di Norma Rangeri
Forse il paragone è improprio, ma immaginiamo se un leader del fu Pci, di fronte a una sconfitta storica come quella sancita da queste elezioni (rispetto alle europee del 2014 all’appello del Pd mancano sei milioni di voti), avesse commentato come ha fatto ieri Renzi dicendo «la ruota gira». Appunto, non è immaginabile. Specialmente se la ruota è bucata.
E tuttavia il paragone con la classe dirigente del Pci non è poi così peregrino perché ad accostare Pci e Pd ci hanno pensato in questi giorni anche gli istituti di sondaggio nell’analizzare il travaso di voti, nel raccontare il grande esodo provocato dagli anni della segreteria renziana. Il 35% di chi nel 1987 (quando i governi duravano anche 100 giorni, ai tempi di Fanfani e di Goria) votava Pci, oggi ha votato 5Stelle. E quelli che, sempre in quell’anno, votavano Dc, oggi si sono invece rivolti a Forza Italia per il 29% (lo ricorda la Swg).
Renzi lascia la segreteria e un partito stremato ma non abbandona l’idea di essere ancora lui la carta vincente, di essere colui che possiede la giusta linea e, proprio per questo, punta tutta la posta che ha davanti sull’ingovernabilità, sull’impossibilità di formare una maggioranza tra pentastellati e centrodestra, un esito in qualche modo precostituito, con una legge elettorale dell’ultimo minuto, il Rosatellum, votata da lega e Forza italia per far fuori dai giochi il M5Stelle.
Purtroppo il diavolo non ha pensato al coperchio e la sconfitta del Pd ha rovesciato la pentola.
Come un criceto nella ruota, Renzi se la prende un po’ con tutti, dentro e fuori il partito. Ce l’ha con quei candidati che non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd «ma solo sulle loro persone» (leggi Gentiloni).
Continua ad accusare il partito di aver perso tempo e energie con gli scissionisti.
Non gli va proprio giù che la meravigliosa idea della riforma costituzionale sia stata rispedita al mittente da una valanga di No.
E ripete la storia della panacea delle elezioni anticipate negate perché il presidente Mattarella non ha concesso l’interruzione della legislatura dopo la batosta referendaria.
Come è evidente si tratta di armi ormai spuntate, del resto non potrebbe essere diversamente, la botta micidiale subita da chi si era messo da solo il cappello del grande leader europeo, può annebbiare la vista. Così Renzi chiama tutto il partito all’opposizione perché, dice, con i 5Stelle non ci può essere accordo su nulla.
Ma quando elenca i punti salienti su cui giocarsi la rivincita cita “i valori” (forse immaginando l’uguaglianza declinata da Marchionne), “la democrazia interna” (magari testimoniata dall’uomo solo al comando), i vaccini (praticamente Lorenzin santa subito), l’Europa (ovvero i salti mortali di Padoan per coprire i bonus e il pugno di Minniti contro i migranti).
Ma bisogna essere fiduciosi perché il «futuro prima o poi torna», riflette l’ex segretario, e procedendo verso questo sol dell’avvenire non si fa neppure scrupolo di chiamare in causa un ragazzo malato di Sla che lo esorta ad andare avanti e a ritirare le dimissioni.
Il senatore di Firenze lo vuole rassicurare «io non mollo». Vista la situazione drammatica, più che una promessa sembra una minaccia.
il manifesto 13.3.18
Renzi, l’autocritica per gli altri e la minaccia: tornerò
di A. Fab.
Va via ma già annuncia che tornerà. Che ci proverà. Da qualche parte. L’annuncia con la stessa frase con cui, dopo la sconfitta nel referendum del 2016, annunciò la ripartenza dal blog: «Il futuro prima o poi arriva». Quel blog Matteo Renzi lo ha poi chiuso. E la guida del Pd l’ha lasciata, l’anno scorso, solo per due mesi. Stavolta durerà di più, o per sempre. Ma una cosa è identica: il segretario sconfitto evita di discutere della sconfitta. La sua lettera di dimissioni è una «presa d’atto dei risultati elettorali». Un po’ di analisi del voto Renzi la riserva al Corriere della Sera: trova colpe negli altri, soprattutto. Gli altri nel frattempo discutono in una direzione che, per la prima volta senza di lui, va avanti per ore.
Le colpe degli altri, naturalmente, prevedono la retorica «assunzione di responsabilità». Ma intanto: è stato sbagliato non votare l’anno scorso, e Renzi avrebbe voluto farlo. Sbagliato «il dibattito interno logorante». Sbagliata la «prudenza», e lui certo prudente non è mai stato. Non è difficile riconoscere il profilo di qualche nemico interno: «Alcuni nostri candidati non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd, ma solo sulla loro persona». Ce l’ha con Gentiloni, che nel collegio uninominale di Roma ha chiesto e ottenuto tanti voti (il 16% abbiamo calcolato) solo sul suo nome (la gran parte di quei voti sono andati comunque al Pd). «Vedo qualche fenomeno spiegare che abbiamo sbagliato tutto ma nelle regioni dove governano loro il Pd è andato peggio della media», e qui ce l’ha sicuramente con Emiliano per la Puglia, probabilmente anche con De Luca, lesto a riposizionarsi, in Campania. Potrebbe avercela anche con Zingaretti nel Lazio, anche se nel complesso della regione il Pd sta sulla media nazionale. Non può avercela invece con Chiamparino, che adesso lo critica, solo perché in Piemonte il Pd ha fatto meglio della media nazionale. Ma la stizza è generalizzata: «La viltà di oggi fa il paio con la piaggeria di ieri», dice al Corriere. Sferza gli «opportunisti» e i «mediocri», e qui ce l’ha con tanti. Che si guardano bene dal replicare e anzi votano una documento che «ringrazia il segretario» per il «lavoro», l’«impegno» e la «determinazione».
Che ci sia rabbia al momento delle dimissioni è inevitabile, è sempre stato così per l’addio dei segretari del Pd. Veltroni il 17 febbraio 2009 si dimise – dopo la sconfitta alle regionali in Sardegna – citando Nanni Moretti: «Mi assumo le responsabilità mie e non, basta farsi del male», disse davanti al coordinamento del partito. «In questo partito c’è una pulsione a distruggere senza rimedio, uno su quattro tra voi mi ha tradito», disse Bersani dimettendosi il il 19 aprile 2013 davanti all’assemblea dei parlamentari del Pd, che aveva appena affondato la candidatura di Romano Prodi al Quirinale.
Nessuno si è dimesso in contumacia. E nessuno, andandosene, ha detto come Renzi ieri «non mollo». Un po’ per abitudine lessicale, non è gergo di sinistra e nemmeno democratico, un po’ per stile: Renzi invece pubblica la lettera di un giovane malato di Sla che lo invita, appunto, a «non mollare».
Non mollando, si concede orizzonti lunghi. Cita la riforma costituzionale cinese, quella che consentirà al segretario generale del partito di restare alla guida del paese anche dopo la scadenza del secondo quinquennio. «Ho avuto il privilegio di conoscere Xi Jinping in più di una circostanza. Quello che sta accadendo in Cina è molto interessante: nella visione istituzionale di quel paese non bastano più dieci anni per affermare una visione di lungo periodo», scrive Renzi. E Andrea Orlando lo accusa appunto di «strategie cinesi»: «Pensa di fare come Mao, defilarsi per sparare sul quartier generale». Ha già cominciato a farlo.
Il Fatto 13.3.18
L’eterna resurrezione di Renzi, ex leader prigioniero di se stesso
di Antonio Padellaro
Se Matteo Renzi non fosse Matteo Renzi, farebbe come Giulio Andreotti che ogni volta che lo facevano fuori da Palazzo Chigi, o lo emarginavano dalla Dc, scompariva alle viste, s’inabissava, staccava i telefoni, si ritagliava un incarico in qualche commissione parlamentare, viaggiava per il mondo, aggiornava l’archivio a futura memoria (a questo Matteo forse già provvede), scriveva libri di scarso successo (in questo è identico), con qualche utile puntatina palermitana dai cugini Salvo (questo meglio evitarlo). Per poi riapparire rigenerato alla guida di qualche governo o ministero, più pimpante che pria.
Del resto, se Matteo Renzi non fosse stato Matteo Renzi, dopo la legnata del referendum costituzionale avrebbe mantenuto la solenne promessa di ritirarsi dalla vita politica (se non per sempre almeno per farsi dimenticare un po’). Così forse avrebbe avuto modo e tempo di tenere d’occhio babbo Tiziano richiamandolo ai doveri di nonno e impedendogli di inguaiarlo con i suoi traffici Consip. Forse, nel frattempo, avrebbe potuto migliorare il suo atroce inglese, stile polizia der kansassity… orrait orrait… awanagana. Per forse praticare meno da schifo il tennis “ricominciando dai fondamentali” (il triste instagram della racchetta appoggiata sulla rete). Forse anche, chissà, la sera del 4 marzo giocando a scopetta nel bar di Rignano sull’Arno, davanti al 18 per cento del Pd avrebbe potuto ridersela addossando tutte le colpe della catastrofe (cosa che meglio gli riesce) a quei bischeri lasciati al Nazareno. Per potersi illudere che magari, chissà, lo avrebbero implorato di tornare, come un Cincinnato 2.0. Tanto, peggio di così…
Siccome, però, Matteo Renzi è, sarà e resterà sempre Matteo Renzi, egli annuncia che lascia la segreteria del Pd (“mi dimetto”) e però resta (“ma non mollo”). Oppure, se ne va restando. Oppure, resta andandosene. O si regolerà a giorni alterni o come si sveglia la mattina. A somiglianza di qualcuno, molto ma molto più in alto (il suo ego, si sa, non conosce limiti e siamo sotto Pasqua) che disse ai discepoli: “Un poco e non mi vedrete, un poco ancora e mi vedrete” (Giovanni 16, 16-20). Lasciandoli come è noto nella melma più completa. Al Pd non lo vedranno eppure lo vedranno eccome poiché da “semplice senatore” terrà sotto controllo, e da vicino, i tanti parlamentari che gli sono debitori dell’elezione. Così come da “semplice membro della direzione” avrà i numeri per tumulare il partito all’opposizione. Del resto, questa è la mia natura, come disse lo scorpione alla rana prima di pungerla a morte e annegare insieme. Scomparirà (ma apparirà) sperando che intanto gli odiati Cinque Stelle si suicidino in una qualche forma strampalata di governo con la Lega di Matteo Salvini. Non ci sarà ma ci sarà per saldare i conti con coloro, uno per uno, la cui “viltà di oggi fa il paio con la piaggeria di ieri”. Perché potrebbe persino rinunciare a una poltrona, mai e poi mai alla eccitante dose quotidiana di tweet e facebook, ai titoli sui giornali, alle comparsate televisive, alla dimensione virtuale di chi non si accontenta della vita reale perché pensa di volteggiare sempre sulla ruota della fortuna. Perché a 43 anni, onestamente, uno come lui come potrebbe sopravvivere tornando a fare un lavoro qualunque o giocando a scopetta nel bar di Rignano? E poi, diciamolo, noi del Fatto, senza di lui, come potremmo vivere?
il manifesto 13.3.18
Il nuovo PdR senza appeal né autocritica
Pd. La legge elettorale vigente, con le liste bloccate e il voto congiunto, favorirebbe ancora la pulizia etnica sulle candidature in chiave renziana, Alla fine, una riduzione nei numeri assoluti potrebbe essere l’esito anticipato e coerente della nascita del Partito di Renzi
di Massimo Villone
Dalla direzione Pd nulla viene che non si sapesse già. Governi chi ha vinto, nessuna compromissione, l’unica via è l’opposizione. Ma non pochi sono in ambasce, e li capiamo. È dura essere un partito non più di lotta e nemmeno di governo.
Come spesso accade, nell’ufficialità dei dibattiti i temi veri rimangano sotto il tappeto. Così è per quello su cui i rumors sono fitti: nascerà con Renzi un nuovo partito, alla Macron?
A prima vista, può sembrare un paradosso. Che senso avrebbe mai il nuovo partito? A chi si rivolgerebbe, con quale progetto politico? Certo, non potrebbe avere una proposta sostanzialmente diversa da quella forgiata da Renzi come segretario e presidente del consiglio. Ma se il PdR (partito di Renzi) avesse avuto appeal, il disastro del 4 marzo non ci sarebbe stato. E allora? Ovviamente, sarebbe anzitutto soddisfatta la voglia di potere personale dello scout di Rignano, bene sintetizzata nella frase «vado via ma non mollo». A cosa rimane attaccato? Ma in realtà la mossa potrebbe rientrare in un disegno politico di più vasta portata, in uno di due scenari.
Il primo: mettere il PdR al centro di un nuovo bipolarismo, fondato sul centrodestra da un lato e M5S dall’altro, nella posizione di ago della bilancia che la frammentata galassia di centro per lungo tempo ha cercato di conquistare, fallendo per la insufficiente massa critica. Questo scenario dà per acquisito M5S come una realtà essenzialmente consolidata, capace di drenare in ampia misura il voto di sinistra, con pochi residui. In fondo, proprio questo è accaduto il 4 marzo.
Il secondo: puntare a una joint venture con pezzi del centrodestra (la parte berlusconiana) per un remake dell’antica centralità democristiana e del partito della nazione già favoleggiato in una fase precedente. Questo presupporrebbe una maggiore fragilità di M5S, e una capacità del nuovo Pd di cannibalizzare in parte il movimento, riappropriandosi in più o meno larga misura dei voti trasmigrati verso quella sponda.
E la sinistra? In entrambi gli scenari verrebbe spinta verso l’irrilevanza politica, o perché sostanzialmente assorbita nel M5S, o perché consegnata al non voto, o infine perché dissolta in un pulviscolo di micro-soggetti al più capaci di sopravvivere in qualche realtà locale, ma irrilevanti nella politica nazionale.
Fantapolitica? Può darsi. Ma gli scenari descritti sono coerenti con il contesto e i comportamenti messi in atto. Sono anzitutto coerenti con quello che è oggi il Pd, partito non più di militanza e di radicamento territoriale, ma essenzialmente di amministratori e di eletti. Come tale, più disponibile ad evoluzioni spregiudicate sulla scacchiera delle alleanze. Sono coerenti con l’argine alzato verso il supporto a un esecutivo di altri, in qualsiasi forma. È una posizione che oggettivamene spinge verso nuove elezioni a breve, che nell’opinione generale potrebbero solo fare ulteriore danno al Pd, colpito dall’accusa di privilegiare il proprio interesse di parte su quello del paese. Ma è una linea che i rapporti di forza negli organi dirigenti e nei gruppi parlamentari Pd – favorevoli a Renzi, salvo ravvedimenti operosi – rendono possibile. La legge elettorale vigente, con le liste bloccate e il voto congiunto, favorirebbe ancora la pulizia etnica sulle candidature in chiave renziana. Alla fine, una riduzione nei numeri assoluti potrebbe essere l’esito anticipato e coerente della nascita di un nuovo PdR.
Soprattutto, gli scenari ipotizzati sono coerenti con il costante rifiuto di ripensare il renzismo. Una approfondita autocritica potrebbe forse – se la mutazione genetica non è già irreversibile – riportare il Pd sulla via di una sinistra moderna, capace di rispondere ai problemi posti dalla crescita esponenziale delle diseguaglianze, della precarietà, della povertà, della tensione crescente tra il nord e il sud del mondo. Ma di autocritica non v’è traccia nel pensiero di Renzi. Anzi, ci comunica di non avere sbagliato nulla, che tutto nasce dal referendum, e che gli oppositori dovrebbero genuflettersi e chiedere perdono per i loro peccati.
È vero. Renzi ha preso un primo ceffone nel referendum costituzionale, e un secondo nel voto del 4 marzo 2018. Ma questo significa solo che ha un pessimo rapporto col popolo sovrano. Qualcuno dovrebbe dirgli che in democrazia è l’unico peccato per cui non v’è alcuna assoluzione.
Il Fatto 13.3.18
Cercasi Costantino: smarrito in tv l’ultrà di Matteo
di Andrea Scanzi
Notizie di Costantino della Gherardesca ne abbiamo? Per gli ultrà renziani son tempi tristi e qualcuno è già lì a ricollocarsi. Forse anche lui. Alla Leopolda 2016, garrulo come non mai, sentenziò al popolo: “Io voterò sì al referendum del 4 dicembre 2016”. Uomo orgogliosamente privo di doti apparenti, Costantino della Gherardesca è reduce dalla distruzione di svariati programmi su Rai2: Secondo Costa, Bangkok Addicted, Le spose di Costantino. Un bel trittico di disastri totali. Per questo – per premiarlo – RaiDue gli ha affidato la conduzione della nuova edizione di The Voice: un altro bell’esempio di meritocrazia al potere, o se preferite di masochismo del servizio pubblico. Le spose di Costantino è stato uno dei più grandi disastri di sempre, persino peggiore del mitologico Ora ci tocca anche Sgarbi su RaiUno. Un troiaio che ne bastava anche solo la metà, share sotto il 3% e chiusura ignominiosa: daje. Lungi dall’ammettere la propria impalpabilità commerciale, Costantino disse a Libero che il programma non era nato per gli ascolti ma per divulgare: può anche essere, ma divulgare cosa? L’orrore? La mestizia? L’apocalisse? Boh. Non male anche Secondo Costa (si notino i nomi vagamente autoreferenziali dei programmi, neanche fosse Kant o Marcuse). “Costa”, in quel caso, intendeva affrontare i grandi temi della vita: e sticazzi. Una puntata – su RaiDue, mica su TeleFava – narrava l’avvincente colonscopia subita dal nostro eroe, accompagnato da una misericordiosa Victoria Cabello che gli teneva la mano prima che esso si consegnasse alla mattanza rettale. Bei momenti.
Prima delle ultime elezioni, il discendente del Conte Ugolino (che già aveva avuto i suoi guai pure da vivo) aveva accusato di “squallore” Selvaggia Lucarelli, rea di avere scritto che suo padre ottantenne aveva ritrovato l’entusiasmo politico con i 5Stelle: “Il problema non è il degrado, il dumbing down, la politica, il populismo. È lo squallore”. L’uomo, che per inciso non sa minimamente cosa sia il “dumbing down” e per questo ne parla, è invece emblema di garbo e candor. Mica come il padre zozzone della Lucarelli. Leggiamone un tweet del 2016: “Sono disposto a ingrassare un chilo per ogni parlamentare grillino morto”. Poi l’ha cancellato, non prima però che tutti lo leggessero (compresa la Rai, che però non ha fatto un plissé) e che lui nel dubbio ingrassasse come se nel frattempo Mengele avesse effettivamente sterminato tutta la milizia grillina. Poi è dimagrito e ci ha tenuto a raccontarne gli stenti a Vanity Fair: “Negli ultimi tre anni, ho avuto solo amanti che ho reso insoddisfatti. Ho un calo del testosterone precoce dovuto a antidepressivi e psicofarmaci presi per combattere l’agorafobia. E hanno influito la grassezza e la mancanza di esercizio fisico”. Notizie che ti segnano: quando scopri che Costantino ha problemi d’impotenza, poi non sei più lo stesso. Scoperto da Chiambretti, dove esaltava le masse incarnando Maga Maghella, e apprezzato mattatore di Pechino Express, Costantino ha scritto anche un libro. L’esito commerciale, nonostante i lanci di Dagospia (con cui ha collaborato) e l’appoggio di una stampa renzusconiana compiacente, è stato pure qui stitico. Nell’irrinunciabile testo, Costa dispensava peraltro lezioni di estetica, che è un po’ come se Orfini desse lezioni di burlesque. Un tipetto così, come ultrà renziano, era perfetto: spiace vederlo smarrito. L’uomo è però attrezzato per trovare, più prima che poi, un altro carro del vincitore. Fosse anche quello grillino o magari leghista: tutto, pur di apparire. Riempiendoci ogni volta di nulla.
La Stampa 13.3.18
La tenaglia che stringe i Democratici
di Federico Geremicca
Che cosa farà il Pd di fronte al deserto di possibili maggioranze di governo? E cosa farà Matteo Renzi? Sono questi gli interrogativi che ieri hanno preceduto e accompagnato l’attesa Direzione dei democratici. E già il fatto che gli interrogativi fossero due - quasi che Renzi e il Pd apparissero agli occhi di molti come entità ormai separate, due cose diverse, insomma - ecco, già questo dice molto della delicatezza del momento.
A queste domande - e prima ancora della conclusione della Direzione - osservatori e dirigenti hanno dato e danno risposte diverse. E se è vero che ci vorranno ancora settimane perché il quadro si definisca a sufficienza, le opinioni prevalenti - per ora - paiono andare in direzione diversa da quanto ci si affanna a sostenere in note, documenti e dichiarazioni ufficiali.
In sintesi: il Pd, alla fine, sarà costretto a cedere agli appelli di Sergio Mattarella e ad entrare in una qualche (quale?) maggioranza di governo.
Quanto a Renzi, i pronostici sono più confusi, ma nessuno crede davvero alla parabola del «senatore semplice»: dentro o fuori del Partito democratico - è la previsione - l’ex segretario resterà in campo. E naturalmente non sfugge a nessuno l’abisso che separa quel «dentro» da quel «fuori».
Ma in queste ore è soprattutto un altro «o dentro o fuori» a far fibrillare il Pd: e cioè l’ipotesi di far parte di una qualche maggioranza di governo. Nel suo passo d’addio Renzi era stato chiaro: mai al governo con Lega o Cinque Stelle, gli elettori ci hanno messo all’opposizione e lì resteremo. La linea pare condivisa dalla maggioranza del partito, ma nessun se la sente di giurare che sia destinata a resistere in caso di paralisi prolungata. A remare contro, infatti, ci sono molti distinguo e - soprattutto - una storia antica di «responsabilità politica» sulla quale il presidente Mattarella ha cominciato a insistere ormai quotidianamente.
Una storia che cominciò con le larghe intese presiedute da Andreotti, riprese con Ciampi - anche se brevemente - negli anni di Tangentopoli, continuò con Lamberto Dini all’alba della Seconda Repubblica e fece con Mario Monti - ormai quasi sette anni fa - la sua ultima comparsa. Insomma, una costante - quella delle larghe coalizioni - utilizzata per fronteggiare ogni tipo di emergenza. Perché, dunque, stavolta no? E visti i numerosi e significativi precedenti, come motivare il «no» ai sempre più preoccupati appelli del Capo dello Stato?
Per il Pd, una tenaglia dalla quale non sarà facile uscire: da una parte - infatti - i richiami al senso di responsabilità nazionale, dall’altra la volontà - dopo la sconfitta elettorale - di avviare un percorso di ricostruzione che è certo più semplice cominciare dall’opposizione. Ma anche Matteo Renzi è di fronte ad un bivio decisivo per il suo futuro: restare nel Pd (come continua ad assicurare) aspettando il tempo di una possibile rivincita oppure scartare e dire addio al partito, magari in ragione di una scelta che cambi la sua indicazione di restar fuori da qualunque governo?
È chiaro che, al di là delle necessarie discussioni sui tempi e i modi di elezione del futuro segretario e di quanta collegialità farà uso Martina nel suo traghettamento, quel che importa maggiormente al Paese è sapere se il Pd favorirà o meno la nascita di un governo. Ieri la Direzione ha approvato - con una inedita e larga maggioranza (solo 7 astenuti, vicini ad Emiliano) - una linea che conferma l’intenzione di stare all’opposizione e che assegna all’Assemblea nazionale il compito di eleggere un nuovo segretario. Ma fissata la rotta, sono cominciati i distinguo: opposizione sì ma senza aventini, linea netta e dura ma senza dimenticare le responsabilità verso il Paese.
È la conferma che tutto è in vorticoso movimento e che le scelte politiche (sul governo) e quelle per il rilancio e la ricostruzione del Partito sono pericolosamente intrecciate e capaci di influenzarsi a vicenda. Cosa che, in tutta evidenza, rischia di complicare ulteriormente il già difficile lavoro del Presidente della Repubblica.
La Stampa 13.3.18
“Renzismo sconfitto
Cuperlo: mai al governo con la destra
Non chiedo epurazioni ma serve una svolta”
di Francesca Schianchi
«Il renzismo è sconfitto», dichiara Gianni Cuperlo.
Ma gruppi dirigenti e parlamentari sono composti da molti fedelissimi dell’ex segretario: non pensa che il renzismo peserà ancora parecchio sulle scelte del partito?
«Non fa parte della mia cultura chiedere epurazioni: io chiedo una riflessione e una svolta. In questi anni, quello che è stato chiamato il “renzismo”, la combinazione della personalità e della politica di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente, è stato un disegno forte, che per una fase è prevalso, dentro e fuori il Pd. Ma il voto ha sancito in modo evidente la sua sconfitta. E sta qui il limite fondamentale delle dichiarazioni di Renzi in questi giorni: nel rimuovere ancora una volta la realtà per come si è manifestata. Le sue dimissioni sono un atto di responsabilità, ma il tema è cambiare una linea che si è rivelata perdente».
Ma, ripeto, essendo i renziani numerosi in tutti gli organi del partito, non c’è il rischio che quella svolta non arrivi?
«Non lo so, ma dopo il 4 marzo appellarsi solo agli equilibri usciti dal congresso, senza mettere al centro le ragioni della sconfitta, significa non aver nemmeno letto i risultati».
Come andranno scelti i capigruppo di Camera e Senato?
«Nella collegialità che ieri lo stesso Martina ha rivendicato».
Ci sarà un organismo collegiale ad affiancarlo?
«Lo spero nell’interesse del Pd. Questa idea che i caminetti siano il male assoluto si è risolta nella logica di un caminetto di fatto, ma depurato anche della sua dimensione pubblica. Un partito, soprattutto nei momenti di emergenza come questo, raccoglie le energie migliori, non arma rese dei conti ma si appella al suo pluralismo e costruisce quella collegialità che in precedenza è mancata».
Il nuovo segretario andrà scelto tra un mese in assemblea o bisognerà indire un nuovo congresso con primarie?
«Se domani o tra un mese torniamo nei circoli e diciamo “pronti che si ricomincia con gazebo, candidature e relativi eserciti” ci inseguono e a ragione. Al Pd serve una discussione profonda, che non si è voluta fare all’indomani del referendum. Dobbiamo leggere con altre lenti la società italiana, la crisi della sinistra in Europa. Sarà un percorso lungo e non facile ma da lì dobbiamo passare».
Chi sarà il candidato della minoranza?
«Non lo so e le dirò che in questo momento neppure mi interessa. Voglio capire se il Pd tornerà alla sua vocazione di perno di un campo più ampio e di un nuovo centrosinistra. Se chi si candiderà a guidarlo avrà la forza di proporre nuove categorie di comprensione della società, dell’economia, di democrazie oggi colpite nella loro tenuta in tutto l’Occidente. Pensare che arrivi uno vestito da Superman e risolva questi nodi dall’alto non è una speranza ma una sciocchezza».
Nel frattempo avete detto di voler stare all’opposizione. Come risponde a chi, come Berlusconi, vi invita a farvi carico della necessità che il Paese sia governato?
«Ci siamo fatti carico di questa necessità per cinque anni, ma ora il risultato del voto è inequivocabile. E con la destra non si può e non si deve governare, mai».
Eppure lei ha aperto a un governo di scopo, no?
«Di Maio e Salvini sono usciti vincitori dalle urne ma senza numeri pieni per governare: avanzino le loro proposte e tutti dovranno valutare. Penso che il Pd non debba fare da stampella a nessuno. Se alla fine di queste verifiche il Paese fosse paralizzato, allora si dovranno valutare le eventuali proposte del capo dello Stato, compreso un governo di scopo aperto a tutte le forze politiche che affronti poche questioni e restituisca in tempi ragionevoli la parola agli elettori».
La Stampa 13.3.18
Vince in centro, perde in periferia
Così è diventato il «partito delle Ztl»
di Davide Lessi
Qualcuno ieri l’ha ribattezzato PdZ, ovvero «il Partito delle Ztl». E a guardare la piattaforma interattiva, in collaborazione con la Fondazione Isi, pubblicata ieri sul sito de La Stampa, pare proprio così. A Torino centro il Pd raccoglie il 28,5% (sopra al M5S di più di dieci punti). Stessa storia, certifica YouTrend, nel collegio centrale di Milano dove con il 28,9% il Pd più che doppia i pentastellati. E anche nel cuore della Roma grillina i dem sono primo partito. «Il Pd sembra sempre più un partito borghese votato dai benestanti», scrive l’analista Andrea Maccagno mettendo in relazione due mappe. Da un lato quella del voto al centrosinistra nelle Capitale, dall’altra quella del reddito: sale l’imponibile, crescono i consensi ai democratici. Oltre a centro-periferia, l’altra rottura è tra città e campagna: nei piccoli Comuni fino ai 25 mila abitanti è il centrodestra a primeggiare, tra i 25 mila e 100 mila va meglio il M5S. Dai 100 mila in su, però, il voto al centrosinistra aumenta, oltre il 22,9% della media nazionale. «Così - conclude Maccagno - il Partito democratico italiano ricorda sempre più quello statunitense: forte nelle zone con un alto tasso di istruzione e di imponibile medio, debole nelle zone rurali e più povere del Paese».
Repubblica 13.3.18
La parità uomo-donna dimenticata dalla sinistra
di Michela Marzano
La parità uomo-donna è ancora molto lontana in Italia, e la politica non aiuta nemmeno quando ci si proclama di sinistra, anzi.
Nonostante il nuovo Parlamento sia il più “rosa” della storia repubblicana con il 34% di deputate e senatrici, ci sono più donne elette nel M5S e in Fi di quante non ce ne siano nel Pd o in Leu, facendo sorgere il sospetto che il principio di uguaglianza piaccia molto quando si tratta di rivendicarlo, ma resti poi lettera morta quando si passa dalla teoria alla pratica. Certo, la nuova legge elettorale prevedeva nelle liste l’alternanza di genere. Ma è stato facile aggirare l’ostacolo con lo stratagemma delle pluricandidature femminili: mettendo le stesse donne capolista in più collegi, una volta avuti i risultati e scelto il collegio in cui farsi eleggere, sono stati tanti i posti che si sono liberati per i maschi. Per non parlare poi della situazione ai vertici del Pd: gli unici nomi che circolano in questi giorni per la segreteria sono maschili.
E le donne? Mancano le competenze? Manca la voglia?
Manca il desiderio? Niente affatto, se ci si pone dal punto di vista femminile. Che rimane però marginale, come se gli uomini non ce la facessero proprio a dare spazio alle donne, permettendo loro di esistere indipendentemente da loro. Come dimenticare le interminabili discussioni all’interno del Pd durante la scorsa legislatura quando si trattava di dare via libera alla legge sul doppio cognome? Le obiezioni maggiori non venivano proprio dai “compagni” che penavano ad ammettere che il “nome del padre” non fosse di per sé più degno, o simbolicamente più efficace, di quello della madre?
La sinistra ha ancora molta strada da fare. C’è bisogno di una maggiore consapevolezza da parte delle donne delle proprie capacità e competenze.
C’è bisogno di più coraggio da parte di coloro che, prestandosi ai giochi di potere maschili, portano pregiudizio non solo a se stesse, ma anche a tutte le donne che dovrebbero essere da loro rappresentate. Ma c’è pure bisogno che gli uomini accettino di rimettersi in discussione. Le donne non hanno bisogno di elemosina. Ce ne sono molte che hanno già mostrato di essere capaci (o incapaci) almeno quanto gli uomini. E poi, il problema dell’uguaglianza uomo-donna non sarà definitivamente risolto solo quando si vedrà «una donna incompetente occupare un posto di responsabilità», come disse un giorno provocatoriamente Françoise Giroud, famosa in Francia per essere stata la prima donna a occupare il posto di Ministro delle pari opportunità negli anni Settanta?
Il Fatto 13.3.18
In Europa prove dell’asse 5 Stelle-sinistra
Bruxelles - La compatibilità maggiore con Tsipras, molto più feeling con i dem che con la Lega
di Ste. Fel.
I Cinque Stelle sono più compatibili con il centrosinistra del Pd e di LeU o con la destra della Lega? In attesa di sciogliere lo stallo che paralizza i partiti italiani dopo il voto del 4 marzo si può cercare una risposta a questa domanda nel Parlamento europeo. Il miglior partner per il Movimento, nell’aula di Strasburgo e Bruxelles, è la sinistra di “L’Altra Europa con Tsipras”, hanno votato allo stesso modo nel 74 per cento dei casi, anche se stanno in due gruppi parlamentari diversi (M5S in Efdd, lista Tsipras in Gue), secondo i dati dell’osservatorio VoteWatch. La compatibilità con il Pd è molto minore, 58 per cento, ma comunque superiore a quella con la Lega di Matteo Salvini (50 per cento) e con Forza Italia (41 per cento).
Se si guarda a come vota di solito il Pd, si ha la conferma che Matteo Renzi avrebbe preferito una grande coalizione con Silvio Berlusconi: mentre la sintonia con il M5S si verifica, come detto, nel 58 per cento dei casi, quella tra europarlamentari dem e colleghi di Forza Italia è del 74 per cento (ma soltanto del 36 per cento con i leghisti).
Se si guarda la questione da un’altra prospettiva, quella di Salvini, si capisce però che non è tutto così semplice: per la Lega in Europa i Cinque Stelle sono il partito con cui c’è maggiore sintonia – 50 per cento – mentre i voti uguali a Forza Italia sono soltanto il 36 per cento, idem quelli con il Pd. Va ricordato che sia M5S che Lega sono all’opposizione nell’Europarlamento, ma in due gruppi con posizioni diverse. I Cinque Stelle sono nel gruppo Efdd, euro-scettico ma non anti-sistema, la Lega invece è inquadrata nel Gruppo Europa nazioni e libertà che raccoglie i partiti più anti-europei come il Front National francese, Alternativa per la Germania o il belga Vlaams Belang. A gennaio 2017 i Cinque Stelle avevano provato a spostarsi da Efdd verso Alde, i super-europeisti di Guy Verhofstadt, che però li hanno respinti, sia perché temevano che la corposa delegazione italiana turbasse gli equilibri, sia per un regolamento di conti interno che è costato a Verhofstadt ogni possibilità di diventare presidente del Parlamento europeo. All’epoca sempre VoteWatch aveva osservato che c’era un’identità di voto tra la delegazione M5S e l’europista Alde nel 50,3 per cento dei casi, mentre la percentuale scendeva a 27,1 con lo Ukip, gli indipendentisti inglesi che erano parte di Efdd di come M5S.
Negli anni la rappresentanza europea dei Cinque Stelle si è trovata più sbilanciata a sinistra anche per le defezioni. Se ne è andato pochi giorni prima dell’elezioni italiane David Borrelli, che per M5S ha gestito partite importanti e che era considerato un centrista, dialogante sia con S&D (il gruppo socialista cui appartiene il Pd) e il Ppe (che include Forza Italia). Era stato lui il regista del fallito passaggio ad Alde. Ma ha lasciato anche l’euro-critico più acceso Marco Zanni, ora in Efn con Salvini, e Marco Affronte, passato tra i verdi. Tra i sopravvissuti molti si sono schierati sul fronte progressista, soprattutto sui temi sociali, come Rosa D’Amato o Piernicola Pedicini. Anche Laura Ferrara è sempre stata considerata un’interlocutrice dalla sinistra sui temi sociali e soprattutto sull’immigrazione. Ma poi si è opposta alla riforma del trattato di Dublino, quello che impone al Paese di arrivo di farsi carico della prima accoglienza dei richiedenti asilo. Per la sinistra di Gue era comunque un passo avanti, per la Ferrara era una “presa in giro degli italiani” perché non c’è alcun meccanismo di ricollocamento automatico e obbligatori dei migranti da gestire.
Non tutti, tra i Cinque Stelle europei, però, si sentono e sono considerati prossimi alla sinistra. Marco Valli, per esempio, rimane espressione di quelle spinte euro-critiche e sovraniste che pure sono parte del mondo Cinque Stelle, e così Tiziana Beghin, che ha guidato le battaglie contro il Ttip, il trattato tra Ue e Usa ora congelato. È vero che i Cinque Stelle hanno votato il 58 per cento delle volte come il Pd. Ma questo significa che nel 42 per cento dei casi, che non è poco, hanno scelto la posizione opposta.
Corriere 13.3.18
Il paese diviso
Uno sforzo per ridurre i veleni reciproci
di Valerio Onida
Caro direttore, in questi giorni post elettorali si moltiplicano le analisi sulla situazione di «stallo» in cui sembra trovarsi il sistema politico italiano. Sembra quasi che le preoccupazioni riguardino, più che il contenuto delle politiche da adottare, la difficoltà o addirittura l’impossibilità di dare vita a una qualsiasi maggioranza a sostegno di un governo.
I risultati delle elezioni mostrano un Parlamento e un Paese divisi in tre «fette» non uguali, ma tutte inferiori al 50 per cento, con una rappresentanza, per di più, che riflette, in prevalenza, tre diverse aree territoriali.
Un Paese diviso, dunque, anche geograficamente. Forse per ritrovare la «fotografia» di una analoga netta divisione territoriale espressa nel voto — in quel caso solo in due parti — dobbiamo risalire addirittura al referendum istituzionale del 1946, in cui tutto il Centro-Nord votò in maggioranza per la Repubblica, tutto il Centro-Sud, da Roma in giù, votò in maggioranza per la Monarchia. A sua volta l’Assemblea Costituente, eletta contemporaneamente, vedeva al suo interno tre gruppi maggiori (Dc, Psi e Pci), nessuno dei quali, e nessuno dei due blocchi in cui essi potevano essere distinti (Dc e sinistre), aveva da solo la maggioranza. Ma la Repubblica, nata dal referendum, si consolidò come Repubblica di tutti gli italiani (come apparve in modo anche simbolicamente visibile quando l’Assemblea scelse come capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, napoletano e monarchico). A sua volta la Costituzione fu approvata in un contesto e in un clima che, nonostante le forti divisioni politiche fra i maggiori partiti, furono di unità nazionale.
Lungi da noi naturalmente l’idea di paragonare il prodotto costituente a quelli oggi richiesti alla politica e che la politica sembra in grado di dare. Anzi una delle ragioni che sconsigliano al momento di mettere mano a eventuali revisioni della Costituzione è proprio il clima politico conflittuale nel Paese. Per fortuna la Costituzione c’è, ed è, come è stato detto, lo strumento che un popolo si dà nel momento della saggezza a valere per il momento della confusione.
Ogni voto popolare esprime delle scelte: fra due sole alternative, nel caso del referendum, fra più alternative possibili, nel caso dell’elezione del Parlamento. Ma in una democrazia sana le scelte compiute non escludono che vi sia e che resti un terreno comune sul quale tutti o quasi tutti possono e debbono riconoscersi. Questo è anzitutto, ma non solo, il terreno della Costituzione.
Poi, in vista delle scelte politiche, di breve e di lungo periodo, si creano maggioranze e minoranze. Ora, se in un sistema bipartitico o almeno bipolare la maggioranza riflette normalmente la prevalenza nel voto di uno schieramento sull’altro, quando i poli sono più di due e nessuno di essi ottiene la maggioranza è indispensabile la convergenza di due o più di essi su un programma condiviso, che può essere più ampio o ristretto a pochi punti, più o meno proiettato avanti nel tempo. L’importante è che la convergenza non si cerchi su semplici prospettive di spartizione del potere, ma nasca dallo sforzo di individuare un denominatore comune, che rifletterà necessariamente solo in parte i desideri e i propositi di ciascuno dei protagonisti, ma consentirà comunque di dare vita a una azione di governo.
Nell’Italia di oggi, per di più, linee di divisione anche profonde passano non solo fra le forze politiche e le coalizioni che si sono affrontate nel voto, ma anche al loro interno: la «gara» fra Lega e Forza Italia ha costituito un elemento non secondario della competizione elettorale; a sinistra la divisione è stata più esplicita; lo stesso Movimento 5 Stelle appare lontano dal proporsi come una forza compatta rispetto alle scelte politiche più rilevanti da effettuare. Così che appare difficile anche individuare con chiarezza le distanze e le vicinanze rispettive di ognuno dei tre poli rispetto a ciascuno degli altri due. In queste condizioni sembrerebbe naturale che la ricerca dell’unità possibile sia effettuata a tutto campo, coinvolgendo tutti e tre i «poli» o almeno parti di essi. Un governo di «unità nazionale», come si diceva un tempo, dove però il termine «nazionale» non sta per nazionalista, bensì esprima un terreno sul quale ognuno dei tre possa ritrovare qualcosa che riconosce come proprio ma anche comune a tutti.
Di solito si pensa che siano le situazioni di emergenza (come le guerre) che consigliano governi di unità nazionale. Ma non è detto che l’Italia di oggi non richieda un analogo sforzo di ricerca di obiettivi, magari limitati ma precisi, che possano essere accettati come comuni, in attesa che si renda più chiaro agli italiani e agli stessi partiti su quali basi e su quali linee si possano delineare in futuro convergenze e divergenze. Se non altro con l’intento di ridurre il tasso di veleni reciproci che caratterizza oggi troppo spesso il modo e lo stile del confronto politico e di quello elettorale.
Corriere 13.3.18
Urne e cambiamento
Il voto del Sud è una ribellione da non leggere con superficialità
di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin
L’ Italia che traspare dal voto del 4 marzo è spaccata in due: Nord e Sud. Nella storia del nostro Paese una divisione così netta nelle preferenze politiche non si vedeva dai tempi del referendum sulla monarchia. Il voto al Sud è stato attribuito alla domanda di assistenzialismo e alla chiusura della società meridionale tipicamente avversa al cambiamento e alla globalizzazione. Si è anche detto che l’esito elettorale del nostro Mezzogiorno è simile a quello di altri Paesi europei dove la crisi ha minato la fiducia nei partiti tradizionali e premiato i partiti «antisistema».
Studi recenti hanno dimostrato che questa sfiducia è presente quando c’è un visibile peggioramento delle condizioni economiche. Ciò che sembra contare infatti è il cambiamento di Pil e disoccupazione, più che il loro livello. Effettivamente il voto nel nostro mezzogiorno sembra confermare questo dato: la crisi è arrivata dopo rispetto al resto del Paese e ha prodotto tassi di disoccupazione che sfiorano il 20 percento e in alcune regioni il 60 per quella giovanile.
Ma queste similitudini non raccontano tutta la storia. Il caso del Sud d’Italia ha specificità proprie. Per esempio, mentre nel resto dell’Europa l’effetto del calo di fiducia nei partiti tradizionali porta anche a una alta percentuale di astensionismo che mitiga il successo dei partiti antisistema, nel nostro Mezzogiorno l’affluenza è rimasta stabile, in controtendenza con il resto del Paese, premiando il partito antisistema con un voto trasversale che coinvolge tutti i settori della società e che quindi manda un messaggio forte, diremo quasi di rivolta.
Questo tsunami si può solo capire se si prende atto del fallimento delle politiche per il Sud portate avanti sia dalle élite locali che dai partiti nazionali. I meccanismi di distribuzione della spesa pubblica che passano attraverso la politica locale si sono prosciugati nel tempo erodendo l’aspetto clientelare del voto nel Mezzogiorno. Se prima la macchina politica e le élite locali potevano attingere con disinvoltura a una cassa per distribuire prebende e posti di lavoro, negli anni recenti vincoli e procedure di spesa (ad esempio quelli che passano dalla comunità europea) hanno ristretto la platea dei benificiari del sistema clientelare ma non si è costruito un piano B che potesse mobilitare le forze più dinamiche di queste regioni. La crisi ha fatto il resto.
Tutto ciò è avvenuto mentre, a livello nazionale, si sono rafforzate le misure di protezione a favore delle fasce più deboli. Pensiamo, per esempio, al reddito di inclusione ma anche al bonus degli 80 euro. Queste politiche sostengono il reddito in modo diffuso e centralizzato e tolgono quindi potere di spesa alle élite locali. Paradossalmente però, i partiti tradizionali che le hanno promosse adottando sistemi di welfare più evoluti — in questo caso il Partito democratico —, non ne traggono un beneficio elettorale. La ragione è che essi non sono in grado di trasmetterne le ragioni perché la loro struttura organizzativa si è praticamente dissolta ed è assente nel territorio. La mancanza di una presenza capillare, di un rapporto con i cittadini, che era stata la loro forza nella Prima Repubblica, li rende oggi incapaci di comunicare un messaggio quando c’è e di elaborarne uno nuovo convincente. Nella campagna elettorale di tutti i partiti è stata assente un’idea coerente su come risollevare le sorti di un’area del Paese che ha subito in modo drammatico gli effetti della crisi e che rischia di accentuare la sua divergenza con il Nord.
In questo vuoto si è scelto spesso quindi la strategia di candidare notabili locali, i «mister preferenze» perdendo così ogni legittimità. Ma questo non funziona più. Per via di questa mancanza di legittimità agli occhi degli elettori, i «mister preferenze», mentre sono stati in grado di «portare» voti nelle elezioni locali — ad esempio nelle elezioni regionali in Sicilia di pochi mesi fa —, hanno fallito in un contesto di elezione nazionale.
La società meridionale ha risposto con un messaggio forte. Logorata da un tasso di mobilità intergenerazionale estremamente basso, si è ribellata alle dinastie nelle posizioni chiave nelle istituzioni (università, professioni, sanità, politica). Quelle dinastie che hanno mal speso o non speso i fondi europei della coesione territoriale e che difendono da sempre privilegi acquisiti.
In questo contesto il M5S è l’unico partito che ha fatto uno sforzo di inclusione e selezionato i suoi rappresentanti (con metodi certamente discutibili) pescando in tutta la società. Questo ha trovato ascolto proprio perché l’ascensore sociale in questa parte del Paese funziona male con la conseguenza che la competenza dei candidati o la incoerenza delle politiche proposte dal M5S con i vincoli di bilancio diventano fattori secondari rispetto al valore simbolico che ha l’aprire le liste a chi è estraneo alle élite.
Rattrista vedere come il voto sia stato letto quasi ovunque in modo semplificato, come domanda di assistenzialismo o paura di cambiamento. Non semplifichiamo. La domanda di assistenzialismo nel Sud c’è sempre stata e sicuramente c’è ancora oggi, ma la società meridionale il 4 marzo ha detto qualcosa di più. Abbandonando i partiti tradizionali incapaci di rispondere ai suoi bisogni, ha espresso piuttosto una disponibilità a sperimentare qualcosa che non si conosce e che potrebbe essere migliore dello status quo. Il contrario di una avversione al rischio. Difficile non nutrire seri dubbi sulla capacità dei vincitori di rispondere a questa aspettativa, ma questa ribellione nell’arena politica nel mezzogiorno non si vedeva da tempo. Il messaggio va accolto e non banalizzato.
Corriere 13.3.18
Promesse e realtà
I 5 stelle alla prova dei fatti
di Gian Antonio Stella
Cosa faranno i grillini a Comitini? Nel piccolo comune agrigentino finito in prima pagina sul New York Times per la più alta percentuale planetaria di dipendenti municipali (uno ogni quattordici abitanti) e additato a ragione o a torto come borgo simbolo delle difficoltà economiche aggirate col clientelismo, il M5S non ha vinto ma trionfato: 55,6%. Otto punti in più di quelli dati alla destra alle regionali di novembre. E adesso? Cosa si aspettano da Luigi Di Maio gli elettori «viziati» dal sindaco-podestà Nino Contino che fra due mesi, a dispetto dei conti disastrosi della Sicilia, porterà una trentina di compaesani in crociera nel Mediterraneo e teorizza che i dipendenti pubblici non sono mai abbastanza perché «zucchero non guasta bevanda»? Certo, se un voto plebiscitario al MoVimento come quello del 4 marzo fosse stato dato nelle tante Comitini meridionali per dire basta a decenni di zuccherini abbinati a gestioni tanto scellerate da aggravare il divario Nord-Sud (vedi appunto la Sicilia passata da un nono del Pil italiano nel ‘51 a un diciannovesimo oggi) sarebbe una buona notizia. Ma i dubbi, col passare dei giorni e le diffuse richieste di moduli per avere il «reddito di cittadinanza» crescono: è così? Un bel problema, per chi ora è chiamato a rispondere di certe promesse. Tanto più se hai fatto tutta la campagna elettorale, come nel caso di Luigi Di Maio, rivendicando una superiorità morale su tutti gli altri politici: «Noi le promesse le rispettiamo».
C erto, gli stessi elettori sono meno rigidi rispetto alle pretese di purezza estrema e fedeltà assoluta ai dogmi di qualche anno fa. Vedi la svolta sulle Olimpiadi di Torino. O qualche elasticità in più, come dimostra la lista ufficiale dei ministri in pectore, nell’accettare persone fino a ieri estranee al movimento.
Un mese e mezzo fa Beppe Grillo chiudeva ancora a ogni apertura: «Alleanze con chi ci sta? Domanda senza senso. E come dire che un giorno un panda potrà mangiare carne cruda. Noi mangiamo solo cuore di bambù». Non più, se oggi dice che «la specie che sopravvive non è quella più forte, ma quella che si adatta meglio». Rivendica anzi: «Dentro siamo un po’ democristiani, un po’ di destra, un po’ di centro, un po’ di sinistra: possiamo adattarci a qualsiasi cosa».
Ma possono adattarsi gli altri, a partire dai democratici reduci dalla batosta? Cinque anni fa, a parti rovesciate, Pier Luigi Bersani e i suoi, protagonisti di una analoga «vittoria mutilata», furono liquidati nello sforzo di aprire ai grillini con un tweet del padre-padrone: «Qualora ci fosse un voto di fiducia dei gruppi parlamentari del M5S a chi ha distrutto l’Italia, serenamente, mi ritirerò dalla politica». Pochi minuti e secondo tweet: «Per quanto mi riguarda non ci sarà alcun referendum interno per chiedere l’appoggio al pdmenoelle o a un governo pseudo tecnico». Fine. Una rigidità bacchettata persino da Marco Travaglio: «Ha prevalso l’inesperienza, o la supponenza, o la paura di essere incastrati in giochi più grandi e inafferrabili».
I giochi, però, sono stavolta ancora più impegnativi. Proprio a causa di quelle promesse già analizzate e marchiate da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi come figlie di una campagna (vale anche per altri, a partire da Matteo Salvini) «piena di favole». Lo stop alla Fornero con lo sganciamento dell’età pensionabile regolata sulle aspettative di vita... La no tax area portata a 10.000 euro e molto più su per chi ha famigliari a carico... L’abbattimento spettacolare del 40% in soli dieci anni del debito pubblico... Il recupero «tagliando sprechi, privilegi e spese clientelari» di ben 50 miliardi e cioè una ventina più di quelli che sperava di recuperare Carlo Cottarelli col suo piano di spending review che Di Maio, bontà sua, giudica «un’ottima base di partenza» anche se lui punta a tagliare di più, di più, di più... E tutto, si capisce, senza toccare la sanità e i servizi sociali... Anzi: «Vogliamo aumentare le pensioni e tagliare solo quelle che superano i 5 mila euro netti». Tutto garantito in una lettera a La Stampa . Il giorno, coincidenza, della Befana.
La madre di tutte le promesse, però, resta l’impegno solenne del giovane «capo» del movimento: «nessuno dovrà vivere con meno di 780 euro al mese se è single e con meno di 1.638 euro se ha una famiglia con 2 figli. Grazie al nostro reddito di cittadinanza garantiremo da subito a tutti i cittadini in difficoltà di vivere dignitosamente, mentre si formano e cercano lavoro». Per «accompagnarli», ha spiegato, «in una fase di transizione che può durare qualche anno». Spesa totale: «17 miliardi». No: 29, stimano Massimo Baldini e Francesco Daveri su lavoce.info . No, dice il presidente dell’Inps Tito Boeri: «potrebbero arrivare a 44».
Certo, sulla carta ci saranno regole, anche macchinose, perché non finisca in una regalia. Ma il rischio concreto, scrive nel libro «Falso!» Roberto Perotti, «è che tutti questi passaggi diventino adempimenti puramente formali, senza alcun impatto effettivo». E finiscano sul serio per distribuire prebende a pioggia. Vecchia maniera. Lasciando il Sud così com’è.
I pentastellati sperano sul serio che i democratici, uscito di scena Matteo Renzi, possano imbarcarsi in un’impresa simile col rischio di venire poi accusati di essersi messi di traverso a una stagione luccicante di oro?
il manifesto 13.3.18
Italiani mai così poveri: 23 per cento a rischio, diseguaglianza al top
Indagine Bankitalia. Rapporto della Banca d'Italia: situazioni gravi soprattutto al Sud, tra i migranti e per i nuclei con capofamiglia più giovani
di Nina Valoti
Per avere la spiegazione dell’esito elettorale – soprattutto al Sud – basta leggere l’indagine di Banca d’Italia resa nota ieri. Nel 2016, infatti, le persone a rischio povertà sono aumentate al 23 per cento, il massimo storico mai toccato prima. Non solo, l’indice di Gini che misura la disuguaglianza è salito a 33,5 punti. Per trovare un livello simile, spiegano da via Nazionale, bisogna tornare indietro alla «seconda metà degli anni novanta».
I DATI ESCONO DA UNO STUDIO condotta dalla Bankitalia su oltre 7mila nuclei familiari nel 2016. E se, analizzando il reddito medio si scopre che è cresciuto del 3,5 per cento rispetto a quello dell’indagine precedente del 2014, dopo essere pressochè ininterrottamente caduto dal 2006, si scopre però che è rimasto tuttavia ancora inferiore dell’11 per cento rispetto al picco raggiunto in quell’anno.
PER «RISCHIO POVERTÀ» Bankitalia intende coloro che dispongono di un reddito equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano: soglia fissata a 830 euro al mese circa nel 2016). L’incidenza di questa condizione interessa soprattutto le famiglie giovani, del Mezzogiorno, o degli immigrati: nel caso di questi ultimi, ad esempio, sono a rischio povertà ben il 55 per cento degli individui (contro il 33,9 per cento nel 2006). Ma una crescita consistente si verifica anche al Nord del paese, con il rischio povertà passato dall’8,3 al 15 per cento degli individui. Negli ultimi 10 anni fino al 2016 tale rischio è diminuito solo tra le famiglie con capofamiglia pensionato o con oltre 65 anni.
QUANTO ALLA DISEGUAGLIANZA, si legge nell’Indagine sui bilanci delle famiglie, il 30 per cento più ricco detiene circa il 75 per cento del patrimonio netto complessivamente rilevato, con una ricchezza netta media di 510mila euro. Oltre il 40 per cento di questa quota è detenuta dal 5 per cento più ricco, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di euro.
La quota di ricchezza netta detenuta dal 30 per cento più povero delle famiglie italiana, invece – in media pari a circa 6.500 euro – è di appena l’un per cento del totale. Inoltre se il reddito ha smesso di cadere nel 2016, bisogna andare cauti anche su questo dato. Infatti, sottolinea palazzo Koch, «il reddito equivalente è ancora inferiore di 11 punti percentuali a quello registrato» nel 2006. Insomma resta ancora del lavoro da fare per ritornare ai livelli pre-crisi.
NEL 2016 IL REDDITO ANNUO familiare, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi sociali, è stato in media pari a circa 30.700 euro, contro i 30.600 euro nel 2014. Al netto della variazione dei prezzi è un valore che l’indagine definisce «sostanzialmente analogo» a quello di 2012 e 2014 «ma ancora inferiore di circa il 15 per cento a quello registrato nel 2006». Gli italiani si confermano proprietari di case e cauti sul ricorso ai finanziamenti. In Italia circa il 70 per cento delle famiglie è proprietaria dell’abitazione in cui risiede e alla fine del 2016 solo il 2 per cento delle famiglie possedeva immobili che non comprendevano l’abitazione principale. La quota di proprietari è però ancora diminuita tra le famiglie con capofamiglia fino a 45 anni dal 59 al 52 per cento tra il 2006 e il 2016. Da Palazzo Koch spiegano che tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta è diminuita, quasi interamente per effetto del calo del prezzo delle case.
LA QUOTA DI FAMIGLIE indebitate si è ridotta dal 23 al 21 per cento tra il 2014 e il 2016. Tra il 2006 e il 2016 il calo della quota di famiglie indebitate è stato più marcato (oltre 10 punti percentuali) per le famiglie con capofamiglia tra i 25 e i 45 anni, riflettendo soprattutto il minor ricorso al credito al consumo. Se uno su quattro erano a rischio di scivolare nella povertà nel 2016, un livello mai toccato, alcune categorie lo erano più di altre. Via Nazionale spiega che il rischio è più elevato per le famiglie con capofamiglia più giovane, meno istruito, nato all’estero, e per le famiglie residenti nel Mezzogiorno. Sembra proprio l’identikit di chi ha votato M5s.
TRA IL 2006 E IL 2016 infine la ricchezza netta delle famiglie è diminuita del 5 cento, quasi interamente per effetto del calo dei prezzi delle case, che costituiscono sempre il grosso del patrimonio degli italiani.
Corriere 13.3.18
«Famiglie, più disuguaglianze» Uno su quattro sotto gli 830 euro
Il rapporto Bankitalia: crescono poco i redditi, il rischio povertà. Giù l’indebitamento
di Mario Sensini
ROMA Cresce un po’ il reddito, diminuisce la ricchezza, calano i debiti, ma aumentano le diseguaglianze tra le famiglie italiane, con un peggioramento delle condizioni di vita dei giovani, degli immigrati e anche nel Nord del Paese. Un italiano su quattro, ormai, dice l’indagine della Banca d’Italia sulle famiglie, è a «rischio di povertà», cioè guadagna meno del 60% del reddito medio equivalente, salito nel 2016 a 18.600 euro (erano 18.500 nel 2014, anno della precedente indagine). Mentre il 44% della popolazione è in condizione di «povertà finanziaria», cioè non ha beni immediatamente liquidabili sufficienti in caso di necessità.
Nel 2016 il reddito medio delle famiglie è salito del 3,5% sul 2014, ma resta inferiore dell’11% ai massimi del 2006. Il miglioramento ha riguardato, però, soprattutto le famiglie con un capofamiglia lavoratore dipendente o pensionato, che sono anche riuscite ad accrescere i risparmi. Per le famiglie più giovani e quelle degli immigrati, invece, le condizioni peggiorano. Le persone che vivono in famiglie senza alcun percettore di reddito sono l’8,7% in Italia, ma raggiungono addirittura il 13,3% nel Sud del Paese. E i cittadini a rischio povertà, quelli che secondo le definizioni Eurostat possono contare su un reddito equivalente di meno di 830 euro mensili, sono arrivati al 23% (erano il 19,6% nel 2014), un livello molto alto.
Negli ultimi dieci anni l’indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentato di 1,5 punti, tornando ai livelli di fine anni 90. Le condizioni sono peggiorate soprattutto per le famiglie giovani, con un capofamiglia fino a 45 anni, per gli immigrati (uno su due oggi è a rischio povertà) e nel Nord (dove le famiglie a rischio passano dall’8,3 al 15%), ma restano pesanti al Sud, dove il 40% è a rischio di povertà.
Enormi differenze restano anche nella distribuzione della ricchezza. La concentrazione resta fortissima. La quota di ricchezza netta detenuta dal 5% delle famiglie più ricche è pari al 30% del totale. Mentre il 30% più povero delle famiglie possiede appena l’1% della ricchezza. Tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta è diminuita del 5% a prezzi costanti, e ha interessato tutte le famiglie.
L’84% delle famiglie, in aumento rispetto al 79% del 2012, possiede attività finanziarie, ma quasi mai sufficienti a far fronte a un momento di difficoltà economica. Il valore medio è di 33 mila euro (31 mila nel ‘14).
In compenso la quota di famiglie che hanno un debito è ancora diminuita, al 21%, rispetto al 23% di due anni prima. La riduzione, però, ha interessato quasi esclusivamente le famiglie con capofamiglia con oltre 45 anni, per il crollo che c’è stato nel credito al consumo. Il 70% delle famiglie italiane, spiega ancora l’indagine, ha un’abitazione e il 18% ne possiede più di una, mentre un quarto delle famiglie vive in affitto (a una media di 4 mila euro l’anno). Stabile al 17% la quota di famiglie che hanno un mutuo.
Repubblica 13.3.18
I dati della Banca d’Italia
Il fantasma della povertà
di Marco Ruffolo
Il segno più tangibile lasciato sul corpo della nostra società dalla più grave e lunga recessione del dopoguerra sta proprio in quel quarto di popolazione a rischio povertà che la Banca d’Italia ha rilevato nella sua indagine sui bilanci delle famiglie, quel 23% di individui costretto a vivere con meno di 830 euro al mese a testa. Erano il 19,6% nel 2006, prima che lo tsunami finanziario ed economico sconvolgesse l’Occidente intero. Quel poco che sono riuscite a fare le misure di redistribuzione avviate negli ultimi anni non ha purtroppo invertito la tendenza. Il macigno della povertà è rimasto intatto o è addirittura cresciuto, e con esso si è allargato il divario tra classi agiate e classi deboli. E se è vero che rispetto al 2014 il reddito medio delle famiglie è cresciuto del 3,5%, siamo ancora undici punti sotto i livelli pre-crisi.
Occupazione, produzione, fatturato, Pil: solo in piccola parte il segno “ più” davanti a tutte queste variabili, dopo anni di crolli, è stato percepito dalle famiglie italiane, ha cioè gonfiato i loro portafogli. Le statistiche favorevoli non hanno riequilibrato una bilancia sociale sempre più obliqua e pericolante. E questo coacervo di squilibri e disagi ha inevitabilmente pesato sugli esiti elettorali. È su di esso che ora si misura la capacità dei partiti, a cominciare dai vincenti, di rendere realistiche le loro promesse, di tradurre in misure finanziariamente compatibili gli impegni presi con gli elettori.
Il primo dilemma riguarda il reddito di cittadinanza, il vero cavallo di battaglia della campagna grillina. Sgomberato il campo da un equivoco lessicale sul quale i Cinquestelle hanno giocato non poco (non si tratta di un reddito per tutti i cittadini ma solo per disoccupati e individui sotto la soglia di povertà), il primo problema è quello dell’importo e dell’estensione di questa misura. E quindi del suo costo. Le stime oscillano tra i 15 e i 30 miliardi, circa dieci volte quanto lo Stato pagherà per il reddito di inclusione, introdotto dagli ultimi governi e già in vigore. Ora, che sia indispensabile rafforzare questo reddito, che copre circa metà dei 4,6 milioni di poveri, è del tutto evidente. Ma è altrettanto evidente che moltiplicare per dieci il relativo onere è operazione assolutamente impraticabile.
E tuttavia, non è solo una questione di costi. Anche nella proposta grillina, come nel reddito di inclusione, il sussidio è sulla carta condizionato all’accettazione di un percorso formativo e di inserimento al lavoro. Altrimenti, diventerebbe un sussidio vita natural durante. Il rispetto di queste condizioni, tuttavia, viene caricato sulle spalle dei Centri per l’impiego, organismi per lo più fallimentari (soprattutto al Sud), con pochi addetti, e soprattutto privi di quelle competenze e di quegli strumenti in grado di incrociare realmente domanda e offerta di lavoro. Per di più, dopo la bocciatura della riforma costituzionale, questi centri sono rimasti in capo alle Regioni, e ciò impedisce di realizzare una vera politica nazionale. Ovviamente, lo stesso problema si pone per il reddito di inclusione già in vigore, così come per qualunque altra proposta del genere.
C’è infine un ultimo nodo da sciogliere. Quel 23% medio di persone a rischio di povertà in Italia diventa il 30% tra gli under 45 e quasi il 40% al Sud. Mentre è in diminuzione tra gli anziani. A questo punto è doveroso chiedersi se l’introduzione di un reddito minimo, anche più sostanzioso di quello attuale e a favore soprattutto dei giovani, sia compatibile con le promesse fatte dalle stesse forze politiche di abolire la riforma Fornero per avvantaggiare i lavoratori più anziani che vogliono andare in pensione prima. Con un costo che si riverserebbe tutto sulle spalle degli stessi giovani.
Repubblica 13.3.18
Lo studio di Bankitalia
Aumentano le disuguaglianze
Il 30 per cento dei giovani rischia di diventare povero
Il divario è cresciuto di un punto e mezzo tornando ai livelli degli anni Novanta.
Il 5% delle famiglie detiene il 40% delle ricchezze nazionali, in media 1,3 milioni di euro. E la ripresa incide poco
di Valentina Conte
ROMA In Italia vivono 13 milioni e 800 mila persone con meno di 830 euro al mese. Parliamo del 23% della popolazione, uno su quattro, a rischio di povertà. Un livello «molto elevato», lo definisce Bankitalia nella nuova indagine campionaria sui bilanci delle famiglie, relativa al 2016. E non solo perché cresciuto di oltre tre punti percentuali in dieci anni, massimo storico. Ma soprattutto perché colpisce i giovani più degli anziani: il 30% degli under 35, solo il 15% degli over 65. Al Sud più che al Nord: 40 contro 15%. Gli stranieri più degli italiani: 55 contro 20%.
Trovare in questi numeri una spiegazione al terremoto elettorale è quasi banale. Il livello della disuguaglianza, misurato dall’indice di Gini, è aumentato di un punto e mezzo tra 2006 e 2016. E, racconta ancora Bankitalia, si è riportato ai livelli toccati alla fine degli anni Novanta. L’asimmetria nella distribuzione dei redditi è tale che il 5% delle famiglie detiene il 40% delle ricchezze nazionali, in media 1,3 milioni di euro. Mentre il 30% appena l’1%: 6.500 euro in media. Tre quarti di questi nuclei sono a rischio di povertà. Una polarità che si è accentuata negli anni più duri della crisi.
«Colgo quattro dati eclatanti nel rapporto di Bankitalia, che confermano quanto sapevamo e in parte accolto negli indicatori Bes inseriti nella legge di Bilancio», osserva Enrico Giovannini, già presidente Istat e ministro del Lavoro nel governo Letta. «C’è una ripresa leggera del reddito delle famiglie. Continuano a crescere le disuguaglianze. Le disparità territoriali restano enormi. E la ricchezza continua a calare, tranne che per gli ultra 65enni e per il 10% più abbiente. Ma l’aspetto che deve far riflettere è uno solo, come rileva l’Istat: nel 2017 il reddito delle famiglie è salito dello 0,7% a fronte del +1,5% messo a segno dal Pil. Vuol dire che solo metà della ripresa è finita nelle tasche degli italiani. Molti non l’hanno percepita. E chi se n’è accorto, ne ha beneficiato in modo davvero lieve. Se vogliamo capire la propensione a chiedere un cambio di politiche, emersa nelle urne, dovremmo partire da qui».
I dati di Bankitalia rimettono al centro della scena gli italiani che non ce la fanno. Quelli che si sentono abbandonati. Ma evidenziano pure con lucidità un dato sin troppo trascurato dalla politica: la questione generazionale. In dieci anni, il rischio povertà si è drasticamente spostato sui giovani e le giovani famiglie. I working poors, lavoratori poveri, quasi un paradosso.
Ebbene nel 2006 solo il 23% degli under 35 era a rischio povertà. Nel 2016 siamo a 29,7%.
Ancora peggio per i capofamiglia tra 35 e 45 anni: siamo passati dal 19 al 30%. Nello stesso arco temporale la situazione degli over 65 è addirittura migliorata: dal 20 al 15,7%.
Anche a livello territoriale le sorprese non mancano. L’Italia è spaccata, come sappiamo. Ma al Sud la percentuale di individui a rischio povertà è rimasta la stessa, seppur pesante: 39%.
Mentre al Nord quasi raddoppia: da 8 a 15%. E al Centro passa dal 10 al 12%. Una condizione peggiorata soprattutto per gli stranieri: il 34% sfiorava l’indigenza nel 2006, il 55% dieci anni dopo. Quando gli italiani restano inchiodati al 19%. Non basta dunque dire che il reddito medio è salito del 3,5% tra 2014 e 2016 - a 18.600 euro - se poi le disparità sono queste.
il manifesto 13.3.18
Sul «reddito di cittadinanza» solo silenzio da parte della sinistra
Di quella sinistra che oggi ride della (finta) notizia delle file ai Caf, al Sud, per chiedere i moduli per il «reddito di cittadinanza» del M5s, nessuna traccia. Un silenzio che spiega, meglio di qualsiasi editoriale, la sua sconfitta all’ultima tornata elettorale. Mentre un terzo del paese è in povertà assoluta, relativa e a rischio esclusione sociale
di Giuseppe De Marzo
«Non c’è più tempo». Era il gennaio 2015 quando, ai cronisti accorsi sotto la sede di Libera, Beppe Grillo sottolineò l’importanza, urgente, di una misura di contrasto alle povertà. In ballo il «diritto all’esistenza di milioni di persone a rischio esclusione sociale», il commento di Don Ciotti. Su quel tavolo non c’era solo la proposta del M5s: Sel, oggi Sinistra Italiana, e il Pd si dicevano pronti a cercare una mediazione. Quella mediazione fu trovata grazie al lavoro della campagna «Miseria Ladra», promossa dal Gruppo Abele e da Libera: «100 giorni per un reddito di dignità». Furono raccolte in pochissimo tempo 100mila firme. Da quella mediazione i 40 parlamentari di centrosinistra si dileguarono, lasciando il M5s a predicare nel deserto politico, che tornò così sulla proprie posizioni: una proposta di workfare. Più un ammortizzatore sociale che una forma di welfare diffuso, orizzontale, individuale. Un triste gioco dell’oca sulla pelle degli ultimi. A partire dall’esperienza di «Miseria Ladra», associazioni, enti locali, sindacati, studenti, centri di ricerca e con loro decine di sindaci e giunte comunali dal Nord al Sud del paese si spesero dando vita a un guida di principi irrinunciabili utile per un eventuale articolato di legge da proporre in Parlamento. Nella campagna si chiedeva l’impegno, ad personam, a diversi parlamentari a partire dalla loro firma come sostegno a questa piattaforma che aveva l’intenzione di mettere insieme le diverse proposte in campo e unire le forze politiche e parlamentari intorno a una sola proposta. Una sorta di larga intesa per il diritto al reddito. Un percorso che non poteva finire con un semplice dietrofront delle forze politiche in campo. Da qui la nascita della Rete dei Numeri Pari, che oggi conta più di 400 realtà sparse in tutta Italia.
Tre anni dopo quell’incontro, due anni e mezzo dopo quella campagna, un anno dopo la nascita della Rete, finalmente il tema del reddito è al centro del dibattito politico. Il problema è, però, come l’informazione se ne sta occupando. Invano, lo scorso 14 e 15 febbraio la Rete dei Numeri Pari ha cercato un’interlocuzione con le forze politiche: nessun appello, nessuna chiamata diretta ma un seminario ed una conferenza stampa nazionale – «I love dignità» – al quale sono intervenuti costituzionalisti come Gaetano Azzariti, magistrati come Giuseppe Bronzini, docenti come Roberto Pizzuti e Tomaso Montanari. Con loro il Basic Income Network-Italia, giornalisti, realtà sociali e di movimento, studenti, parrocchie, cooperative, sindacati. Una sola proposta al centro, unitaria, che risponde alla crisi della democrazia e guarda a una vera forma di protezione sociale: dieci punti per un reddito di dignità.
Tutto inutile. La politica era troppo intenta a cercare voti. Il risultato è la triste situazione attuale, con il racconto auto-assolutorio di un «popolo imbecille» che si sarebbe fatto convincere dall’assistenzialismo del M5s. Di quella sinistra che oggi ride della (finta) notizia delle file ai Caf, al Sud, per chiedere i moduli per il «reddito di cittadinanza» del M5s, nessuna traccia. Un silenzio che spiega, meglio di qualsiasi editoriale, la sconfitta della sinistra all’ultima tornata elettorale. Un terzo del Paese – tra chi è in povertà assoluta, relativa e a rischio esclusione sociale – sta gridando aiuto, intrappolato all’interno di un modello economico che per auto-alimentarsi genera diseguaglianze e disoccupazione. In un sistema del genere, la domanda che mettiamo al centro del dibattito politico è: le persone che vivono in povertà hanno diritto a esistere oppure no?
Se la risposta è si, e quindi vogliamo riconoscere e garantire lo «ius existentiae», il diritto ad esistere per ogni essere umano, dobbiamo obbligatoriamente pensare a forme di welfare universali, e non selettive come hanno fatto i governi negli ultimi anni; allo stesso tempo diventa indispensabile come avvenuto in tutta Europa introdurre anche nel nostro paese un reddito minimo garantito, e non piccole forme di sostegno che nascondono in realtà lo sfruttamento della condizione di povertà, obbligando chi è già in difficoltà a forme di lavoro (?) che non tengono conto della condizione o del percorso di esperienze personali. Chi vuole continuare a fare campagna elettorale, faccia pure. Chi punta a portare al centro la questione del reddito come strumento di contrasto alle povertà e alle paure che queste generano, dovrebbe «festeggiare» il fatto che finalmente sui media mainstream si è aperta una crepa. Su questa crepa si potrà e si dovrà costruire iniziativa politica, alleanze, rafforzando la consapevolezza sulle cause della crisi e sulle proposte da mettere in campo. A partire dai dieci punti che definiscono i principi irrinunciabili dei regimi di reddito minimo garantito stabiliti sin dal 1992 dal Parlamento Europeo e dalla Commissione UE. L’obiettivo è restituire dignità a milioni di persone. Il lavoro in questa direzione ci darà l’opportunità di rispondere all’altra sfida posta dalla crisi: coniugare giustizia sociale e dinamismo economico.
* Coordinatore della Rete dei Numeri Pari
il manifesto 13.3.18
Il «reddito di cittadinanza» che mette al lavoro i precari
di Roberto Ciccarelli
Politiche del lavoro. Pasquale Tridico, indicato a ministro del lavoro in pectore per il Movimento 5 Stelle, definisce il “reddito di cittadinanza” «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo». Nel pacchetto programmatico è stato inserito il salario minimo orario per chi è fuori dalla contrattazione e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Previsti investimenti statali in «settori «ad alto ritorno occupazionale», il 34% dei quali da destinare al Mezzogiorno. E un «patto di produttività tra lavoratori, governo e imprese». Secondo M5S la nuova politica servirà a aumentare il tasso di partecipazione della forza lavoro e a risolvere il conflitto con l'Ue sulla crescita potenziale
A nove giorni dalle elezioni del 4 marzo, dove il movimento 5 Stelle ha totalizzato il 32% dei consensi, è giunto il momento di chiamare le cose con il loro nome. Pasquale Tridico, indicato da Luigi Di Maio a ministro del lavoro in pectore del suo «governo», ha di nuovo sottolineato come l’ormai famoso «reddito di cittadinanza» in realtà non è un reddito di cittadinanza ma, tecnicamente, «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo». Dopo anni di equivoci prodotti dai Cinque Stelle- l’uso del concetto di «reddito di cittadinanza» (erogazione di un reddito a tutti i cittadini a vita) per indicare il suo opposto (un reddito condizionato all’obbligo di un lavoro) – è difficile modificare il senso comune strutturato dalla propaganda avversaria. E perché, a destra e a sinistra tutti sembrano essere convinti che questo «reddito» sia il sinonimo di «assistenzialismo», ovvero un sussidio per meridionali lazzaroni e fannulloni. Non è vero: riguarderà tutti dalle Alpi alla Sicilia in una chiave che in pochi oggi immaginano: questo è il governo dei lavoratori poveri, non la loro liberazione dal bisogno.
NEL PACCHETTO è stato inserito il salario minimo orario per chi è fuori dalla contrattazione, la proposta che ricorda la passata rivendicazione della sinistra sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario «in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese». Previsti investimenti statali in «settori «ad alto ritorno occupazionale», il 34% dei quali da destinare al Mezzogiorno. «Senza, il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca». Infine un riferimento alla politica di concertazione alla tedesca: previsto un «patto di produttività tra lavoratori, governo e imprese». L’obiettivo è «rilanciare salari, produttività e investimenti».
IL CUORE DI QUESTA POLITICA è la creazione di un sistema di «attivazione» di precari e disoccupati. Il «reddito minimo condizionato» è l’applicazione del «workfare» nel film «Io, Daniel Blake» di Ken Loach. Quello che dagli anni Novanta con la malintesa «flexsecurity» del «pacchetto Treu», fino al Jobs Act del 2015 avrebbero voluto realizzare, senza ancora riuscirci, con l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (Anpal). I Cinque Stelle intendono ripartire da qui per costruire un sistema già operativo in Inghilterra o in Germania («Hartz IV»). Non è detto che ci riusciranno, anche per il livello di fuoco raggiunto dagli avversari e per le difficoltà di fare un governo.
NEL POST SCRITTO sul «blog delle stelle» Tridico ha dato seguito alle riflessioni già rese note in settimana, arricchendo il menu di nuove portate: il riconoscimento di un «reddito minimo» prevede la disponibilità del soggetto a non rifiutare tre offerte di lavoro in cambio di un sussidio pari a 780 euro al mese (9.360 euro all’anno, costo: 17 miliardi all’anno). Una cifra calcolata sul 60% del reddito mediano netto in Italia, destinata a decrescere in un ristretto periodo di tempo. Tale disponibilità serve a creare una bolla occupazionale costituita da un milione di persone «inattive» e «scoraggiate». Saranno conteggiate dalle statistiche perché spinte alla ricerca di un lavoro attraverso l’iscrizione ai centri per l’impiego (finanziati con 2,1 miliardi di euro). «Andranno così ad aumentare il tasso di partecipazione della forza lavoro» secondo la regola della «mobilitazione totale» dei lavoratori stabilita dal giurista Alain Supiot per descrive le politiche attive neo-liberali. Non solo i precari produrranno valore per i fini del governo di turno ma permetteranno di rivedere «al rialzo l’output gap, cioè la distanza tra il Pil potenziale e quello effettivo». Grazie al lavoro dei precari che cercano lavoro,si intende risolvere la divergenza sul calcolo della crescita che ha contrapposto il ministro dell’economia Padoan alla Commissione Ue. Il plusvalore prodotto da questo lavoro potrebbe allontanare la manovra «extra» da 3 miliardi e più di cui si parla da mesi. Un lavoro per cui sarebbero pagati il minimo facendo ottenere un risultato al governo di turno. Resta un’ ipotesi di scuola che non rientra nei tempi attuali della politica economica e dovrà comunque passare l’esame di Bruxelles.
NELL’ INCOMPRENSIONE del contenuto di politiche complesse del lavoro, va ricordato che esiste un’alternativa a questo «reddito minimo». Il «reddito di base» incondizionato, cioè sganciato dall’obbligo del lavoro. Per evitare di lavorare? No, per rifiutare i ricatti, non lavorare al servizio del rigore della tecnocrazia Ue, rispettare l’autonomia delle persone, per la liberazione, non il controllo e la messa al lavoro della povertà per il bilancio dello Stato.
Per approfondire
Non è mai troppo tardi per un reddito di base
Ecco come il “reddito di cittadinanza” è diventato l’argomento del momento. Nel racconto mainstream è giudicato come una politica assistenziale che spinge al lazzaronismo (magari dei meridionali). Un ‘indagine sulle forme esistenti, anche in Italia, dimostra invece che le varianti del “reddito” sono usate per aumentare la produttività e l’occupabilità delle persone. Questo è lo scopo anche del Movimento 5 Stelle. Dobbiamo rassegnarci a un nuovo sfruttamento? No, perché il “reddito di base” – la formula originaria di reddito – è una remunerazione della produzione che facciamo ogni giorno: sulle piattaforme digitali, ad esempio. O nel lavoro gratuito che ci costringono a fare. Ecco perché il movimento femminista rivendica oggi il “reddito di autodeterminazione”. La storia.
Perché la sinistra non ha capito nulla del “reddito di cittadinanza”
La “sinistra”, convinta “lavorista”, non ha compreso nulla della proposta di “reddito di cittadinanza” che sta facendo le fortune politiche del Movimento Cinque Stelle, né immagina le conseguenze di un sistema che rischia di creare un regime del lavoro coatto. Non è affatto “assistenzialismo”. Nella formulazione attuale è un’intensificazione delle politiche attive neoliberali. La storia di una progressiva, e inesorabile espulsione dalla nuova composizione sociale del paese. Il 4 marzo lo ha dimostrato in maniera clamorosa: oggi il reddito è terreno di battaglia politica. L’analisi
Reddito di cittadinanza, un termine trafugato dal Movimento Cinque Stelle (Marco Bascetta)
Oggi designa un sussidio in tutto e per tutto simile a quelli previsti nella logica della “lotta alla povertà” che si propongono di piegare, in un modo o nell’altro, comunque eterodiretto, i percettori temporanei del reddito alla disciplina di un lavoro purchessia. In realtà questo reddito non è rivolto all’indigenza degli “esclusi”, ma alla povertà attiva strutturalmente inclusa nel modo di produzione capitalistico contemporaneo
Il Fatto 13.3.18
Irriso da quei partigiani di cui tesseva le lodi: Pansa che non ti aspetti
L’ingenua retorica giovanile del futuro autore de “Il sangue dei vinti”
talo Pietra (1911-1991), già ufficiale degli Alpini, guidò le brigate partigiane nell’Oltrepò e poi fu direttore del Giorno e del Messaggero.
di Vittorio Emiliani
Eravamo in treno da Milano a Sondrio, dove ci aspettava un pubblico dibattito, il direttore del Giorno, Italo Pietra, già comandante generale delle brigate partigiane dell’Oltrepò, Paolo Murialdi, caporedattore e ufficiale di collegamento fra le brigate partigiane nella stessa zona, Giampaolo Pansa e io, autori di inchieste su quelle valli politicamente “bianche”, che avremmo dibattuto in pubblico la sera stessa. Pansa aveva realizzato una inchiesta sul Bacino imbrifero montano (Bim), pieno di soldi, egemonizzato dalla Dc e in particolare dal doroteo Athos Valsecchi. Inchiesta molto dura, bella e documentata in modo impeccabile.
Le ore di treno erano almeno tre e chiacchierammo a lungo. Giampaolo allora era fresco del suo libro Guerra partigiana fra Genova e il Po, uscito da Laterza, la tesi di laurea discussa con Guido Quazza a Torino, con cui aveva vinto il Premio Einaudi che consisteva nel praticantato presso La Stampa. Dopo di che era venuto al Giorno, il giornale fondato da Enrico Mattei, allora punta avanzata, in ogni senso, fra i quotidiani indipendenti. Dal suo libro emergeva il mito di una Resistenza raccontata come unita, positiva, senza problemi interni di sorta o quasi. E Pansa ne era il cantore, l’aedo. Al punto che in redazione – dove c’erano parecchi ex partigiani o combattenti del Corpo di Liberazione Nazionale, come Giorgio Bocca, Guido Nozzoli, Angelo Del Boca, Ubaldo Bertoli, Manlio Mariani, Claudio Rastelli, il professor Umberto Segre, perseguitato per anni, al quale i nazifascisti avevano sterminato tutti i parenti più prossimi, ecc. – veniva a volte preso in giro per questi suoi ingenui atteggiamenti retorici.
Nella VI Zona (il basso Piemonte ai confini con la Liguria) di cui aveva scritto, in realtà c’erano stati aspri contrasti fra partigiani comunisti e partigiani di Giustizia e Libertà, in Piemonte particolarmente forte e combattiva. C’erano stati persino degli scontri. Non così nel confinante Oltrepò pavese dove Pietra e Murialdi, socialisti libertari sostanzialmente, e Luchino Dal Verme, cattolico, erano entrati nelle “Garibaldi” proprio per riequilibrare il peso dei comunisti. Non solo: il presidente del Cln a Voghera era un cattolico, Luigi Gandini, un mediatore nato, grande commerciante di granaglie, capace di rifornire di vettovaglie le brigate in montagna.
Durante il viaggio Giampaolo cominciò ad interrogare Italo Pietra sulla Resistenza e lui lo rintuzzava rispondendo: “Ma non parlate tanto di battaglie partigiane: erano scontri. Le glorie della Resistenza stanno altrove: per esempio nell’aver riportato la politica nel dibattito, nell’aver fatto propri i grandi valori di libertà, di giustizia sociale, di democrazia, nell’aver parlato al popolo e non alle sole élite…”. Pansa però insisteva: “Com’era il comandante alessandrino A.P. della VI Zona?”. E Pietra secco secco: “Un volgare assassino”, con un lieve sorriso ironico, e con lui Murialdi. Giampaolo sobbalzava letteralmente sul sedile. Lo scambio andò avanti così per un pezzo. Finché Pietra non tagliò corto: “Di certe cose si potrà parlare con più serenità quando saremo tutti morti salvando, ripeto, i valori morali e politici della Resistenza, che sono e rimangono grandi”. Una volta aveva aggiunto sarcastico: “A leggere certi documenti prodotti allora in montagna dai comunisti, mi viene da pensare che Marx a quelle altitudini facesse più male che bene”.
Al dibattito di Sondrio, affollatissimo, la Dc locale, per protesta contro l’inchiesta (ripeto, documentatissima) di Pansa, non partecipò e ce lo fece dire prima, in piazza, dal suo segretario provinciale. Un paio di anni più tardi, quando stava per diventare, assieme a me, inviato nazionale a poco più di trent’anni, Giampaolo ci lasciò per tornare alla Stampa che non attraversava proprio un periodo glorioso e sulle vicende Fiat, ad esempio, pubblicava, in pratica, soltanto i comunicati aziendali. L’impagabile Marco Nozza e io, nei corridoi, incontrammo Pietra, scuro in volto (su Pansa aveva investito non poco in quattro anni) e Marco commentò sorridendo: “Direttore, ha visto Pansa…”. Pietra, che aveva mantenuto da civile un’aria guerriera, lo guardò in silenzio e poi rispose scandendo le parole: “Ah, Pansa, Pansa, un bel prefetto… Anzi un sottoprefetto di Casale”. E uscì calcandosi in testa un’elegante lobbia inglese.
La Stampa 13.3.18
Austria, la polizia sfida gli 007 che indagano sull’estrema destra
Il ministero degli Interni ordina una perquisizione nella sede dei Servizi. L’opposizione: «L’Fpö vuole cancellare le prove sui legami con i neonazisti»
AFP
di Walter Rauhe
Berlino. Al momento dell’irruzione nella sede dell’Ufficio federale per la tutela della Costituzione e la lotta al Terrorismo Bvt (i servizi segreti austriaci) gli agenti di un commando speciale della polizia erano armati fino ai denti e indossavano giubbotti antiproiettile e passamontagna. Poco prima avevano ricevuto l’ordine di procedere alla perquisizione degli uffici dell’intelligence nell’ambito di un’inchiesta del dipartimento anticorruzione della procura di Stato nei confronti di tre dipendenti dei servizi segreti accusati di appropriazione indebita di fondi pubblici e di altri reati.
Nel corso della singolare quanto misteriosa operazione, avvenuta già la scorsa settimana ma venuta alla luce solo nel corso del fine settimana, gli agenti avrebbero però sequestrato anche un grande quantitativo di cd, dvd, telefoni cellulari, computer e fascicoli appartenenti al dipartimento dell’antiterrorismo e a quello specializzato nella lotta all’estremismo di destra e nell’osservazione delle confraternite studentesche - le famigerate Burschenschaften d’ispirazione ultra nazionalista, revanscista e anche xenofoba. Confraternite alle quali appartengono anche oltre un terzo dei deputati dell’ultra destra populista della Fpö, il partito alleato nel governo del cancelliere Sebastian Kurz (Övp). Il vero scopo della discussa operazione potrebbe proprio essere stato quello di cancellare tutti i documenti e le prove riguardanti le attività sovversive e anche illegali compiute in passato da queste associazioni studentesche e di cancellare eventuali prove in grado di compromettere i deputati e rappresentanti della Fpö. Quello sollevato dalla stampa austriaca e dai partiti dell’opposizione è un sospetto gravissimo in grado di provocare a Vienna uno scandalo istituzionale senza precedenti e di far vacillare la coalizione di governo già pochi mesi dopo il suo insediamento.
Gli interrogativi e i punti d’ombra attorno all’operazione non mancano di certo. Come mai a prendere parte alla perquisizione non sono stati i responsabili anticorruzione del ministero della giustizia (controllato dal partito popolare del cancelliere Kurz), bensì gli agenti del gruppo operativo Egs che normalmente si occupa di scippi, rapine o di spaccio di stupefacenti e che sottostà al ministro degli Interni Herbert Kickl del Fpö? L’ordine per una perquisizione nella sede niente po’ po’ di meno dei servizi segreti inoltre, non può essere certamente arrivato dal basso, ma da un alto funzionario se non dal ministro stesso. Può essere una semplice coincidenza il fatto che il comandante del gruppo operativo Egs sia un noto esponente del partito di estrema destra della Fpö?
L’intera vicenda mette sotto pressione il cancelliere Kurz e rappresenta al tempo stesso il forte conflitto di competenze all’interno del suo esecutivo. In gioco c’è a questo punto la stessa affidabilità di un’alleato di governo considerato fin dall’inizio come pericoloso e ad alto rischio. Il presidente austriaco Alexander van der Bellen ha definito i retroscena della vicenda e le modalità della perquisizione negli uffici dei servizi segreti come estremamente inconsuete ed irritanti ed ha chiesto ai responsabili immediate spiegazioni e chiarimenti. Il ministro degli Interni Herbert Kickl (Fpö) ha respinto invece tutte le accuse e i sospetti mossi nei confronti del suo partito, sostenendo l’assoluta regolarità dell’operazione di polizia e il rispetto delle leggi smentendo anche il sequestro di documenti estranei all’inchiesta della procura nel corso del blitz.
La Stampa 13.3.18
È morto Groening, il contabile di Auschwitz
Era noto come il contabile di Auschwitz, e all’età di 96 anni è morto oggi l’ex ufficiale delle SS, Oskar Groening. Lo ha reso noto Spiegel on line. Groening è morto in ospedale.
Nel 2015, Groening era stato condannato a 4 anni di carcere per aver collaborato all’uccisione di 300 mila persone nel lager nazista. Lo scorso dicembre la Corte federale aveva ritenuto l’anziano ex ufficiale in grado di sostenere la pena, respingendo un ricorso presentato per motivi di salute dai suoi legali. Groening aveva anche fatto richiesta di grazia, ma la richiesta era stata respinta il 17 gennaio. Nel corso del processo l’ex sottoufficiale aveva chiesto scusa al popolo ebraico.
il manifesto 13.3.18
Afrin circondata, turchi pronti all’invasione
Siria. L'esercito di Erdogan a un chilometro e mezzo dal centro del cantone curdo-siriano, decine di migliaia di sfollati. I civili: faremo interposizione con i nostri corpi. A Ghouta est in 700 scendono in strada per chiedere alle opposizioni di negoziare con il governo: islamisti aprono il fuoco
di Chiara Cruciati
Domenica le truppe turche e l’Esercito Libero Siriano, opposizione a Damasco agli ordini di Ankara, si sono portati a 2,5 km dalla città di Afrin. Ieri erano a un chilometro e mezzo: l’invasione del principale centro del cantone curdo-siriano è imminente. Con il passare delle ore cresce il timore di una strage, anticipata da un intensificarsi dei raid aerei.
Nei 52 giorni di operazione turca, secondo il Consiglio per la Salute di Afrin, sono stati uccisi 232 civili, 668 i feriti. Il 90% ha perso la vita in attacchi aerei. Ed è crisi umanitaria: l’esercito turco ha tagliato l’acqua, colpito ospedali e scuole, distrutto campi profughi. Sono decine di migliaia i civili in fuga dai villaggi del distretto verso il centro della città per sfuggire alle bombe e all’avanzata terrestre.
Centinaia di sfollati stanno trovando rifugio nelle case che altre famiglie hanno aperto per loro, mentre la popolazione si mobilita: i civili, dicono da Afrin, sono pronti a farsi scudo umano, a fare interposizione con i propri corpi. La comunità è circondata: le truppe turche premono da nord e sud e stanno completando l’accerchiamento a est e ovest, eliminando ogni via di fuga.
Alla voce della gente si unisce quella dell’amministrazione autonoma del cantone, creatura figlia dell’autogestione che da anni caratterizza Rojava e che domenica ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Ma al Palazzo di Vetro a risuonare è il silenzio: i 15 membri ieri si sono riuniti a New York a porte chiuse per discutere di Ghouta est e della tregua in Siria prevista dalla risoluzione 2401, ma non delle iniziative belliche del governo turco.
L’ambasciatrice Usa Haley ha alzato la voce contro la Russia, minacciato un intervento in solitaria e presentato una nuova bozza di risoluzione che «non lascia spazio» a chi non rispetta la tregua, ma non ha nominato Afrin. A una situazione fuori dalla legalità internazionale non reagisce nessuno.
Non lo fanno gli Stati uniti, neppure di fronte alle reiterate minacce del presidente Erdogan che di nuovo sabato ha promesso di marciare su Kobane (simbolo della resistenza all’Isis) e Manbij (dove stazionano 2mila marines Usa). E con la Russia che tace, qualche notizia giunge dal fronte governativo: dopo le migliaia di combattenti pro-Assad inviati a proteggere i confini di Afrin ma tuttora silenti, ieri l’Osservatorio siriano (organizzazione basata a Londra e parte del fronte anti-Assad) ha riportato del dispiegamento a Nbul e al-Zahraa, 21 km a sud di Afrin, della Guardia repubblicana siriana. E proprio da Nbul verso Aleppo stanno fuggendo migliaia di civili, con fonti locali che parlano già di 25mila sfollati fuori dal cantone.
In Occidente gli unici a mobilitarsi sono i cittadini: da giorni le principali città europee sono teatro di presidi in solidarietà con Afrin, in Germania, Francia, Olanda, Svezia, Russia, Belgio, Regno Unito. In Italia migliaia di persone hanno preso parte da sabato a ieri a sit-in a Torino, Bologna, Padova, Roma, Reggio Emilia.
La battaglia prosegue anche nella capitale. Nelle ultime 48 ore l’esercito governativo ha ripreso la città di Medeira, a Ghouta est, spezzando la continuità del territorio controllato dal 2013 dalle opposizioni islamiste e dividendo la parte sud dalle due principali città , Harasta e Douma.
Douma è circondata ma le milizie salafite e qaediste non si arrendono: ieri la stampa Usa riportava di un accordo di evacuazione tra Jaysh al Islam e Mosca e l’Afp di un incontro tra opposizioni e funzionari governativi per discutere l’uscita, ma non ci sono conferme.
A fronte di voci di fratture interne agli anti-Assad, le unità islamiste dell’Esercito Libero smentiscono la resa, consapevoli che perdere uno degli ultimi bastioni aprirà alla perdita del sostegno degli sponsor esterni (Golfo e Turchia). Lo sa anche Damasco che ieri è tornata a colpire Daraa, terza enclave islamista con Ghouta e Idlib, nel sud del paese.
Tanto poca è la voglia di arrendersi che ieri, riporta l’Osservatorio, i jihadisti hanno aperto il fuoco su 700 civili che a Kafr Batna, a Ghouta est, chiedevano l’accordo con il governo. Una persona è stata uccisa.
Con la guerra data per conclusa che continua, il bilancio delle vittime a Ghouta est – secondo fonti di opposizione – sarebbe di 1.144 civili uccisi, di cui 240 bambini. Difficile stabilire quanti ne ha uccisi il governo e quanti gli islamisti che colpiscono con i missili anche la capitale, provocando decine di morti. Di certo c’è la crisi umanitaria: a Ghouta est si sta letteralmente morendo di fame.
il manifesto 13.3.18
La protesta dei contadini in marcia da Nasik a Mumbai
La lunga marcia dei contadini sfida l’India di Modi e vince
Dopo 180 km. Si è conclusa a Mumbai l’eccezionale protesta pacifica dei braccianti del Maharashtra, affiliati al Partito comunista indiano. Media e governo, di solito concentrati sulla crescita a tutti i costi, costretti a fare i conti con lo stato disastroso del settore agricolo
di Matteo Miavaldi
NEW DELHI Si è conclusa ieri nel centro di Mumbai, la capitale economica dell’India, l’eccezionale protesta pacifica dei braccianti dello stato del Maharashtra, soprannominata dai media nazionali la «Lunga Marcia dei contadini». Nomignolo abbastanza appropriato per descrivere sia le modalità della protesta sia la composizione di un movimento che ha efficacemente richiamato l’attenzione dei media mainstream sulle condizioni preoccupanti in cui, da anni, versa il settore dell’agricoltura indiana.
PARTITI DALLA CITTÀ DI NASIK una settimana fa, decine di migliaia di contadini hanno marciato giorno e notte per quasi 180 km – con temperature che già superano facilmente i 40 gradi, in questa stagione – fino a raggiungere Mumbai, senza deroghe al carattere assolutamente pacifico di una protesta indetta dall’Akhil Bharatiya Kisan Sabha, il collettivo di contadini affiliato al Partito comunista indiano (marxista).
Ad eccezione dei disagi al traffico, gli oltre 40mila contadini in marcia sono riusciti a cogliere l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale senza ricorrere a episodi di violenza: risultato già di per sé sorprendente, considerando gli effetti che la propaganda governativa – tutta crescita e avvenirismo tecnologico – in questi anni ha avuto sui media classici, più impegnati a misurare il presunto progresso dell’India urbana che ad analizzare l’emergenza in cui vivono centinaia di milioni di contadini indiani residenti nell’«altra India», quella delle campagne.
LÌ I SOGNI DI CRESCITA e progresso promessi dal primo ministro Narendra Modi (leader del Bharatiya Janata Party, Bjp) si sono infranti contro una realtà durissima evidenziata anche nell’ultimo Economic Survey stilato dall’esecutivo di New Delhi. Secondo le statistiche governative, la crescita del comparto agricolo stagna intorno a un misero +1,8 % (metà di quanto registrato nella precedente amministrazione dell’Indian National Congress) e le entrate dei contadini sono mediamente in caduta libera, costringendo chi può a ricorrere all’indebitamento, sperando in un raccolto generoso.
Ma tra siccità e terapie shock come la demonetizzazione del 2016 – con annesso credit crunch – ai contadini non è rimasto altro che protestare contro le istituzioni, chiedendo meccanismi che fissino un prezzo minimo di vendita dei prodotti agricoli e la cancellazione di debiti contratti con gli istituti bancari locali.
ISTANZE COMUNI AI CONTADINI di tutto il paese, sfociate in una serie incessante di proteste e scioperi sparsi a macchia d’olio e sistematicamente rientrati dietro i «capiamo la vostra sofferenza, ce ne occuperemo» delle autorità locali. Promesse spesso arenatesi sull’iperburocrazia – dolosa? – della pubblica amministrazione indiana.
LA LUNGA MARCIA dei contadini, secondo le intenzioni dei manifestanti, intende precisamente superare la fase delle promesse istituzionali, pretendendo l’applicazione di misure immediatamente tangibili da un settore che, con la stagione secca che si farà rovente nelle prossime settimane, non può davvero più aspettare.
Oltre alla cancellazione del debito e ai prezzi minimi, una parte consistente dei manifestanti chiede anche l’applicazione delForest Rights Act del 2006, la legge che dovrebbe assegnare la proprietà dei terreni coltivati a chi da generazioni vive e lavora terre considerate «foreste» dalla legge indiana e, quindi, di proprietà dello stato. Nella maggioranza dei casi si tratta di braccianti appartenenti alle cosiddette «scheduled tribes», i tribali riconosciuti ufficialmente dallo stato indiano che, senza un collaterale terriero da impegnare, non hanno accesso al credito bancario, guadagnando tra le 50 e le 100 rupie (poco più di un euro) al giorno per lavorare una terra non loro.
DOPO AVER RICEVUTO una delegazione dei manifestanti, nella serata di ieri il chief minister del Maharashtra Devendra Fadnavis (Bjp) ha annunciato che il governo locale ha accettato «la maggior parte» delle richieste avanzate dai contadini ed entro sei mesi un comitato nominato ad hoc, con due rappresentanti del collettivo dei braccianti, vaglierà le richieste di attribuzione delle terre ai tribali. «Vi faremo sapere», insomma.
Corriere 13.3.18
Armi e «Me Too», i temi caldi tra donne e studenti
Il racconto viaggio nei campus
Nell’america dei ragazzi che si ribellano
di Dacia Maraini
Questa volta l’America mi appare meno ospitale del solito. Già dall’aeroporto mi interrogano insistentemente come se volessi entrare per portare via lavoro a un americano: da dove viene, quanto intende stare, che cosa farà? Mostri le carte dei suoi inviti universitari, mostri il biglietto di ritorno. Per fortuna le università sono dei luoghi dove il pensiero corre e gli studenti sanno ascoltare con grande attenzione chi viene da mondi lontani e cerca di riflettere pubblicamente sui problemi del giorno. Due sono gli argomenti che appassionano gli studenti in questo momento: la restrizione nell’acquisto delle armi da guerra e il movimento «Me too». Ovvero «io pure». Meglio ancora: «È successo anche a me».
Sappiamo come ha risposto il biondissimo presidente americano alle preoccupazioni degli studenti che stanno facendo dimostrazioni in tutto il Paese chiedendo «ma quanti ragazzi debbono ancora morire così stupidamente prima di prendere seri provvedimenti?». «Giovanotti, la questione è seria, siamo tutti dalla parte dei 17 poveri studenti uccisi a Parkland in Florida», ha risposto il presidente e ha aggiunto candidamente: «È venuta l’ora di armare gli insegnanti».
Alle urla di protesta, anche di membri del suo partito, il presidente si è ricreduto e ha aggiunto: non sarà obbligatorio, non metteremo un’arma in mano a ogni professore, lo farà solo chi vorrà e chi sarà in grado di usare le armi più sofisticate. «Ah sì, ma allora perché non diamo i fucili da guerra (perché di questo si parla, sono armi da assalto) ai portieri di albergo, ai cassieri dei cinema, ai gestori dei ristoranti, alle hostess degli aerei e così via»… è stata la risposta degli studenti dell’Università di Parkland.
I politici, salvo alcuni, sono piuttosto riservati e ambigui. È risaputo che i produttori di armi sono i più generosi finanziatori delle campagne elettorali e di molte attività sia sportive che culturali. La loro strategia sta nel finanziare tutto il finanziabile, perfino i pacifisti. Per fortuna non sono riusciti a comprare gli studenti e stanno puntando insistentemente sul presidente che certamente ha più potere degli studenti.
La domanda che si pongono in molti, sui giornali, in televisione, è: ma questi ragazzi che improvvisamente si credono catapultati dentro un western e si trasformano in pistoleri per punire i fratelli che sbagliano, sono da considerarsi pazzi? Una psichiatra, Amy Barnhorst sul New York Times risponde con chiarezza che no, non sono affatto malati di mente. Disturbati sì, a volte drogati, a volte ossessionati come questo Nicholas Cruz, ma non pazzi. Nelle università d’altronde circola la droga, ci sono molti depressi e molti che soffrono di fissazioni, ma non per questo si mettono a sparare contro i compagni. Le collere, i risentimenti, le frustrazioni sono all’ordine del giorno, però non si trasformano in stragi.
Ma allora? La cultura del fai da te e dello sparare a chi ci minaccia aderisce perfettamente alle nuove tendenze nazional-protezioniste che si basano sulla paura dell’altro, sul pensiero egoistico e primitivo «quello che è mio e mio e guai a chi me lo tocca», sul sospettare dell’altro come possibile nemico da abbattere, sull’odio per tutto ciò che non domino e controllo, su una società vista come un campo di battaglia dove vince il più forte, ovvero il più ricco. Non si tratta di perversioni personali ma di tendenze sociali e culturali. Per questo bisognerebbe cominciare col riflettere sulla sacralità della persona, sul rispetto per l’altro, sulla riconquista di una qualche forma di fiducia in un futuro comune. Che poi non è niente altro che politica. Un popolo che non riesce a fare progetti per il futuro che coinvolgano emotivamente la maggioranza, è un popolo in caduta libera.
L’altro argomento che scotta riguarda il nuovo movimento chiamato «Me too» che sta espandendosi per il Paese e fa continuamente nuove reclute fra le donne e spesso anche fra gli uomini.
Gli argomenti contrari sono fondamentalmente due: perché voi che denunciate soprusi e abusi non avete parlato prima? E l’altro: non state trasformando il corteggiamento in un delitto? Non state spaventando gli uomini che ora hanno paura perfino di azzardare una carezza? Le risposte vengono chiare e precise. Non se n’è parlato prima perché una donna sola , quando denuncia un potente, rimane schiacciata. Lo sa bene chi ci ha provato e le cronache lo raccontano con chiarezza. Di fronte a una ragazza che denuncia un ricatto sessuale saltano fuori frotte di avvocati pagatissimi, molto bravi nel ribaltare i fatti. La colpa è di lei: è lei che l’ha sedotto, lei che l’ha fatto cadere dentro una trappola e ora lo denuncia per ottenere soldi. Per questo di solito le donne non denunciano. Nel momento invece in cui, magari seguendo il coraggio di una donna che gode del prestigio pubblico, molte altre cominciano a parlare, le cose cambiano. Non ci sono avvocati che tengano di fronte a una valanga di denunce, con le stesse accuse fatte in privato, inconsapevoli le une delle altre.
Ed è quello che è successo con le attrici che in questi giorni stanno denunciando i loro molestatori di anni addietro. Ricordiamo che questo succede anche nei seminari e nelle scuole di teologia: i ragazzi abusati dai loro superiori ci hanno messo a volte 20 anni per denunciare le molestie subite e solo quando tanti altri hanno parlato, hanno trovato il coraggio di rammentare e denunciare.
L’altro argomento molto diffuso è: ma non stiamo mortificando il corteggiamento? Non stiamo censurando e mortificando l’uomo che è animato da un umanissimo e innocente desiderio sessuale? Qui credo che ci sia un grosso equivoco. Nessuna delle donne che ha fatto denuncia ha parlato di corteggiamento, di carezze, di desiderio, o altro. Tutte hanno detto che c’era di fronte a loro un uomo di potere: un produttore, un famoso regista, un direttore di scena, un celebre lanciatore di talenti, che le ricattava. O fai quello che dico io o ti caccio. Ciò che viene denunciato, non è mai il desiderio sessuale espresso con rispetto, ma una forma di profonda umiliazione di fronte a una prepotenza sessuale. Nessuno mette in discussione il corteggiamento, la gioia del sesso o il gusto di due corpi che si trovano e si piacciono, nessuna donna se la prende per un invito amoroso o erotico. Quello che si mette in discussione è l’antica pratica del potente di turno (che si trovi in un ufficio, in una aula di università, in un negozio, in un albergo, su un set cinematografico, su una scena teatrale o in uno studio televisivo) che approfitta del suo potere per ottenere servizi erotici non voluti, non desiderati. Il ricatto è un reato.
Purtroppo la pratica è antichissima, nella nostra cultura risale ai greci: Zeus non si trasformava in animale innocente per sedurre le giovinette che gli piacevano? Non le ingannava e le costringeva a coricarsi con lui, facendole cadere a volte nel doppio castigo: il sesso imposto e poi la vendetta della legittima sposa? La quale, invece di prendersela col marito, trasformava la ragazza sedotta in una pianta, o in una mosca o una povera e nuda roccia? Molti uomini sono stati legittimati a ritenere che facesse parte del potere maschile l’abuso nei riguardi dei più deboli. Come lo stupro era dato per un diritto dei vincitori di una guerra. Uno storico privilegio che solo una coscienza democratica e un sentimento nuovo di giustizia sociale e culturale possono condannare.
Corriere 13.3.18
Molestie sessuali, il Metropolitan licenzia Levine
di G. Sar.
Washington Il Metropolitan Opera House di New York ha indagato per più di tre mesi, ascoltando 72 testimonianze. E ieri ha deciso di licenziare James Levine, 74 anni, direttore emerito dell’orchestra, uno dei musicisti più conosciuti del mondo. «Ci sono prove credibili — si legge nel comunicato diffuso dal teatro — che Levine abbia compiuto molestie e abusi sessuali sia prima che durante il periodo in cui ha lavorato al Met». Le vittime sono «giovani artisti ai primi passi della loro carriera». Conclusione: «Alla luce di questi risultati sarebbe inappropriato e impossibile per Levine continuare il suo lavoro con il Met». L’indagine interna era partita da un articolo del «New York Times»: quattro uomini raccontavano di aver subito abusi quando erano ragazzini.
Levine, nato a Cincinnati, era approdato alla direzione musicale del Met, nel 1976. Un problema alla colonna vertebrale lo aveva costretto a rinunciare al podio nella primavera del 2016, dopo aver guidato l’orchestra da una sedia a rotelle per due anni. Nel dicembre 2017, il management lo aveva sospeso in via cautelare. Ora il licenziamento .
La Stampa 13.3.18
Le guerre dei Savoia re d’Italia per caso
La storia degli Stati sabaudi contraddice il mito della casata che unificò il Paese: non fu un progetto
di Alessandro Barbero
Nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza, Vittorio Emanuele II espresse più volte il proprio fastidio nei confronti dell’ingombrante alleato, Napoleone III, che lo eclissava con la sua pompa. In una lettera privata, il re di Sardegna masticava amaro: «Chi è, dopo tutto, quest’uomo, questo bischero? L’ultimo venuto dei sovrani d’Europa, un intruso tra di noi. Farebbe meglio a ricordare chi è lui, e chi sono io: il capo della prima e più antica dinastia regnante d’Europa».
Non era una vuota vanteria: i Savoia, con la loro genealogia che risaliva all’anno Mille (quella autentica, dico: perché qualche cronista compiacente aveva provato a farli discendere da Ottaviano Augusto, e di conseguenza da Enea) erano davvero, se non la prima, certo la più antica dinastia ancora sul trono in quel momento. Ed erano i soli ad aver costruito uno Stato duraturo aggregando paesi disparati, tenuti insieme soltanto dall’appartenenza a uno stesso sovrano. Perfino gli arcinemici, gli Asburgo, avevano edificato il loro impero multietnico partendo da uno Stato che esisteva già, il Sacro Romano Impero. I Savoia no: avevano messo insieme territori in gran parte adiacenti fra loro, è vero, ma diversissimi per lingua, tradizioni e interessi, e con pazienza ne avevano fatto un regno. Non, sia chiaro, perché perseguissero un qualche nobile obiettivo di nation-building, ma per la propria gloria, vanità e ambizione, piacesse o meno ai popoli che la Provvidenza aveva reso loro sudditi.
Ancora al tempo di Vittorio Emanuele II, agli occhi di una patriota italiana quel regno appariva un insieme male assortito, «quattro province senza alcun sentimento comune», di cui il Piemonte era «la sola parte sana». Secondo la contessa Provana di Collegno, milanese di nascita, la Savoia, che votava a destra, era un paese di fanatici reazionari, la Sardegna era «solo a metà incivilita e sotto il dominio dei preti», e Genova, che votava a sinistra, era un nido di pericolosi estremisti «democratici», che all’epoca, per le contesse, era una brutta parola. Ecco perché il libro appena pubblicato da due storici torinesi, Paola Bianchi e Andrea Merlotti, s’intitola Storia degli Stati sabaudi, al plurale: riprendendo l’espressione che era sempre stata d’uso negli atti ufficiali, e che la storiografia dinastica, dal Risorgimento in poi, ha invece sostituito con quella di Stato sabaudo, per far passare l’idea che il regno d’Italia nato nel 1861 fosse l’ultimo stadio di sviluppo di una creatura già predestinata, fin dal tempo di Umberto Biancamano, al magnanimo destino di unificare la Penisola.
Contro questa idea antistorica, eppure radicata in una poderosa propaganda ufficiale, gli autori ricordano che nel momento in cui inizia il loro racconto, quel 1416 in cui Amedeo VIII fu elevato dall’imperatore al rango di duca, gli stati sabaudi trasposti sulla cartina attuale risulterebbero quasi interamente in Francia e in Svizzera.
Due secoli dopo, al tempo di Carlo Emanuele I, li troveremmo per metà in Francia e per metà in Italia; e solo dal 1713, con la pace di Utrecht, la parte italiana risulta decisamente predominante. Però questo Stato mezzo francese e mezzo italiano era ufficialmente un principato tedesco, con un seggio alla Dieta dell’impero, e una dinastia che per secoli si era vantata di discendere da antenati sassoni!
Chissà se il Marochetti, quando negli Anni Trenta dell’Ottocento realizzava il Caval ’d brons di piazza San Carlo, sapeva che il suo soggetto, Emanuele Filiberto, si era dichiarato «vero e buon tedesco di sangue»? Probabilmente no, perché a quella data la fantomatica discendenza sassone era diventata imbarazzante, e perfino gli storici dinastici l’avevano messa in soffitta. Ma se non erano più tedeschi, chi erano e soprattutto cosa volevano essere i Savoia? Come dimostrano Bianchi e Merlotti, l’ultima idea che avevano in mente era di diventare re d’Italia. Allargarsi verso la Pianura Padana, questo sì; riunire ai loro Stati la Lombardia e i ducati emiliani, certo; ma senza rinunciare ai domini transalpini, creando non uno Stato nazionale italiano, ma, come disse qualcuno, una specie di «Belgio in grande».
Del resto, perché spaventarsi all’idea di uno Stato bilingue, quando nel Settecento le lingue degli Stati sabaudi erano tre, con la Sardegna dove la lingua amministrativa continuava a essere lo spagnolo? Certo, Carlo Alberto voleva essere italiano e dava istruzioni per essere chiamato così, ma il suo regno ideale si fermava al Mincio: del Veneto poverissimo non sapeva cosa farci, Venezia avrebbe fatto troppa concorrenza a Genova, e insomma il suo Belgio del Sud doveva andare dal lago di Ginevra al lago di Garda. I sentimenti andavano sacrificati, ma non quelli della dinastia, semmai quelli dei piemontesi: Torino avrebbe dovuto cedere il ruolo di capitale a Milano.
E il Piemonte, allora, con cui generazioni di storici hanno identificato lo «Stato» sabaudo? Nell’età in cui la parola nazione corse improvvisamente sulla bocca di tutti, al tempo della Rivoluzione Francese, ci fu anche chi propose la nazione piemontese: come quell’avvocato Gambini, prima giacobino e poi senatore napoleonico, che propugnò la creazione di un regno di Piemonte. Per chi la pensava così, la Savoia era un fastidio, il francese parificato all’italiano come lingua ufficiale un anacronismo, e l’unità della nazione piemontese doveva essere promossa senza falsi pudori: il Gambini era senz’altro per l’espulsione forzata degli ebrei, questi stranieri incapaci di integrarsi fra i bravi piemontesi, e perfino un mite illuminista come il Galeani Napione auspicava che il Piemonte si liberasse di quegli altri stranieri, i valdesi, estranei sia come fede sia come lingua. La storia è piena di sorprese se, come Paola Bianchi e Andrea Merlotti ricordano, si abbandona la comoda illusione che le avventure dei popoli e delle dinastie seguano strade preordinate e rivolte a un qualche fine.
Corriere 13.3.18
La creatività del ghetto
In Italia la cultura ebraica fiorisce proprio nella fase della segregazione
Un saggio di Giacomo Todeschini (Carocci) esplora le vicende attraversate dalle comunità israelitiche nel nostro Paese in epoca medievale. La questione cruciale del credito e la svolta determinata dalla creazione dei Monti di Pietà
di Paolo Mieli
Prima di addentrarsi nell’indagine storica su Gli ebrei nell’Italia medievale (così il titolo del suo importante libro che sta per essere pubblicato da Carocci), Giacomo Todeschini mette in chiaro un punto di importanza decisiva: questa storia può essere scritta con modalità dotate di una qualche coerenza solo a partire dal X secolo. Perché? Per il fatto che va accantonata una volta per tutte la rappresentazione postrisorgimentale di un’Italia come «soggetto storico naturalmente e tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione cristiana», rappresentazione che «ha influenzato in modi diversi, talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza israelitica nel nostro Paese». Per decenni, secondo Todeschini, abbiamo introiettato uno stereotipo storiografico mai esplicitamente dichiarato, che può essere riassunto nell’idea «alquanto divulgata della storia degli ebrei nell’Italia medievale come storia di una convivenza felice, repentinamente interrotta dalle polemiche antiebraiche del Quattrocento culminate nell’età dei ghetti». Un’idea che ci porta fuori strada.
È vero, sì, che già dal 380, cioè dall’editto di Tessalonica, l’Impero romano assunse il cristianesimo come culto ufficiale e si comportò di conseguenza. Ma a ben guardare la cristianizzazione della Penisola, iniziata tra il IV e il VI secolo, decollò effettivamente solo a partire dal VII e VIII secolo in seguito alla «decisiva alleanza» fra l’episcopato romano e la dinastia carolingia. E comunque la presenza ebraica in area italiana era preesistente. Sicché gli ebrei per secoli non furono «né tollerati, né sistematicamente avversati», dal momento che «l’inesistenza di una maggioranza forte dal punto di vista politico-religioso» e «la natura ancora elitaria e ristretta a circoli aristocratici decisamente acculturati della religione imperiale cristiana» facevano dell’Italia ostrogota, romana e longobarda «un arcipelago di usanze e di norme, di pratiche religiose e di abitudini rituali, nell’ambito delle quali la specificità ebraica non spiccava particolarmente».
Fino all’anno Mille, e anche per qualche secolo successivo, fu dunque assente «una qualsiasi forma di compattezza e di autorappresentazione sociale» che — a differenza di quella costruita, tanti secoli dopo, nell’ambito degli Stati nazionali moderni — fosse in grado di stabilire «una netta distinzione tra coloro che, in quanto cittadini e membri della collettività statale, erano dentro il sistema politico-sociale e civico e coloro che, in quanto stranieri, estranei e irriconoscibili dal punto di vista religioso e civico, erano esclusi da quel sistema».
Per circa mille anni, dal IV al XIV secolo, le relazioni tra cristiani ed ebrei nella Penisola sono altalenanti. Fino a quando cambia qualcosa che si avverte nell’attività di predicazione antiebraica degli Ordini mendicanti — in particolare quello francescano (ma anche il domenicano) — a partire dagli anni Trenta del Quattrocento. A dire il vero alcune «occasionali manifestazioni di avversione nei confronti degli ebrei» si erano avute in Sicilia, a Venezia (ma anche altrove) già nel corso del Trecento. È però dal primo Quattrocento che «in zone assai differenti d’Italia si nota un mutamento deciso del clima politico per ciò che riguarda la presenza ebraica e in particolare l’attività di prestito a interesse». A Napoli la sovrana Giovanna II nel 1427 irrigidisce le norme concernenti «la presenza degli ebrei nel Regno», laddove a Siena già nel 1420 il Comune aveva messo in discussione «l’utilità pubblica degli ebrei» accusandoli di «peggiorare, con la loro gestione del credito al consumo, le condizioni di vita dei cittadini più poveri». Da quel momento, a Firenze, Bologna, Milano e in Piemonte la convivenza tra ebrei e cristiani — pur in un’atmosfera «apparentemente tranquilla» — comincia ad essere caratterizzata «oltre che dalla sottolineatura dell’eccezionalità» evidenziata dal segno distintivo sull’abito, dalla «incostanza e dalla precarietà del soggiorno degli ebrei, il cui diritto a vivere e agire nelle città e nelle regioni veniva alternativamente affermato, negato, ripristinato o ammesso». Ancorché «formalmente ignorato».
La presenza delle comunità israelitiche — ben definite dal punto di vista religioso e rituale, giuridico e familiare — assume progressivamente «un carattere di estraneità» e gli ebrei appaiono, in Italia, «sempre più alieni e inquietanti». Tutto ciò come conseguenza dell’«epocale trasformazione della società italiana tardomedievale, oltre che dell’impennata di mortalità provocata dalle epidemie del secondo Trecento, della accelerazione finanziaria della vita economica, della accentuata proletarizzazione dei ceti meno abbienti e della sempre più visibile configurazione oligarchica, centralizzata e sovrana dei poteri governativi».
Al centro dell’attacco c’è la polemica contro il prestito a interesse per come viene gestito dagli ebrei. Ebrei che da questo momento vengono presentati alla stregua di «un pericolo per la sopravvivenza dei cittadini cristiani più poveri», di «un ostacolo alla libera circolazione della ricchezza nei mercati cittadini», di emissari «d’una minacciosa ingerenza straniera nell’economia dei territori cristiani attivamente impegnata a esportare i beni di questi territori acquisiti in forma di pegni a garanzia dei prestiti a interesse». Il che dà vita a tre importanti stereotipi: la rappresentazione degli ebrei come «usurai che impoveriscono», come «monopolisti che concentrano» e come «esportatori che sottraggono la ricchezza».
Bernardino da Siena, caposcuola dell’Osservanza francescana, negli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento — cioè poco prima della morte, nel 1444 — offre una sintesi dottrinale alla polemica nei confronti del prestito a interesse. Gli israeliti vengono rappresentati, volta a volta, come banchieri, medici, membri di una comunità religiosa che rifiuta le Verità cristiane e in quanto tali sono divenuti «un pericolo per la società italiana all’interno della quale si trovano a vivere». Bernardino, secondo Todeschini, sintetizza varie modalità che, a suo parere, descrivono l’esistenza degli ebrei nelle città italiana «servendosi dell’immagine metaforica del nemico che combatte i suoi avversari con armi diverse, alcune più e altre meno esplicite». Le tappe fondamentali di questo «percorso di ostilità» saranno nel 1462 la fondazione dei Monti di Pietà (il primo verrà fondato proprio quell’anno a Perugia) e, nel 1475, un terribile processo a Trento contro i presunti responsabili di un omicidio rituale. Processo che si conclude con una serie di condanne a morte.
Ma fino al 1462 le relazioni fra poteri italiani e gruppi ebraici erano state caratterizzate, secondo lo storico, da una «tradizionale ambiguità». Ambiguità che al Centro Nord aveva assunto «la forma dell’indifferenza o della non percezione della specificità comunitaria ebraica». E al Sud della «catalogazione essenzialmente fiscale delle comunità ebraiche». Poi, dopo l’istituzione dei Monti di Pietà — tra il 1492 e il 1510 — si era avuta l’espulsione degli ebrei dai Regni di Sicilia e di Napoli. E, dal 1516, la fondazione dei ghetti. Sostanzialmente, però, l’istituzione dei Monti di Pietà non determinò mai, nell’Italia centro settentrionale, l’eliminazione totale del prestito a interesse gestito dai banchieri ebrei. Anche se — sostiene lo studioso — ne mutò il significato politico ed economico portando a compimento la «ridefinizione del ruolo civico degli ebrei nei territori italiani». Agli ebrei restò concesso di gestire un credito «in grado di finanziare le attività di chi non aveva diritto di accedere a quello dei Monti, a mitigare dunque il bisogno di chi, cristiano o povero, non era tuttavia a sufficienza riconoscibile come abbastanza moralmente integro e virtualmente produttivo da poter ottenere un prestito dal Monte». Oppure di chi chiedeva in prestito «somme di cui non poteva giustificare l’impiego». Ciò che determinò «il raggiungimento di un punto critico nella relazione tra poteri cristiani e comunità ebraiche», già «messa in discussione da circa un secolo».
I francescani, nello stesso momento in cui miravano a sostituire il credito erogato dai Monti di Pietà a quello che «gli ebrei mettevano a disposizione della parte ritenuta più attiva della popolazione delle città e dei territori», lasciavano ai banchi ebraici la gestione delle «forme di credito irriconoscibili come produttive per gli Stati cristiani». E così determinavano una rappresentazione politica dei gruppi ebraici che ne sottolineava la «natura parassitaria e totalmente riassumibile in termini monetari». La realtà civica, giuridica, teologica ed economico-politica che, in varie forme, le comunità costituivano veniva in tal modo negata ed elusa, «benché nello stesso tempo essa fosse, almeno in parte riconosciuta da una minoranza intellettuale quale poteva essere quella dei circoli umanistici fiorentini, romani o napoletani».
Il discorso politico ed economico dei frati dell’Osservanza ha perciò l’effetto di produrre, anzi di «determinare», una «minimizzazione del significato pubblico dell’identità rituale e religiosa degli ebrei in sé stessa coerente con la più tradizionale disattenzione cristiana per la particolarità culturale o giuridica del mondo ebraico». A questo punto — prosegue Todeschini — la religione degli ebrei e la loro interpretazione delle Scritture — seppure come in passato passibili in sede teologica di un’imputazione di «colpevole resistenza alla vera fede» — perdono gradualmente «quanto ne aveva fatto una ragione in grado di legittimare in sede etico-politica la presenza in terra cristiana». In quest’epoca gli ebrei cessano di essere per la Chiesa la «prova storica della veridicità del messaggio cristiano» e della «legalità sacra dell’edificio politico scaturitone» e cominciano ad essere intesi come «presenze economicamente utili» ancorché «politicamente inquietanti». Sicché decadono nel discorso pubblico delle città-Stato o dei regni e vengono considerati come una «minaccia da tenere compiutamente sotto controllo, da inquisire ed eliminare per la via breve del battesimo forzato, oppure da rinchiudere nel chiuso dei ghetti in modo da poterle efficacemente circoscrivere».
Ma, a sorpresa — proprio tra Quattro e Cinquecento se ci si sottrae agli stereotipi storiografici, o ad essere più precisi, agli stereotipi «resistenti nel tempo e spesso accolti acriticamente dalla storiografia» — si nota una moltiplicazione di «prodotti culturali attestanti la complessa vivacità letteraria, talmudica, filosofica e poetica, memorialistica e sociopolitica» delle comunità israelitiche. Nell’Italia del Quattrocento si registra dunque una «contraddizione» fra l’esistenza e la fioritura di una cultura ebraica giuridica, filosofica e politica e «l’assenza sempre più netta di una percezione da parte dei poteri cristiani della specificità di queste comunità». Ed è così che nell’arco temporale che va dal 1462 — anno di fondazione del Monte di Pietà perugino — al 1515, quando il pontefice Leone X della famiglia de’ Medici dichiarerà la liceità degli interessi esigibili parte dei Monti (che segna l’inizio della conversione dei Monti in banche di Stato e Casse di risparmio locali), «la condizione degli ebrei verrà ridisegnata indipendentemente dalla “tolleranza” che continuò ad ammetterli nelle città o dalla “intolleranza” che ne produsse l’espulsione». Comincia qui per le comunità ebraiche, è la datazione di Todeschini, «il lungo periodo durante il quale, “tollerati” o “non tollerati”, segregati o espulsi, gli ebrei italiani dovranno resistere alla cancellazione del loro significato pubblico, civico e culturale, producendo nuove forme della convivenza, della memoria e dell’esistenza quotidiana». E per secoli la cristianità perderà l’opportunità di conservare un rapporto virtuoso con loro.
Corriere 13.3.18
Bibliografia
Una minoranza vista sempre con diffidenza dalle autorità
Esce in libreria dopodomani, giovedì 15 marzo, il saggio di Giacomo Todeschini Gli ebrei nell’Italia medievale (Carocci, pagine 268, e 24), che ridefinisce la visione tradizionale circa la presenza del popolo d’Israele nel nostro Paese. Nato nel 1950 a Milano, Todeschini ha insegnato Storia medievale all’Università di Trieste. Su temi contigui a quelli trattati in questo libro ha pubblicato il saggio La banca e il ghetto (Laterza, 2016). Un punto di riferimento degli studi sull’ebraismo è Gli ebrei in Italia , volume XI degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, curato da Corrado Vivanti nel 1996. Importante anche il lavoro di Attilio Milano Storia degli ebrei in Italia (Einaudi, 1963). Da segnalare infine il libro di Anna Foa Ebrei d’Europa (Laterza, 2004) e i tre volumi della Storia degli ebrei italiani di Riccardo Calimani (Mondadori, 2013-2015).
La Stampa 13.3.18
Nel centro di Napoli sta per aprire una Pompei sotterranea
Grazie ad un finanziamento da 30 milioni, tutti potranno ammirare i reperti archeologici ritrovati durante gli scavi della metropolitana Municipio
di Noemi Penna
Una nuova Pompei in centro a Napoli che metterà in bella mostra i reperti archeologici ritrovati durante gli scavi per la realizzazione delle stazioni «Municipio» e «Duomo» della linea 1 della metropolitana. È questo il progetto che sta prendendo forma nel capoluogo partenopeo, grazie ad un finanziamento da 30 milioni di euro erogato dal Cipe.
I soldi sono arrivati a dicembre e permetteranno ora di completare i lavori della stazione «Municipio» di Napoli, a pochi passi dal Maschio Angioino. Il cantiere, inaugurato nel 2000, ha subito ben 27 modifiche progettuali a causa dei numerosi ritrovamenti di rilevante importanza archeologica: da subito era stata prevista la valorizzazione e conservazione di una parte delle strutture antiche ritrovate durante gli scavi, e ora le gallerie diventeranno parte integrante della stazione della metro, accessibili con visite guidate dallo stesso atrio da cui si va ai treni.
Per la ricollocazione e valorizzazione di questi reperti archeologici, il nuovo sito archeologico si avvarrà di un team composto da grandi professionalità internazionali, coordinate dall’architetto portoghese Alvaro Siza, autore dell’intero progetto della stazione «Municipio» di Napoli.
Stiamo parlando di «Un modello di integrazione tra l’utilità rappresentata dal trasporto pubblico e la bellezza del patrimonio archeologico che si sta riscoprendo in questi anni nel sottosuolo cittadino: una nuova Pompei che sta emergendo grazie ai lavori della Metropolitana», ha commentato Ennio Cascetta, presidente della Metropolitana di Napoli.
Queste foto sono state scattate durante la prima visita del cantiere museale: una vera macchina del tempo che metterà insieme archeologia, storia, architettura, arte contemporanea. I lavori che valorizzeranno i reperti archeologici trovati durante gli scavi della metropolitana saranno in mostra in una grande galleria sotterranea che collegherà, una volta terminata, la stazione della metropolitana con il porto di Napoli.
«Una grande opportunità di crescita - ha detto Cascetta - per il nostro territorio e di valorizzazione della città. Napoli sarà al centro dell’attenzione mondiale per quanto riguarda la promozione e gestione del patrimonio culturale che si integra alla più grande opera pubblica italiana».
Le immagini sono disponibili qui
http://www.lastampa.it/2018/03/10/societa/viaggi/italia/nel-centro-di-napoli-sta-per-aprire-una-pompei-sotterranea-4gI8cA85HohPTO8h5lDAHJ/pagina.html
La Stampa 13.3.18
Ada Gobetti
L’ottimismo del gallo e il talento di Ada
nell’insegnare ai ragazzi
di Andrea Parodi
Mezzo secolo Ada Gobetti con il marito Piero che morì nel 1926 Lei invece se ne andò il 14 marzo del 1968 Il Polo del ’900 la ricorda a 50 anni dalla morte esplorando le molteplici eredità che ha lasciato nella sua vita poliedrica, che l’ha vista impegnata nel giornalismo, nella politica, ma anche in ambito pedagogico come autrice di libri per bambini
Ada Gobetti era convinta che nella vita «si debba avere un’idea per cui battersi, non impersonalmente, ma con tutta la passione più viva». Leggendo il suo breve testamento spirituale, scritto nel 1959, si comprende meglio la figura di una donna forte e tenace che ha segnato la storia del Novecento, in particolare quello degli anni dell’antifascismo, della lotta di Liberazione e della ricostruzione della vita democratica torinese nelle file del Partito d’Azione. Una donna che è vissuta quasi in simbiosi con le idee del marito Piero Gobetti, morto quando non aveva ancora compiuto 25 anni. Una protagonista ricca di ideali, «per i quali mi impegno fino in fondo e per i quali sono pronta a morire», pur riconoscendo che si trattava di «un’idea ancora alquanto ottocentesca».
Nell’occasione del cinquantesimo anniversario dalla sua morte, avvenuta a Torino il 14 marzo 1968, il Polo del ‘900 ripercorre domani non solo le tappe dell’intensa e poliedrica vita di Ada Gobetti, ma soprattutto intende ricostruirne ed esaltarne i valori morali e personali per cercare di trovare oggi, a mezzo secolo di distanza, la sua eredità. In poche parole, proprio come lei stessa richiama nel suo testamento, per continuare il suo lavoro e farla vivere ancora.
Si tratta di una vera e propria sfida, perché i talenti espressi da Ada Gobetti lungo la sua vita sono stati tanti: la musica, la letteratura, la filosofia, la politica, il giornalismo e la pedagogia. «Proprio su quest’ultimo voglio richiamare l’attenzione – scrive Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti e organizzatore del convegno – perché nel rapporto con i ragazzi e gli studenti Ada Gobetti ha lasciato importanti insegnamenti».
Alla fine degli anni ’50 fonda e dirige la rivista «Il Giornale dei Genitori», vero punto di riferimento pedagogico italiano. «Uno degli aspetti meno studiati della produzione di Ada è quella di autrice di libri per ragazzi - spiega Pietro Polito – e tra questi c’è sicuramente la “Storia del gallo Sebastiano”». Un racconto curioso e fantastico dove un simpatico e anticonformista galletto vive vicende comiche e sentimentali in cui lo stesso protagonista risolve i fondamentali problemi dell’infanzia e della prima adolescenza secondo una sua originale ma ottimistica concezione di vita. «In questa storia, purtroppo non più letta e adottata nelle scuole – spiega Polito – si legge distintamente il carattere di Ada Gobetti e del marito Piero».
Cosa accomuna le varie anime di Ada Gobetti è quella di essere stata una donna fuori dal comune e di aver precorso i tempi durante tutta la sua vita. «Ed è questa – conclude Polito - la sfida maggiore per la giornata a lei dedicata: trovare ancora oggi spunti dai suoi lavori, dalle sue idee, dai suoi pensieri, dalle sue molteplici attività».
Repubblica Salute 13.3.18
Antidepressivi ai ragazzi: l’efficacia è modesta
di Francesco Cro
Psichiatra, dipartimento di Salute Mentale, Viterbo
L’uso di antidepressivi in bambini e adolescenti ha un’efficacia limitata e può associarsi a effetti collaterali importanti. È il risultato di una ricerca coordinata dalla psicologa Cosima Locher, dell’Università di Basilea, che ha esaminato in modo sistematico i dati di oltre 6.700 ragazzi (età media 13 anni). L’analisi dei ricercatori svizzeri ha evidenziato una moderata azione terapeutica dei farmaci, ma anche un’alta frequenza di effetti indesiderati, che spesso inducono i giovani pazienti a interrompere la terapia. L’effetto benefico delle cure varia in base alle condizioni: è maggiore nei disturbi d’ansia, medio in quelli ossessivi (caratterizzati da rituali ripetuti di controllo, ordine o pulizia) e più scarso in quelli depressivi. La psichiatra Sally Nicola Merry, docente di salute mentale del bambino e dell’adolescente all’Università di Auckland, osserva che i giovani pazienti sono molto sensibili alla rassicurazione e al sostegno psicologico e mostrano una elevata frequenza di effetti collaterali anche in risposta alle psicoterapie e persino ai trattamenti placebo. Una strategia graduale, con l’utilizzo di metodiche basate sul rilassamento e sullo stile di vita (sonno, dieta, esercizio fisico), sembrerebbe l’approccio più indicato, seguito nei casi più importanti dall’intervento psicoterapeutico, combinato con i farmaci quando c’è l’effettiva necessità. Il primo obiettivo è l’accessibilità alle cure.
Fondamentali, anche sul web, le campagne di screening e sensibilizzazione e la lotta allo stigma.