lunedì 12 marzo 2018

Il Fatto 12.3.18
Renzi lascia e perde pezzi. Ma il Pd è ancora cosa sua
Oggi il fiorentino si dimette ma fa dettare la linea a Orfini: “Mai con i 5Stelle”. Vuole Delrio segretario e niente primarie
di Carlo Di Foggia


A voler fare una sintesi brutale, la situazione è questa: il Pd ha un bisogno disperato di evitare fratture precoci al suo interno; non conviene alle minoranze e neanche a Matteo Renzi, a cui serve tempo per far nascere quella “cosa al di fuori del Pd” di cui si parla al Nazareno. Nessuna conta interna, quindi, non ancora. L’ormai uscente segretario diserterà oggi la prima direzione post disastro elettorale. Il renziano presidente Matteo Orfini leggerà la lettera con cui il fiorentino si dimette. La guerra è così sui tempi di una reggenza indispensabile, terreno perfetto per le correnti Pd, strane creature che danno il loro meglio quando si sfalda una dirigenza. Con una novità non da poco: chi ha perso controlla gran parte di un gruppo parlamentare balcanizzato.
Il partito si affida al vicesegretario Maurizio Martina, che oggi leggerà la relazione sulla disfatta di cui pure è stato artefice in tandem con Renzi. Lo statuto gli consegna il ruolo di reggente temporaneo. La direzione, 200 anime in ebollizione, convocherà per aprile l’assemblea nazionale. Il diktat renziano – gentilmente recapitato ieri da Orfini a In Mezz’ora (Rai3) – è che sia l’assise dei mille, che Renzi domina, a eleggere il nuovo segretario di transizione.
Niente primarie, dunque, sul modello di Guglielmo Epifani che traghettò il partito per un anno nel post Bersani. La guerra è, come detto, sui tempi, e a cascata sul nome. In molti, da Andrea Orlando a Michele Emiliano, vogliono che la direzione, e poi l’assemblea dettino anche i tempi per l’apertura della fase congressuale, magari in autunno o nel 2019 (altrimenti si può arrivare fino al 2021).
A Matteo Renzi, che perde pezzi tra dirigenti e fedeli, ma che controlla metà della direzione e il 60% dei parlamentari, serve tempo. I renziani, Orfini in testa, vogliono una transizione guidata da Graziano Delrio. Il ministro dei Trasporti per ora prende tempo, ben sapendo di non avere l’appoggio di Emiliano e soprattutto di Dario Franceschini, monumento equestre al tatticismo da corrente e azionista di peso nel partito, che spinge per Martina, considerato un traditore dai renziani ma che ha il nulla osta della minoranza. Poi ci sono quelli che – come Nicola Zingaretti – si candideranno solo alle primarie. Nel breve sembra invece probabile che il reggente Martina dia vita a una nuova segreteria “collettiva”, aperta a tutte le anime del partito in subbuglio. Per impedirlo i renziani sarebbero allo scontro in direzione e non sarebbe una grande idea visto che le minoranze (Orlando, Emiliano, Cuperlo) e le forze dei cosiddetti “governativi” (Franceschini, Gentiloni, Minniti) sommano a quasi metà del “parlamentino” dem.
La guerra per bande sui nomi ha poi il suo prologo nelle scelte, per così dire, di campo, visto che l’assemblea si terrà dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, la nomina dei capigruppo e il primo round di consultazioni al Quirinale. Al momento c’è solo Emiliano a proporre un appoggio esterno ai 5Stelle. Una mossa in questa direzione sarebbe l’elezione di un esponente Pd alla presidenza della Camera con l’appoggio del M5s. Lo scenario peggiore per Renzi, al punto che ieri Orfini è stato costretto a chiudere subito all’ipotesi avanzata in mattinata da Emiliano: “Non ci sono le condizioni.
È legittimo e ragionevole che Lega e M5S si dividano le presidenze. Se il Pd desse l’appoggio a un governo 5Stelle sarebbe la sua fine”, ha spiegato il presidente del Pd. Poi l’affondo: “Non si dimette solo Renzi, ci consideriamo tutti dimissionari”. Eppure nel partito sono in pochi a crede all’uscita di scena del fiorentino. Secondo Emiliano “Renzi studia la rivincita. Ha fatto una legge elettorale dove vince chi arriva terzo in un sistema tripolare. Ha vinto in realtà e può determinare il governo”. È, forse, l’unica certezza nell’ultima pochade del Partito democratico: le minoranze possono sopravvivere a cinque anni di opposizione, il fiorentino e il sistema di potere che ha messo in piedi no.