Corriere 27.3.17
l’intervista
Calenda: i populisti dicano se sfonderanno il deficit
di Federico Fubini
Ministro Carlo Calenda, lei prevede un governo basato sull’asse M5S-Lega?
«Plausibile.
Se si guarda alla responsabilità finanziaria, le coalizioni sono
chiare. La pensano in modo simile. Ma per evitare la procedura per
deficit eccessivo, l’Italia in autunno deve fare una manovra per il 2019
con il deficit allo 0,9% del Pil».
In passato si è sempre rinegoziato. Perché ora no?
«Qualcosa
si può strappare. Ma non il 3% che, tra l’altro, neanche basterebbe per
Flat Tax, Reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero. E se poi
disinnescano anche gli aumenti Iva? Per i populisti il tempo dei talk
show è finito. M5S e Lega sono stati votati anche per distribuire
risorse, rovesciando il tavolo a Bruxelles. Ma attenzione, dopo Brexit
l’Europa ha un atteggiamento diverso. Fossi la Lega o M5S, non mi
aspetterei di ricavare qualcosa facendo sceneggiate a Bruxelles: chi non
sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea».
La calma sui mercati non sembra confermare i suoi timori.
«La
situazione geopolitica è fragile. L’Ue ha fronti aperti con Stati
Uniti, Russia e Turchia, con i Paesi di Visegrad e con l’Africa sulle
migrazioni. Se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può
partire rapidamente. Ci sono segnali. Il grande fondo Blackrock per ora
non compra più debito italiano».
Non è giusto che chi prende i voti possa governare senza pistole puntate?
«Basta
che abbia chiari i rischi che ci fa correre. Chi governerà ha promesso
misure che implicano una procedura europea contro l’Italia sui conti
pubblici. Si vuole questo? O hanno cambiato idea? Gli italiani hanno
diritto di saperlo».
Gli elettori hanno espresso una maggioranza contro le regole dell’euro.
«Credo
che gli italiani continuino a essere europeisti. La crisi però è stata
lunghissima. Nell’ultima legislatura tutti gli indicatori sono
migliorati in modo sostanziale, ma le ferite erano profonde e non si
sono ancora chiuse. La strada giusta è quella degli ultimi governi, le
scorciatoie sono attraenti almeno finché non si inizia a percorrerle.
Poi ci si accorge che sono anche pericolose».
Tutto qui come esame della sconfitta?
«No,
certo. Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del
futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la
politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee
dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica
che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla
globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e
questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza.
Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i
disagi del presente e governare le transizioni».
Il Pd ha lasciato la difesa dei deboli ai populisti?
«I
governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli,
dalle crisi aziendali al reddito di inclusione, lavorando su
investimenti e crescita: da industria 4.0 al taglio delle tasse sulle
imprese. Ma ha dato poca legittimità alle paure e rappresentato in modo
semplicistico il futuro. Il populista che promette di occuparsi delle
paure di oggi è più connesso a una società in cui la fiducia è fragile».
Lei è andato all’Ilva o all’Embraco e l’hanno accusata di essere uno statalista. Lo è?
«La
cosa interessante è che i liberali hanno dimenticato che essere tali
significa osservare la realtà, interagire con essa. Non sulla base di
costruzioni ideologiche. Ilva può ricominciare a produrre acciaio in
maniera efficiente, e così Alcoa. E Embraco è un’azienda in utile che
viene spiazzata da una concorrenza sleale. Ignorare la realtà è una
ragione della caduta delle élite liberal-democratiche. Come quando
avevamo deciso che l’industria manifatturiera in Occidente non aveva
futuro, lasciando campo alla concorrenza sleale della Cina».
Dunque ha ragione Donald Trump con i dazi?
«No,
perché mira a chiudere il mercato e una guerra commerciale che
colpirebbe il made in Italy. Altra cosa sono i dazi antidumping che
abbiamo contribuito a varare in Europa. Detto questo, il rapporto
transatlantico dobbiamo coltivarlo, è fondamentale. Qui il rischio di
uno slittamento di M5S e Lega verso altri lidi mi spaventa».
Nel Pd ha trovato sensibilità su questi temi?
«Non saprei. Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e ho presenziato alla direzione. Fine».
Non l’hanno chiamata? Il neosegretario Martina non l’ha cercata?
«Non ultimamente. Ma il mio riferimento nel Pd è Paolo Gentiloni, con lui parlo spesso».
Deluso?
«No.
Penso siano impegnati a tenere insieme il partito e questa è
giustamente la loro priorità. Mi permetto di osservare che sarebbe
meglio evitare la lotta fra caminetti e gigli. Invece bisogna far
riavvicinare al Pd tante persone di qualità, facendo una grande campagna
per le iscrizioni e coinvolgendo persone da fuori».
Però lei ha
l’aria di parlare a un’area macroniana di centrosinistra, centro e
centrodestra: gli italiani che esportano, studiano, vanno all’estero.
«Non
sarebbe utile per il Pd? Ma oggi il tema è rappresentare anche quelli
che perdono: i giovani nelle aree più arretrate del Paese, ad esempio.
Dovremmo identificare aree di crisi sociale dove varare strumenti
straordinari per i ragazzi: doposcuola per portarli alla lettura, lingue
e borse di studio universitarie. Più utili del reddito di cittadinanza e
meno cari».
Lei prepara la sua candidatura a leader del fronte moderato?
«Ho
sempre fatto quello che ho detto. Mi dicevano che ero il candidato di
Berlusconi e non l’ho mai incontrato. Che mi sarei candidato al
Parlamento, malgrado io smentissi, e non l’ho fatto. Se deciderò di fare
un’operazione politica, lo dirò con chiarezza. Di certo un contributo
continuerò a darlo».
«L’approccio alle responsabilità finanziarie
di M5S e Lega è simile — dice al Corriere Carlo Calenda —, con loro al
governo si rischia una procedura Ue sui conti». E sul Pd: «Il partito
rischia di deragliare, basta lotte tra caminetti e gigli. Ma da quando
sono iscritto nessuno mi ha più cercato».
Ministro Carlo Calenda, lei prevede un governo basato sull’asse M5S-Lega?
«Plausibile.
Se si guarda alla responsabilità finanziaria, le coalizioni sono
chiare. La pensano in modo simile. Ma per evitare la procedura per
deficit eccessivo, l’Italia in autunno deve fare una manovra per il 2019
con il deficit allo 0,9% del Pil».
In passato si è sempre rinegoziato. Perché ora no?
«Qualcosa
si può strappare. Ma non il 3% che, tra l’altro, neanche basterebbe per
Flat Tax, Reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero. E se poi
disinnescano anche gli aumenti Iva? Per i populisti il tempo dei talk
show è finito. M5S e Lega sono stati votati anche per distribuire
risorse, rovesciando il tavolo a Bruxelles. Ma attenzione, dopo Brexit
l’Europa ha un atteggiamento diverso. Fossi la Lega o M5S, non mi
aspetterei di ricavare qualcosa facendo sceneggiate a Bruxelles: chi non
sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea».
La calma sui mercati non sembra confermare i suoi timori.
«La
situazione geopolitica è fragile. L’Ue ha fronti aperti con Stati
Uniti, Russia e Turchia, con i Paesi di Visegrad e con l’Africa sulle
migrazioni. Se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può
partire rapidamente. Ci sono segnali. Il grande fondo Blackrock per ora
non compra più debito italiano».
Non è giusto che chi prende i voti possa governare senza pistole puntate?
«Basta
che abbia chiari i rischi che ci fa correre. Chi governerà ha promesso
misure che implicano una procedura europea contro l’Italia sui conti
pubblici. Si vuole questo? O hanno cambiato idea? Gli italiani hanno
diritto di saperlo».
Gli elettori hanno espresso una maggioranza contro le regole dell’euro.
«Credo
che gli italiani continuino a essere europeisti. La crisi però è stata
lunghissima. Nell’ultima legislatura tutti gli indicatori sono
migliorati in modo sostanziale, ma le ferite erano profonde e non si
sono ancora chiuse. La strada giusta è quella degli ultimi governi, le
scorciatoie sono attraenti almeno finché non si inizia a percorrerle.
Poi ci si accorge che sono anche pericolose».
Tutto qui come esame della sconfitta?
«No,
certo. Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del
futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la
politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee
dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica
che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla
globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e
questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza.
Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i
disagi del presente e governare le transizioni».
Il Pd ha lasciato la difesa dei deboli ai populisti?
«I
governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli,
dalle crisi aziendali al reddito di inclusione, lavorando su
investimenti e crescita: da industria 4.0 al taglio delle tasse sulle
imprese. Ma ha dato poca legittimità alle paure e rappresentato in modo
semplicistico il futuro. Il populista che promette di occuparsi delle
paure di oggi è più connesso a una società in cui la fiducia è fragile».
Lei è andato all’Ilva o all’Embraco e l’hanno accusata di essere uno statalista. Lo è?
«La
cosa interessante è che i liberali hanno dimenticato che essere tali
significa osservare la realtà, interagire con essa. Non sulla base di
costruzioni ideologiche. Ilva può ricominciare a produrre acciaio in
maniera efficiente, e così Alcoa. E Embraco è un’azienda in utile che
viene spiazzata da una concorrenza sleale. Ignorare la realtà è una
ragione della caduta delle élite liberal-democratiche. Come quando
avevamo deciso che l’industria manifatturiera in Occidente non aveva
futuro, lasciando campo alla concorrenza sleale della Cina».
Dunque ha ragione Donald Trump con i dazi?
«No,
perché mira a chiudere il mercato e una guerra commerciale che
colpirebbe il made in Italy. Altra cosa sono i dazi antidumping che
abbiamo contribuito a varare in Europa. Detto questo, il rapporto
transatlantico dobbiamo coltivarlo, è fondamentale. Qui il rischio di
uno slittamento di M5S e Lega verso altri lidi mi spaventa».
Nel Pd ha trovato sensibilità su questi temi?
«Non saprei. Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e ho presenziato alla direzione. Fine».
Non l’hanno chiamata? Il neosegretario Martina non l’ha cercata?
«Non ultimamente. Ma il mio riferimento nel Pd è Paolo Gentiloni, con lui parlo spesso».
Deluso?
«No.
Penso siano impegnati a tenere insieme il partito e questa è
giustamente la loro priorità. Mi permetto di osservare che sarebbe
meglio evitare la lotta fra caminetti e gigli. Invece bisogna far
riavvicinare al Pd tante persone di qualità, facendo una grande campagna
per le iscrizioni e coinvolgendo persone da fuori».
Però lei ha
l’aria di parlare a un’area macroniana di centrosinistra, centro e
centrodestra: gli italiani che esportano, studiano, vanno all’estero.
«Non
sarebbe utile per il Pd? Ma oggi il tema è rappresentare anche quelli
che perdono: i giovani nelle aree più arretrate del Paese, ad esempio.
Dovremmo identificare aree di crisi sociale dove varare strumenti
straordinari per i ragazzi: doposcuola per portarli alla lettura, lingue
e borse di studio universitarie. Più utili del reddito di cittadinanza e
meno cari».
Lei prepara la sua candidatura a leader del fronte moderato?
«Ho
sempre fatto quello che ho detto. Mi dicevano che ero il candidato di
Berlusconi e non l’ho mai incontrato. Che mi sarei candidato al
Parlamento, malgrado io smentissi, e non l’ho fatto. Se deciderò di fare
un’operazione politica, lo dirò con chiarezza. Di certo un contributo
continuerò a darlo».