giovedì 22 marzo 2018

Corriere 22.3.18
L’analisi La crisi nella Santa Sede
Il primo dualismo fra i Pontefici. Così si è rotto l’incantesimo
di Massimo Franco


Ma Francesco difende il suo collaboratore, che non ammette l’errore
L a settimana che doveva segnare l’apoteosi del quinquennio di Francesco sta segnando una delle crisi interne più acute del suo papato. E esplode proprio nel cuore di Casa Santa Marta, l’albergo dove vive dentro la Città del Vaticano: in quella cerchia ristrettissima di collaboratori che hanno plasmato il suo profilo e la sua grande popolarità. In pochi giorni, si è incrinata la coabitazione armoniosa che l’attuale Pontefice e il suo predecessore erano riusciti a stabilire; e proprio sul tema della dottrina, uno dei più delicati. Senza che né Jorge Mario Bergoglio né Joseph Ratzinger volessero, si sono trovati al centro di un pasticcio tale da farli apparire distanti, segnalando divergenze mai prima emerse. Non solo. Il modo maldestro col quale è stata usata la lettera di appoggio di Benedetto a Francesco su una collana di scritti teologici rischia di sgualcire la credibilità dell’intera macchina comunicativa del Vaticano.
Per un lungo periodo, sembrava che non esistessero «due Papi». Miracolosamente, è il caso di dirlo, nessun dualismo né divergenza erano affiorati: come se ognuno dei due sapesse quanto fosse importante la proiezione di una Chiesa unita; tanto più dopo le dimissioni traumatiche di Ratzinger nel febbraio del 2013, le prime dopo settecento anni. Sebbene ultimamente apparisse meno scontata, l’idea di una continuità tra i due pontificati sopravviveva come una sorta di «verità vaticana» da proteggere e diffondere allo scopo di rassicurare il mondo cattolico. Anche quando veniva strattonato dagli ambienti più conservatori e ostili a Francesco, Benedetto si era limitato a rinnovare la sua lealtà e ubbidienza al successore.
Questa narrativa, adesso, promette di dovere essere ricalibrata. Benedetto ha parlato di «stolto pregiudizio» di quanti attaccano teologicamente Francesco; e di «continuità interiore», espressione così sottile da suonare lievemente criptica, tra lui e Bergoglio. Ma le sconcertanti omissioni sulle critiche di Ratzinger all’operazione editoriale, la divulgazione a tappe della sua missiva, e solo sotto la spinta di uno sconcerto crescente, hanno regalato sospetti di manipolazione, se non di censura. Il tentativo di puntellare le lodi di una serie di teologi nei confronti di Francesco con l’imprimatur del «teologo massimo» Benedetto, si è trasformato in un doloroso autogol: anche perché alla fine si è scoperto che tra i «lodatori» figurano un paio di studiosi riconosciuti da Ratzinger come detrattori ostinati sia del papato di Giovanni Paolo II, sia del suo.
La vicenda, almeno per ora, si conclude con una lettera di dimissioni formali quanto atipiche di monsignor Dario Viganò, l’uomo della comunicazione di Francesco. Si tratta di un gesto apprezzabile nella sua inevitabilità, che però può sollevare altre perplessità. L’atipicità sta nel fatto che Viganò, nella sua missiva a Francesco, non riconosce gli errori commessi. Non c’è un solo riferimento all’uso centellinato e pilotato delle parole di Benedetto. Si parla solo delle «molte polemiche circa il mio operato». Il prefetto motiva la volontà di «farmi in disparte» con l’esigenza di non «destabilizzare» le riforme della comunicazione affidategli da Francesco nel 2015. Fa un passo indietro per «imparare a rinascere dall’alto», scrive citando i testi sacri, e non offrire pretesti ai nemici.
È una versione che vela qualunque responsabilità. Ma il problema ormai va al di là della sua persona. A colpire è la risposta di Francesco, dalla quale si desume una certa resistenza a accettare le dimissioni. Il Papa spende tali e tante lodi sull’«umiltà e il profondo sensus ecclesiae », lo «spirito di servizio» del monsignore, da rendere tutto un po’ singolare: anche perché a Viganò vengono attribuiti piglio decisionista e modi sbrigativi. Il fatto stesso che accogliendo «non senza qualche fatica» le dimissioni crei per il «Reverendissimo Monsignore» un nuovo incarico, quello di «assessore», e gli chieda di continuare in attesa del nuovo prefetto, acuisce la confusione.
Perfino nella cerchia bergogliana si percepisce lo sconcerto. «Questo non è un caso di promoveatur ut amoveatur . Siamo all’ amoveatur ut conservatur », scolpisce un cardinale. E cioè: Viganò rimosso perché prosegua più o meno come prima; o comunque perché questo sia il messaggio dentro le Sacre mura. Ufficialmente, per il momento prenderà il suo posto l’attuale segretario del dicastero, l’argentino Lucio Adrian Ruiz. Ma la procedura conferma la determinazione con la quale il Papa difende le scelte compiute e i suoi collaboratori: anche quando provocano reazioni controverse e farebbero credere a un ripensamento.
La vicenda, tuttavia, non sembra archiviata. C’è chi sottolinea polemicamente la rapidità con la quale sono stati silurati riformatori designati da Francesco come il supervisore dei conti Libero Milone o il vicedirettore dello Ior, Giulio Mattietti. E la contrappone alla difesa del prefetto per la comunicazione: argomenti che gli avversari usano per accreditare l’affanno e le contraddizioni del papato.
Di certo, l’idea che la gestione della lettera di Benedetto possa essere usata per accreditare un complotto contro le riforme, lascia perplessi; ma può favorirlo. E, sullo sfondo di quanto è accaduto, fa riflettere anche il convegno organizzato a fine gennaio in Vaticano contro le informazioni manipolate e le fake news . Senza saperlo, il Vaticano poneva un problema che in qualche misura si sta rivelando anche suo. E ripropone in modo imprevisto, per la prima volta, la questione dei «due Papi».