Corriere 20.3.18
il senso dello stato un valore del dopo-elezioni
di Antonio Macaluso
Ci
fu un tempo nel quale un italiano su tre votava per il Pci di Enrico
Berlinguer. Il partito «dell’onestà, della speranza civile, del riscatto
sociale. Era composto e diretto da persone che credevano in quello che
dicevano, oneste e colte, e da milioni di semplici cittadini che
sentivano di partecipare a un progetto generale e riempivano la loro
esistenza del significato, civile e morale, di un’identità laica, di una
missione in cui la parola politica trovava, nelle assemblee dei gruppi
di contadini o nelle cellule di fabbrica, il suo senso popolare più
vero». Così parlava Giorgio Gaber, un «meraviglioso irregolare», la cui
lucida sintesi Walter Veltroni ha riportato nella prefazione del suo
libro dedicato a Berlinguer. Un testo che racconta, a suon di
testimonianze, di un tempo e di un partito che — alla luce di quel che è
oggi la sinistra italiana — sembrano storia remota. Forse solo una
parola — opposizione — lega due mondi così lontani, alieni se non nelle
radici.
Che tipo di opposizione ha in mente oggi il Pd dopo la
dura sconfitta del 4 marzo? Come deciderà di interpretarla? Anche il Pci
fece tipi diversi di opposizione: ora intransigente, ora lasciando
nascere — «per senso di responsabilità» — esecutivi democristiani senza
maggioranza (Andreotti 1976), ora cercando il «compromesso storico» per
guidare il Paese in modo condiviso. Opposizione, dunque, non è solo
sostenere tutto ciò che il nemico combatte e combattere tutto ciò che il
nemico sostiene, come riteneva Mao Tse Tung. Nell’aprile 2008,
all’indomani della sconfitta incassata dal Pd, il segretario Veltroni —
in uno scenario bipolare, quindi assai più lineare — annuncia
un’opposizione «molto forte» al centrodestra vittorioso: «Berlusconi non
si illuda: non gli faremo sconti». E ancora: «Faremo un’opposizione
riformista, dura ma non ideologica. Vigileremo sul rispetto delle
regole. Incalzeremo il futuro premier sulla montagna di promesse che ha
seminato in campagna elettorale». Insomma, un’opposizione classica,
facile, invidiabile visto il quadro disarticolato — e annunciato — che
la cervellotica legge elettorale ci ha consegnato. Il che non toglie che
— al di là di vinti e vincitori — chi fa politica dovrebbe avere come
orizzonte fisso la salvaguardia del Paese. E ha ragione Massimo D’Alema
nel pensare che a fare opposizione ci vuole più passione che a
governare.
Ma c’è un ma: il senso dello Stato, il rispetto delle
istituzioni e dei cittadini-elettori deve valere per tutti, anche e
soprattutto per chi vince. Il che non è per niente un fatto scontato,
come le cronache di questi giorni ci raccontano. Di fronte a un Pd non
solo perdente, ma umiliato e rabbioso per le proporzioni della
sconfitta, ci sono due vincitori dai tratti a volte inutilmente
arroganti. Con una differenza sostanziale: mentre Matteo Salvini — che
ha ottenuto i consensi maggiori all’interno della coalizione che ha
incassato la maggioranza dei voti nel Paese — tiene ferma la posizione
pre elettorale del «mai con il Pd», Luigi Di Maio continua a picchiare
il Pd, pretendendone nello stesso tempo il senso di responsabilità
necessario al M5S di formare un governo. Un atteggiamento che, se
solleva dubbi sulla strategia politica del giovane leader grillino, ne
conferma l’arroganza. Il che non è un giudizio, ma ciò che
realisticamente appare a chiunque abbia un minimo di buon senso e
oggettività.
Essere esposti al pubblico ludibrio e chiamati a
sostenere — per il bene del popolo sovrano — chi si delizia di quella
sorte sventurata, di politico ha assai poco. Tutti, dunque, sono con lo
sguardo rivolto al Quirinale nella speranza che Sergio Mattarella —
punto di riferimento non solo per la carica che ricopre ma per la
statura istituzionale acquisita — trovi il punto debole dei muri eretti
da vinti e vincitori. D’altra parte, come ha avuto modo di dire Romano
Prodi, il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso
un’azione politica forte e coraggiosa. In fondo, è quel pessimismo
dell’intelligenza, ottimismo della volontà di gramsciana memoria che
tante volte è stato richiamato in situazioni di difficoltà. Dal momento
che la pur breve storia dell’Italia repubblicana ci offre una gamma
pressoché infinita di soluzioni a crisi e passaggi istituzionali
delicati, è anche da lì che bisogna trarre suggerimenti e spunti. Il
fatto che tanti milioni di italiani abbiano espresso così palesemente la
volontà di cambiare in modo radicale il «sistema» nel suo complesso non
esime chi li vuole rappresentare in modo corretto dall’attenersi sempre
e comunque ai principi di una democrazia più o meno matura. Per contro,
chi ha perso difficilmente potrà interpretare l’opposizione come una
sorta di arma impropria per consumare vendette e trovare nuovi consensi.
Palmiro Togliatti dopo l’attentato del ’48 invitò i militanti comunisti
«a non fare fesserie». Ecco, giusto settant’anni dopo, evitiamo
fesserie.