Corriere 15.3.18
Risponde Aldo Cazzullo
La vera lezione di Stephen Hawking
Caro Aldo,
la
scorsa notte il cielo era pieno di stelle... Stephen Hawkins, il grande
astrofisico è morto. Grazie a lui per le sue scoperte, per la sua
allegria e, soprattutto, per averci ricordato che la vita vale la pena
essere vissuta. Più che iniziative sul fine vita ci vorrebbero uomini
che parlano del suo inizio, del suo svolgimento (a volte anche
drammatico ma mai privo di senso) e del suo valore.
Angelica Chiara Gallo
Cara Angelica,
Stephen
Hawking ha lasciato la sedia a rotelle a cui era inchiodato il suo
corpo sofferente per raggiungere forse una dimensione dello spazio-tempo
dove il suo spirito fluttua libero. Intuì cose non alla nostra portata.
Di lui dovremmo però trattenere almeno due idee.
È importante,
come Hawking ha detto, che la tecnologia continui a servire gli uomini, e
non viceversa, altrimenti diventeremo schiavi dei computer. Siamo
entrati nell’era grandiosa e terribile della riproducibilità tecnica
della vita: l’uomo crea l’uomo, o ha l’illusione di farlo. Presto
costruiremo uomini nuovi, frutto della clonazione, dell’intelligenza
artificiale, della robotica, che avranno come cervello il computer e
come memoria la rete: sapranno molte più cose di noi, saranno molto più
intelligenti di noi; ed è fondamentale che continuino a obbedirci, che
desiderino le cose che anche noi desideriamo; e non finisca come in 2001
Odissea nello spazio, dove Hal 9000 si ribella all’uomo (e alla fine
viene sconfitto. Ma Kasparov, l’ex campione di scacchi divenuto
dissidente anti-Putin, che ai bei tempi aveva sconfitto un computer, ha
detto di recente che i computer di oggi gli darebbero scacco matto in
poche mosse).
È altrettanto importante ricordare sempre che l’uomo
è più forte di qualsiasi accidente possa porsi sul suo cammino, anche
il più ingiusto. Vale per il grande scienziato inglese quel che scrisse
di sé il poeta vittoriano William Ernest Henley, tagliato a pezzi per
una crudele forma di tubercolosi: «I’m the master of my fate, I’m the
captain of my soul»; sono il padrone del mio destino, sono il capitano
della mia anima. Era la poesia che Nelson Mandela ripeteva dentro se
stesso nei ventisette anni passati nelle carceri dell’apartheid.