Corriere 14.3.18
«La legge su Auschwitz? La Polonia ha sbagliato tutto»
Il direttore del Museo: ma l’antisemitismo è in crescita in tutta Europa
di Maria Serena Natale
Oswiecim-Auschwitz
«Questo è un luogo che grida, e chiama ciascuno di noi». Piotr Cywinski
è il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, prima linea nella
guerra della memoria scatenata in Polonia dalla nuova legge sulla Shoah,
monumento di ciminiere e filo spinato che continua a interrogare la
coscienza dell’Europa e del mondo, 75 anni dopo la liquidazione del
Ghetto di Cracovia. Era la notte fra il 13 e il 14 marzo 1943, a 60
chilometri da questi binari ottomila persone furono rastrellate e
inviate nei campi di concentramento. Scompariva la storica comunità
ebraica della città dei re polacchi.
Comunità che lentamente si
ricostituisce. Ora c’è il timore che la legge sulla Shoah alimenti un
nuovo odio in quella parte di Polonia che si sente sotto assedio.
«L’antisemitismo
è in crescita ovunque in Europa, in modalità differenti. Nella versione
più accettata si presenta come militanza anti-israeliana con i vari
appelli al boicottaggio dello Stato ebraico, ma analizzandolo in
profondità ci si scontra sempre con il vecchio nucleo antisemita. È una
forma di xenofobia e come tutte le fobie ha un fondo irrazionale,
impossibile da scalfire con gli strumenti della logica. Quanto al
ritorno degli ebrei, oggi a Cracovia c’è una piccola comunità, tra le
più vivaci del Paese, e i suoi giovani sono straordinari, ma temo che si
tratti di un fenomeno residuale, perché la macchina di morte tedesca ha
fatto il suo lavoro e il passato non si cancella».
Questa è
sempre stata terra di frontiera attraversata da contaminazioni
culturali. Il Paese che dice no all’immigrazione e si allontana dal
resto d’Europa tradisce se stesso?
«Qualsiasi costruzione sociale
che tenti di slegarsi dalle proprie radici è destinata a crollare. La
Polonia non è mai stata una nazione monoculturale, come ad esempio la
Francia moderna dove l’essere cittadino coincideva con l’essere
francese. La chiusura attuale è anche frutto del veleno inoculato dal
comunismo, effetto collaterale dell’omogeneità imposta nel Dopoguerra».
Il
ripiegamento su identità etnicamente connotate è un tratto marcato in
molte società occidentali. Quale ruolo vede per la Storia nelle nostre
democrazie?
«La Storia ha sempre due possibili obiettivi, uno
politico e strumentale che mira alla creazione di identità fondate
sull’orgoglio nazionale, l’altro autenticamente scientifico che punta a
riconoscere tracce, segnali e allarmi per costruire una responsabilità
condivisa per il futuro. I due approcci entrano spesso in conflitto.
Condanniamo il silenzio e l’inazione di chi non si oppose al male ad
Auschwitz, ma i memoriali di domani denunceranno l’indifferenza sui
Rohingya, il Sud Sudan, il Ruanda. In Europa abbiamo ridotto la guerra a
retaggio del passato, ma in questo modo la Storia è diventata il
simbolico campo di battaglia sul quale si affrontano comunità e Stati,
talvolta ancora prigionieri di traumi non elaborati».
In questo
campo di battaglia si colloca la legge sulla Shoah voluta dal governo
nazional-conservatore, che vieta l’uso dell’espressione «campi di
sterminio polacchi». Vista da Auschwitz, che senso ha questa norma?
«La
consapevolezza storica non è e non può essere materia di legge, matura
attraverso lo studio e la conoscenza. Ecco perché la politica deve
restare fuori da luoghi come questo, e noi fuori dalle stanze della
politica. Purtroppo la formula “campi polacchi” è stata molto usata
dalla stampa internazionale, che altrimenti tende a definire i lager
“nazisti” e non “tedeschi”. La logica geografica poi non vale in altri
contesti — Guantánamo per fare un esempio recente si trova a Cuba ma
naturalmente è “americana”. Nel merito, questa legge è scritta male ed è
radicalmente sbagliata. Se si affrontano i diritti fondamentali come la
libertà di espressione occorre essere chiari e concreti, interpellare
tutti i soggetti coinvolti. Non è stato così».