martedì 13 marzo 2018

Corriere 13.3.18
Il paese diviso
Uno sforzo per ridurre i veleni reciproci
di Valerio Onida


Caro direttore, in questi giorni post elettorali si moltiplicano le analisi sulla situazione di «stallo» in cui sembra trovarsi il sistema politico italiano. Sembra quasi che le preoccupazioni riguardino, più che il contenuto delle politiche da adottare, la difficoltà o addirittura l’impossibilità di dare vita a una qualsiasi maggioranza a sostegno di un governo.
I risultati delle elezioni mostrano un Parlamento e un Paese divisi in tre «fette» non uguali, ma tutte inferiori al 50 per cento, con una rappresentanza, per di più, che riflette, in prevalenza, tre diverse aree territoriali.
Un Paese diviso, dunque, anche geograficamente. Forse per ritrovare la «fotografia» di una analoga netta divisione territoriale espressa nel voto — in quel caso solo in due parti — dobbiamo risalire addirittura al referendum istituzionale del 1946, in cui tutto il Centro-Nord votò in maggioranza per la Repubblica, tutto il Centro-Sud, da Roma in giù, votò in maggioranza per la Monarchia. A sua volta l’Assemblea Costituente, eletta contemporaneamente, vedeva al suo interno tre gruppi maggiori (Dc, Psi e Pci), nessuno dei quali, e nessuno dei due blocchi in cui essi potevano essere distinti (Dc e sinistre), aveva da solo la maggioranza. Ma la Repubblica, nata dal referendum, si consolidò come Repubblica di tutti gli italiani (come apparve in modo anche simbolicamente visibile quando l’Assemblea scelse come capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, napoletano e monarchico). A sua volta la Costituzione fu approvata in un contesto e in un clima che, nonostante le forti divisioni politiche fra i maggiori partiti, furono di unità nazionale.
Lungi da noi naturalmente l’idea di paragonare il prodotto costituente a quelli oggi richiesti alla politica e che la politica sembra in grado di dare. Anzi una delle ragioni che sconsigliano al momento di mettere mano a eventuali revisioni della Costituzione è proprio il clima politico conflittuale nel Paese. Per fortuna la Costituzione c’è, ed è, come è stato detto, lo strumento che un popolo si dà nel momento della saggezza a valere per il momento della confusione.
Ogni voto popolare esprime delle scelte: fra due sole alternative, nel caso del referendum, fra più alternative possibili, nel caso dell’elezione del Parlamento. Ma in una democrazia sana le scelte compiute non escludono che vi sia e che resti un terreno comune sul quale tutti o quasi tutti possono e debbono riconoscersi. Questo è anzitutto, ma non solo, il terreno della Costituzione.
Poi, in vista delle scelte politiche, di breve e di lungo periodo, si creano maggioranze e minoranze. Ora, se in un sistema bipartitico o almeno bipolare la maggioranza riflette normalmente la prevalenza nel voto di uno schieramento sull’altro, quando i poli sono più di due e nessuno di essi ottiene la maggioranza è indispensabile la convergenza di due o più di essi su un programma condiviso, che può essere più ampio o ristretto a pochi punti, più o meno proiettato avanti nel tempo. L’importante è che la convergenza non si cerchi su semplici prospettive di spartizione del potere, ma nasca dallo sforzo di individuare un denominatore comune, che rifletterà necessariamente solo in parte i desideri e i propositi di ciascuno dei protagonisti, ma consentirà comunque di dare vita a una azione di governo.
Nell’Italia di oggi, per di più, linee di divisione anche profonde passano non solo fra le forze politiche e le coalizioni che si sono affrontate nel voto, ma anche al loro interno: la «gara» fra Lega e Forza Italia ha costituito un elemento non secondario della competizione elettorale; a sinistra la divisione è stata più esplicita; lo stesso Movimento 5 Stelle appare lontano dal proporsi come una forza compatta rispetto alle scelte politiche più rilevanti da effettuare. Così che appare difficile anche individuare con chiarezza le distanze e le vicinanze rispettive di ognuno dei tre poli rispetto a ciascuno degli altri due. In queste condizioni sembrerebbe naturale che la ricerca dell’unità possibile sia effettuata a tutto campo, coinvolgendo tutti e tre i «poli» o almeno parti di essi. Un governo di «unità nazionale», come si diceva un tempo, dove però il termine «nazionale» non sta per nazionalista, bensì esprima un terreno sul quale ognuno dei tre possa ritrovare qualcosa che riconosce come proprio ma anche comune a tutti.
Di solito si pensa che siano le situazioni di emergenza (come le guerre) che consigliano governi di unità nazionale. Ma non è detto che l’Italia di oggi non richieda un analogo sforzo di ricerca di obiettivi, magari limitati ma precisi, che possano essere accettati come comuni, in attesa che si renda più chiaro agli italiani e agli stessi partiti su quali basi e su quali linee si possano delineare in futuro convergenze e divergenze. Se non altro con l’intento di ridurre il tasso di veleni reciproci che caratterizza oggi troppo spesso il modo e lo stile del confronto politico e di quello elettorale.