Corriere 12.3.18
Riportò Platone in mezzo a noi: addio al filosofo Mario Vegetti
1937-2018 Lo studioso aveva esaltato l’importanza del pensiero scientifico della Grecia antica
di Antonio Carioti
Raffinato
studioso e commentatore di Platone, conosceva come pochi altri anche il
versante scientifico della cultura classica. E aveva un carattere
piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i riflettori.
Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese all’età
di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la
civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un
carattere didascalico — non a caso sono articolati in lezioni — o
d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università
come un luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che,
dopo alcuni tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a
essere «protagoniste attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano
il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno del prestigioso collegio
Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di quella città con una
tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore
ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al
2005. Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo
dell’ambiente accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche
ai giovani: «Un tempo gli studenti — ricordava — ponevano domande di
senso. Oggi non più».
Convinzione profondamente radicata di
Vegetti era appunto che lo studio del mondo classico fosse fondamentale
per aprire le menti. I grandi pensatori greci, sottolineava, avevano
sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente privo di sacre
scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre
dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più
varie, a volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà.
Avevano così animato un immenso laboratorio intellettuale non solo in
campo filosofico, ma anche scientifico. La medicina, per esempio, aveva
compiuto passi enormi attraverso la pratica quotidiana proprio perché
non vincolata da regole previste nei libri sacerdotali, come avveniva al
contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico
tra sperimentazione diretta (condotta affondando la lama nella carne di
animali e cadaveri) e accumulo del sapere teorico Vegetti aveva dedicato
il suo saggio significativamente intitolato Il coltello e lo stilo (il
Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita ricerca sul pensiero
scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno dei suoi
maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita
poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il
lavoro altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si
era progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi
studiosi di Platone a livello internazionale. Aveva curato una
monumentale edizione commentata della Repubblica, opera più nota del
filosofo greco, in sette volumi usciti tra il 1998 e il 2007 presso
l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato anche saggi rivolti a un
pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su Platone (Einaudi,
2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone (Laterza, 2007),
Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era
confrontato con un altro accademico italiano di notevole prestigio,
Giovanni Reale, scomparso nel 2014. Quest’ultimo riteneva che la
«dottrina non scritta» del grande filosofo greco, di carattere
metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento, mentre i
Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che non
convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa
riconosciuto il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In
particolare il suo interesse era attirato dal problema della politica
così come era stato affrontato dall’autore della Repubblica .
Da
una parte Vegetti, affascinato dalle infinite sfaccettature dell’eredità
di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile polivalenza e
sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica,
attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire
ridotto a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava
l’afflato ideale che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la
politica viene «pensata in grande», assegnandole «una capacità di
orientamento della vita sociale nella sua complessità economica,
militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al
fianco della moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e
firma del «Corriere della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia
il nodo della legittimità del potere, su cui si era soffermato con
grande finezza di argomentazioni nel libro Chi comanda nella città
(Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la politica avesse bisogno di
uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori, per non diventare
miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di Aristotele e
della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane storicamente
determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una pericolosa
giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava il
pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con
Aristotele , firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va
comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro che, ponendo al
centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il successivo periodo
ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la Grecia ormai
sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo «fondamentale per
l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E guardava con
estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le nuove
religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo. Nella vasta
Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni
(Carocci, 2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro.
Per presentare quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura»
del «Corriere» (numero 228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni
studenti, nel corso del quale aveva riaffermato la sua fiducia nella
funzione civile della filosofia. Lo allarmava un dibattito pubblico
ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di marketing. Considerava
più che mai urgente «mettere ordine nel modo di pensare».