martedì 6 marzo 2018


ALCUNI SETTIMANALI

internazionale 4.3.18
Le elezioni ignorano la scienza
I fondi per le università e gli istituti di ricerca sono in calo. E secondo gli scienziati il voto non migliorerà la situazione


“I ricercatori italiani temono che i tagli di bilancio e lo scarso interesse per le questioni scientifiche proseguiranno indipendentemente dall’esito del voto del 4 marzo”, scrive Alison Abbott sul settimanale Nature. “A parte la battaglia sull’obbligo vaccinale, la scienza ha avuto poca visibilità durante la campagna elettorale italiana”. Il settimanale afferma che la ricerca in Italia è in una situazione precaria. “Siamo sull’orlo del collasso”, sostiene Mario Pianta, economista dell’Università Roma tre, che collabora nella preparazione delle statistiche relative all’Italia su ricerca e sviluppo per la Commissione europea. “L’Italia ha dei settori di eccellenza scientifica, come la fisica delle particelle e la biomedicina”, spiega Nature, “ma negli ultimi decenni non ha modernizzato il suo sistema scientifico. Le organizzazioni di ricerca hanno scarso potere politico, e non sono in grado di arginare la crescente influenza di chi demonizza le vaccinazioni e incoraggia cure da ciarlatani”. Inoltre sta aumentando il divario tra nord e sud del paese, perché al nord si investe molto di più nella ricerca, afferma Nature. E prosegue: “Rafaella Rumiati, vicepresidente dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), racconta che a gennaio l’agenzia ha annunciato i risultati del suo primo concorso per premiare i migliori dipartimenti universitari: gli istituti del nord hanno ricevuto una quota schiacciante dei fondi”. Il settimanale osserva che il governo ha introdotto alcune iniziative a favore della ricerca tra cui il lancio di un centro di ricerca da 1,5 miliardi di dollari a Milano, focalizzato sulla genomica e sulla medicina personalizzata, ma che dalla crisi economica del 2008 in Italia la spesa in ricerca e sviluppo è diminuita del 20 per cento. “Il budget delle università si è ridotto di circa un quinto”, spiega Nature, “così come il numero di professori a livello nazionale”.
Verso la mediocrità
Il finanziamento per gli istituti di ricerca pubblici non è superiore a quello del 2008, con un calo del 9 per cento in termini reali. Secondo le statistiche dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), sono più gli scienziati che hanno lasciato l’Italia di quelli che sono arrivati. “Paradossalmente la scienza sta andando bene nel complesso”, afferma il settimanale scientifico. “Dal 2005 l’Italia ha aumentato il suo contributo agli studi scientifici più citati al mondo. E produce più pubblicazioni per unità di spesa per ricerca e sviluppo rispetto a qualsiasi altro paese dell’Unione europea a eccezione del Regno Unito”. “Il paradosso, però, non può durare”, afferma l’economista Pianta. “Stiamo andando verso la mediocrità”. Secondo Nature, molti ricercatori temono i cinquestelle. Alcuni di loro hanno sostenuto campagne contro la scienza come quella contro la vaccinazione. “Per molti scienziati la crescente ostilità verso i vaccini è uno degli sviluppi più preoccupanti degli ultimi anni”.

internazionale 4.3.18
Un presidente senza limiti
La Cina permetterà che il capo dello stato resti in carica per più di due mandati, aprendo così la strada per un governo a oltranza di Xi Jinping. Un ritorno ai tempi più bui della storia del paese
di Richard McGregor, The Interpreter, Australia


Xi Jinping si è assicurato la presidenza a vita? Sembrerebbe proprio così a giudicare dall’annuncio del 25 febbraio, secondo cui la Cina modificherà la costituzione per eliminare la norma che impedisce di ricoprire la carica di presidente per più di due mandati. In base alla costituzione, Xi dovrebbe ritirarsi all’inizio del 2023, al termine del suo secondo mandato. Per l’altra carica fondamentale che ricopre, quella di segretario del Partito comunista, l’istituzione che incarna il vero potere in Cina, non ci sono limiti di mandato. Quindi con la modifica alla costituzione le due cariche, che fino agli anni novanta erano ricoperte da persone diverse, avrebbero le stesse regole. L’annuncio ha un significato enorme. L’attuale mandato di segretario del partito per Xi terminerà alla fine del 2022 e non ci sono ostacoli formali a un suo prolungamento. Ci sono piuttosto prassi istituzionali che hanno via via allineato la carica di capo del partito a quella di presidente, di fatto limitando la prima a due mandati. Per esempio Hu Jintao, il predecessore di Xi, ha ricoperto entrambe le cariche per due mandati. Con l’annuncio del 25 febbraio (la misura sarà confermata durante le due sessioni degli organi legislativi cinesi in programma dal 5 marzo) quella prassi sarà cancellata. Si sta tornando al sistema in vigore all’inizio degli anni novanta, quando a determinare le posizioni di vertice erano accordi informali e opachi che spesso coinvolgevano i dirigenti più anziani del partito. Con Xi, però, la politica cinese potrebbe tornare ancora più indietro, all’epoca di Mao e al principio dell’uomo forte. Xi naturalmente non è Mao, e la Cina di Mao non è la Cina di oggi, ma proprio per questo l’eliminazione di qualsiasi ostacolo alla sua permanenza al potere è ancora più degna di nota. Comunque lo si voglia leggere, questo accentramento di potere richiama epoche molto buie della storia cinese. Secondo i primi commenti della propaganda di Pechino, il cambiamento è necessario per favorire la stabilità. Secondo uno studioso citato dal Global Times, il tabloid controllato dal partito, Pechino ha bisogno di una leadership forte e stabile nel “periodo cruciale” che andrà dal 2020 al 2035, quando la Cina diventerà uno stato moderno e ricco. La decisione di Xi di eliminare gli ostacoli formali alla sua permanenza al potere, però, potrebbe creare tutt’altro che stabilità. Una delle grandi forze del Partito comunista cinese negli ultimi decenni è stata la sua capacità di costruire un sistema di successione ordinato, pilotato dal vertice, cosa che spesso i regimi autoritari di tutto il mondo non sono riusciti a fare, pagandone le conseguenze. Jiang Zemin passò il comando a Hu Jintao al momento previsto; Hu a sua volta l’ha fatto con Xi.
Nessun successore
Alla fine di ottobre del 2017, in occasione del congresso del partito, Xi aveva indicato la direzione che voleva dare al governo del paese senza però nominare un successore che prendesse il suo posto nel 2023, e l’annuncio del 25 febbraio conferma la sua decisione. Una mossa che da un lato rafforza momentaneamente l’enorme potere di Xi sul partito e sul governo, e dall’altro avverte la schiera dei suoi avversari più influenti, colpiti dalla campagna anticorruzione, che lui non ha nessuna intenzione di andarsene. Conferma inoltre la linea più generale del mandato di Xi, che sta eliminando ciò che distingue il partito dallo stato. Un segnale dell’onnipotenza di Xi? La risposta è incerta. La capacità di Xi di far avanzare velocemente la modifica della costituzione dimostra indubbiamente il controllo che esercita su tutti i centri del potere. Tuttavia, il fatto stesso che abbia sentito il bisogno di accelerare il cambiamento potrebbe essere interpretato come un segnale dell’urgenza di ottenere un potere ancora maggiore di quello di cui già dispone per tenere lontani gli avversari. Una cosa è sicura. Molti studiosi e funzionari cinesi che hanno fatto tanto per portare avanti riforme politiche e giuridiche saranno furiosi nel vedere Xi Jinping mandare all’aria tutti i loro sforzi.

internazionale 4.3.18
Cina
Il compromesso della Apple

Dal 28 febbraio i servizi iCloud in Cina sono gestiti da un’azienda legata al governo della provincia di Guizhou. La Apple a metà gennaio ha accettato di rispettare la regola che dal 2017 impone di affidare i servizi cloud ad aziende cinesi, e che ha suscitato molte critiche. In Cina, infatti, la privacy dei cittadini non è tutelata e le autorità possono accedere ai loro dati senza limiti, denuncia Amnesty International. Inoltre, per la legge sulla sicurezza informatica, il gestore dei dati è tenuto a fornire tutte le informazioni richieste dalle autorità.

internazionale 4.3.18
India
Stupri quotidiani
Tehelka, India


Ogni giorno in India le notizie di orribili aggressioni sessuali riempiono le pagine dei giornali, tanto da essere diventate la norma. Questo si spiega in parte con il fatto che oggi più donne rispetto al passato decidono di denunciare e cercare giustizia. Ma si deve anche al ritmo preoccupante con cui gli stupri avvengono in ogni angolo del paese. Lo scontro tra la mentalità patriarcale indiana e i nuovi valori legati alla cultura progressista si accentua a mano a mano che le persone si trasferiscono dalle zone rurali a quelle urbane e gli equilibri demografici nelle piccole città si trasformano. Chi proviene da un contesto ortodosso non è in grado di gestire lo shock culturale che vive quando mette piede in un ambiente moderno: abituato a considerare le donne come schiave, costrette a non uscire di casa, si trova a vivere tra donne indipendenti, che parlano liberamente con gli uomini, si vestono come vogliono, escono la sera e bevono alcolici, occupando il territorio di privilegi tradizionalmente riservati agli uomini. È tempo, afferma Tehelka, di educare i bambini alla compassione e al rispetto, valori in genere ritenuti poco maschili.

Gli studenti della scuola di Parkland sono sopravvissuti al massacro commesso da Nikolas Cruz e fanno sentire la loro voce in un modo mai visto prima
internazionale 4.3.18
Le opinioni
Una nuova speranza per fermare le armi
Di Katha Pollitt


Stavo per scrivere un commento sull’immobilismo dei progressisti rispetto al tema delle armi da fuoco. Su come anche dopo una spaventosa sparatoria in una scuola la maggior parte di noi si sia limitata a esprimere preoccupazione. Dopo ogni massacro, volevo scrivere, facciamo sempre le stesse cose: mandiamo lettere ai giornali, doniamo soldi alle associazioni per il controllo delle armi e ai politici che promettono di lottare per tamponare l’emorragia. Ma, a parte gli attivisti più impegnati, il nostro sforzo è inefficace. La Million mom march (Marcia del milione di mamme), che risale al 2000, è stata l’ultima grande mobilitazione nazionale. La maggior parte degli statunitensi è a favore del controllo delle armi, ma la passione, oltre che il denaro e la maggioranza del congresso, sono a favore della National rile association (Nra).
Gli studenti della scuola superiore Marjory Stoneman Douglas di Parkland, in Florida, sono sopravvissuti al massacro commesso da Nikolas Cruz, un loro ex compagno di scuola che ha ucciso 17 persone e ne ha ferite 15, e stanno facendo sentire la loro voce in un modo mai visto prima, sfidando i politici. In televisione e su Twitter sono ovunque. Emma González, studente all’ultimo anno di liceo, potrebbe aver fatto la storia con il suo intervento durante una manifestazione, tre giorni dopo la strage: “I politici siedono nelle loro poltrone dorate al congresso, finanziati dall’Nra, e ci dicono che non c’era niente da fare per evitare tutto questo: per noi sono stronzate”, ha detto González. Gli studenti di Parkland stanno organizzando una manifestazione a Washington il 24 marzo, e altre probabilmente sono in cantiere. Gli allievi di una scuola superiore di Boca Raton, in Florida, hanno manifestato e magari avete visto gli studenti che si sono finti morti di fronte alla Casa Bianca. Forse saranno i ragazzi a salvarci, alla fine, e sarebbe anche ora. Noi adulti progressisti pieni di buone intenzioni ci siamo lasciati troppo intimorire dalla lobby delle armi. Ci siamo rassegnati alla sconfitta quasi totale, accettando la retorica dell’Nra e la mitologica sacralità del “diritto alle armi”. Per questo parliamo di possessori di armi “responsabili”, di leggi sulle armi da fuoco basate sul “buon senso”, di rispetto per il secondo emendamento e diciamo che “non vogliamo togliere le armi a nessuno”.
Per politici progressisti come Bernie Sanders e Kirsten Gillibrand assecondare l’Nra un tempo non era solo considerato una necessità politica ma anche un modo di dimostrare rispetto per i valori degli elettori bianchi delle zone rurali. Nel frattempo a chi difende il diritto di portare armi da fuoco non sembra interessare quanti morti (circa 35mila) e feriti (più di 81mila) causano ogni anno. E nemmeno quante possibilità in più ci sono di morire o di uccidere un’altra persona se si possiedono armi da fuoco. O ancora che ogni giorno almeno una donna viene uccisa dal partner o ex partner con un’arma da fuoco. Qualche giorno fa la segretaria all’istruzione Betsy DeVos ha sostenuto che l’ipotesi di armare gli insegnanti è “un’opzione”. I commenti della stampa non aiutano. Sui mezzi d’informazione tradizionali sostenere tesi da bastian contrario favorisce la carriera. Alcuni anni fa la giornalista libertaria Megan McArdle, in un articolo sul Daily Beast, ha scritto che non c’era molto da fare contro le armi e che bisognava insegnare ai ragazzi a placcare gli attentatori: “Queste stragi farebbero meno morti, perché perfino una persona con un’arma molto potente può essere buttata a terra da otto o dodici persone disarmate che le si buttano addosso”. A McArdle, tra l’altro, è stata appena affidata una rubrica sul Washington Post.
Ross Douthat sul New York Times, dopo il massacro di Parkland, ha spiegato perché le armi dovrebbero essere legali e l’aborto vietato. Ha sostenuto anche l’idea della destra secondo cui le armi ci permetterebbero di resistere allo stato quando questo “s’impone in maniera illegittima”, e ha proposto di contrastare la violenza provocata dalle armi aumentando a trent’anni l’età minima per comprare dei fucili semiautomatici. Come se il sessantaquattrenne Stephen Paddock non avesse ucciso 58 persone a Las Vegas meno di cinque mesi fa. Smettiamola con queste follie. E facciamola finita con gli opinionisti intelligenti, i politici prudenti e i cittadini disfattisti. Non c’è nessun motivo per cui qualcuno di qualsiasi età debba possedere un fucile semiautomatico. Forse non dovrei dirlo, perché sembra che noi progressisti dovremmo essere interessati solo a conquistare la classe lavoratrice bianca che indossa cappellini con la scritta “Make America great again”. Ma per me non esiste alcun diritto a possedere un’arma da fuoco. Quindi partecipate alle marce per il controllo delle armi e portate i vostri amici. Seguite i soldi, quelli dell’Nra, e cercate di far eleggere candidati contrari alle armi. Gli studenti di Douglas hanno cambiato il dibattito. Servirà la partecipazione di molti di noi per tenere viva la loro battaglia.
KATHA POLLITT è una giornalista e femminista statunitense. Il suo ultimo libro è Pro: reclaiming abortion rights (Picador 2014).

internazionale 4.3.18
Le opinioni
Il paradosso delle destre europee
Ivan Krastev


A ottobre del 2017 un gruppo di intellettuali conservatori europei ha pubblicato il manifesto Un’Europa in cui possiamo credere. È un documento ponderato e ben scritto. Leggendolo si ha l’impressione che questi conservatori europei siano antimperialisti (per loro l’Unione europea è un “impero di soldi e regole”) e anticolonialisti (“l’emigrazione senza assimilazione è colonizzazione”) e che difendano lo stato nazione dalle élite filoeuropee. Che ci crediate o no, la rivoluzione nativista che promuovono somiglia alle rivolte di sinistra del 1968. Come i manifestanti di allora, questi intellettuali non stanno cercando semplicemente di vincere le elezioni, ma di cambiare il modo in cui le persone pensano e vivono. Allo stesso tempo, tuttavia, vogliono disfare quello che rimane dell’eredità del sessantotto. Il concetto alla base del sessantotto era il “riconoscimento”. Per quella generazione, significava che le persone senza potere politico dovevano avere gli stessi diritti dei potenti. La parola chiave della rivoluzione nativista è “rispetto”. I ribelli del ventunesimo secolo stanno dichiarando che avere tutti gli stessi diritti non cambia il fatto che abbiamo un diverso potere politico. Se i manifestanti del sessantotto si occupavano dei diritti delle minoranze etniche, religiose e sessuali, la rivoluzione nativista difende i diritti delle maggioranze. Il sessantotto si fondava sull’idea che le nazioni dovessero confessare i loro peccati: basta pensare all’omaggio del cancelliere tedesco Willy Brandt al monumento in ricordo delle vittime dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. I dirigenti nativisti di oggi invece proclamano l’innocenza delle loro nazioni. Un esempio è la legge che in Polonia punisce qualsiasi riferimento alla partecipazione dei polacchi all’olocausto. Se la generazione del sessantotto si considerava figlia degli ebrei massacrati, i leader nativisti sono i difensori d’Israele. I partiti populisti della destra di oggi sono innanzitutto schieramenti culturali. Considerano il loro potere un’opportunità per modellare l’identità nazionale. Non sono interessati a cambiare il sistema fiscale o il welfare. Per loro è più importante il modo in cui la società si rapporta al passato e l’istruzione dei figli. Considerano il dibattito sull’immigrazione, più di ogni altra cosa, un’opportunità per definire chi appartiene a una comunità politica nazionale. Ma se nei singoli paesi la rivoluzione nativista è uno scontro tra progressisti e conservatori, nell’Unione europea prende la forma di un conflitto tra la parte occidentale e quella orientale del continente: è in particolare uno scontro tra due visioni del conservatorismo. Il conservatorismo occidentale è postsessantottino. Ha interiorizzato alcuni degli elementi progressisti che hanno definito l’occidente negli ultimi cinquant’anni, come la libertà d’espressione, rigettando i presunti eccessi di quel movimento. A ovest attivisti e dirigenti d’estrema destra possono essere gay senza che questo turbi nessuno. A est il conservatorismo è una forma di nativismo più radicale. Rifiuta la modernità e considera i cambiamenti culturali degli ultimi decenni un tentativo di distruggere le nazioni. L’Europa per i conservatori non deve opporsi solo agli eccessi del sessantotto ma anche al cosmopolitismo. Il miglior portavoce di questa visione è il primo ministro ungherese Viktor Orbán. “Non vogliamo essere diversi e non vogliamo mescolarci”, ha dichiarato l’11 febbraio. “Vogliamo essere quello che eravamo millecento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico”. La sua posizione chiarisce la differenza tra il conservatorismo dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale: in occidente secondo i conservatori non basta un passaporto tedesco o austriaco per diventare austriaco o tedesco, ma bisogna anche adottare la cultura dominante. Secondo Orbán, non puoi diventare ungherese se non sei nato in Ungheria da genitori ungheresi. E qui sta il paradosso della rivoluzione nativista. Sia l’Europa occidentale sia quella orientale si sono spostate a destra. Ma questo, invece di contribuire all’unità europea, ha reso ancor più profondo il divario tra le due regioni. I cittadini dell’Europa occidentale vivono da un po’ di tempo in società culturalmente varie. Quelli dell’Europa centrale e orientale invece vivono in società etnicamente omogenee e credono che la diversità non li riguarderà mai. I conservatori occidentali sognano un continente dove siano le maggioranze a modellare la società. A est sognano invece una società senza minoranze e dei governi senza opposizione. Anche se Orbán, che vuole riportare il suo paese indietro di millecento anni, e Sebastian Kurz, il nuovo primo ministro conservatore austriaco di 31 anni, condividono posizioni simili sul controllo delle migrazioni e sulla sfiducia verso il conservatorismo vecchia maniera, non sono alleati naturali quando si tratta del futuro dell’Unione europea. Le loro differenze ricordano quelle tra il sessantotto in Europa occidentale e il sessantotto in Europa orientale. A ovest si basava sulla sovranità dell’individuo, a est sulla sovranità della nazione.
IVAN KRASTEV dirige il Centre for liberal strategies di Soia. Il suo ultimo libro è After Europe (University of Pennsylvania Press 2017).

internazionale 4.3.18
Dagli Stati Uniti Analisi di un presidente
Ventisette esperti di sanità mentale riflettono sul “caso Donald Trump”


Nell’aprile del 2017 la psichiatra Brandy Lee ha organizzato un convegno alla facoltà di medicina dell’università di Yale in cui esperti di benessere emotivo e psicologico hanno parlato di Donald Trump. Preoccupata dalla salute mentale del presidente degli Stati Uniti, Lee ha deciso di pubblicare il frutto di quelle riflessioni nel libro The dangerous case of Donald Trump, infrangendo la “regola Goldwater”. Si tratta in realtà di una norma informale che l’associazione statunitense di psichiatria (Apa) ha inserito nella carta etica della professione, secondo la quale uno psichiatra non dovrebbe dare un parere professionale su una figura pubblica che non ha esaminato personalmente. I pareri clinici riassunti nel libro non sono incoraggianti. Si va dalla “perdita di senso della realtà” a particolari disturbi nella percezione del tempo che spingono il presidente a cercare gratificazioni immediate, senza tenere conto delle conseguenze delle sue azioni. Per alcuni studiosi però i problemi non riguardano solo Trump, ma anche i cittadini colpiti dalle sue decisioni che soffrirebbero di “sindrome di stress post-Trump”. Books

internazionale 4.3.18
Salute
Antidepressivi che funzionano


Gli antidepressivi prescritti comunemente funzionano. è la conclusione di una ricerca dell’università di Oxford, pubblicata su The Lancet, che ha esaminato i dati raccolti in 522 studi clinici per un totale di 116.477 persone. I 21 farmaci studiati sono risultati mediamente più efficaci dei placebo nel ridurre i sintomi di depressione acuta (anche se con marcate differenze tra l’uno e l’altro sia in termini di efficacia sia di tolleranza). Questi risultati dovrebbero mettere fine a una controversia di lunga data sulla validità terapeutica degli antidepressivi. Tuttavia, l’analisi riguardava soprattutto i casi di depressione moderata o grave, e non le forme lievi, che sono le più frequenti e per le quali, scrive New Scientist, si prescrivono con troppa facilità i farmaci senza tener conto degli effetti collaterali. Inoltre, la metanalisi potrebbe essere inquinata da dati manipolati dalle aziende del farmaco per fare sembrare migliori i risultati dei loro studi.

internazionale 4.3.18
Cina
La finanza vacilla


Il 23 febbraio il governo cinese ha deciso di commissariare il colosso assicurativo Anbang e di mettere sotto inchiesta i vertici dell’azienda, scrive la Bbc. “Wu Xiaohui, il presidente della Anbang, che era già stato arrestato a giugno del 2017, è indagato per reati economici. Il gruppo dovrebbe restare sotto il controllo di Pechino per un anno”. Il caso della Anbang, un gigante finanziario noto per la scarsa trasparenza e per le acquisizioni di aziende in giro per il mondo, è un’ulteriore dimostrazione della volontà del governo cinese di porre un freno a un’industria finanziaria che negli ultimi anni si è indebitata eccessivamente e ha assunto troppi rischi. “A questo punto”, aggiunge la Frankfurter Allgemeine Zeitung, “molti si chiedono se in Cina possa scoppiare una crisi nel settore finanziario. Nel 2017, infatti, le autorità di Pechino hanno messo sotto inchiesta altri gruppi troppo indebitati, come Wanda, attivo nel settore immobiliare, e la holding Fosun. È finita nell’occhio del ciclone anche l’Hna, che negli ultimi anni ha concluso acquisizioni miliardarie in tutto il mondo. Queste aziende hanno portato a termine le loro operazioni contraendo enormi debiti. La Anbang, in particolare, ha venduto prodotti finanziari con rendite elevate per finanziare l’acquisizione di catene di alberghi e hotel di lusso”.

l’espresso 4.3.18
Nelle crepe di Putin
Il 18 marzo, con il voto della Russia, inizierà la quarta era dello Zar. Ma il suo potere è sempre più fragile
di Bernard Guetta
L’Europa divisa e l’America isolazionista lo aiutano. Sarà la Cina a strappargli il ruolo di Superman


È un uomo freddo, perfino glaciale. Sorride di rado e non si confida mai con nessuno. Nel 1999 aveva annientato l’indipendentismo ceceno con quella totale indifferenza per la vita umana che in seguito ha dimostrato durante i sequestri di ostaggi a Mosca e nel Caucaso. Vladimir Putin è l’uomo che ha concepito e portato a termine in Crimea la prima annessione territoriale che l’Europa abbia conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale. È lui che organizza, arma e finanzia il tentativo di secessione dell’Ucraina orientale. Ed è sempre lui che, in definitiva, si è alleato con l’Iran per permettere alla Russia di rimettere piede in Medio Oriente salvando il regime siriano a colpi di bombardamenti indiscriminati. Al potere da diciannove anni e ormai alla vigilia della sua più che probabile rielezione il prossimo 18 marzo, ha messo il bavaglio alla stampa russa, non si è fatto scrupolo di ricorrere all’omicidio politico per soffocare meglio qualsiasi forma di opposizione e ha risvegliato l’antica paura diffusa in passato nell’Unione Sovietica e poi scomparsa all’epoca di Gorbaciov e di Eltsin. Senza il suo aiuto, gli occidentali e i paesi sunniti avranno molta difficoltà a imporre un compromesso in Siria e a incanalare l’avanzata dell’Iran, sciita e persiano, nel Medio Oriente arabo e sunnita. Dopo essersi molto adoperato per favorire l’elezione di Donald Trump e indebolire in tal modo gli Stati Uniti, Vladimir Putin è oggi percepito come l’uomo più potente del mondo, quando in realtà non è così come appare. Sebbene ancora popolare in Russia, lo è molto meno di diciannove anni fa, quando Boris Eltsin lo nominò improvvisamente suo primo ministro per poi cedergli ben presto il posto in cambio di una garanzia di immunità per lui stesso e per la sua famiglia. Il sentimento di umiliazione dei russi era allora al culmine. Non ne potevano più di avere come presidente un alcolizzato il cui eloquio diventava incomprensibile già prima dell’ora di pranzo. Ed erano stanchi di un presidente della Federazione russa che, dopo aver cacciato Mikhail Gorbaciov dal Cremlino smembrando l’Unione Sovietica, aveva affidato le redini dell’economia a giovani universitari convertiti al liberalismo che avevano svenduto le ricchezze nazionali in nome del passaggio a un’economia di mercato. Avevano cominciato a distribuire ai lavoratori dei “buoni” considerati come azioni delle loro imprese. Ma questi, mal pagati o rimasti senza lavoro in seguito ai provvedimenti adottati per ridurre il debito pubblico, li avevano subito rivenduti, non sapendo che farsene, a esponenti della vecchia nomenclatura i quali, invece, se ne servivano per ottenere dei prestiti bancari in cambio di bustarelle versate alla “Famiglia Eltsin”, nel senso letterale e figurato. Tutto ciò che vi era di interessante nella vecchia proprietà collettiva era quindi passato nelle mani di persone il cui unico capitale iniziale era il loro legame con il Cremlino. Si era consumata, in questo modo, la più grande rapina della storia, mentre la diplomazia russa si allineava supinamente con quella degli Stati Uniti.
Dopo aver perso l’Europa centrale sotto il regime di Gorbaciov e l’impero zarista sotto quello di Eltsin, la Russia era svanita sulla scena internazionale. Stava cercando uno Zorro, un vendicatore, un Superman, e l’aveva trovato nella persona di un quarantenne muscoloso e inflessibile uscito dal Kgb che prometteva di far restituire il maltolto ai ladri, di non cedere più neanche un pollice di territorio nazionale e di inseguire i ceceni “fino al cesso”, come ha subito fatto. Lanciato in pista dall’apparato di sicurezza e dalla nuova classe possidente che temeva che l’impopolarità di Boris Eltsin conducesse al caos, Vladimir Putin aveva saputo imporsi in un batter d’occhio. E grazie all’impennata dei prezzi del petrolio aveva potuto aumentare il tenore di vita dei russi e, in particolare, dei pensionati. All’inizio, questo giovane zar ha svolto davvero un ruolo di giustiziere. Ma a un certo punto, l’economia di mercato ha generato una nuova classe media urbana, influente, indispensabile per il funzionamento del paese e dell’economia, che aspirava alla libertà e alla fine della corruzione.
La rielezione di Vladimir Putin nel 2012 non è stata scontata. Le grandi città, Mosca in testa, avevano dato vita a manifestazioni di protesta nelle piazze prendendo poi le distanze nelle urne. In seguito i prezzi del petrolio sono crollati. Il presidente oggi non appare più come un salvatore e, se non avesse preso la precauzione di eliminare qualsiasi opposizione credibile, si troverebbe in una posizione difficile, perché tutto si compra in Russia, persino i diplomi e le cure mediche. La miseria è immensa nelle campagne e nella Russia profonda, le popolazioni urbane gli hanno voltato le spalle, le infrastrutture sono in rovina per mancanza di investimenti e il Pil russo non supera quello delle potenze medie dell’Unione europea che non possiedono risorse come il gas e il petrolio. Vladimir Putin rimane popolare perché l’alternativa è o lui o il caos, ma il suo prestigio nazionale è diminuito e grande è la sua fragilità sulla scena internazionale. I russi avevano applaudito quasi all’unanimità l’annessione della Crimea perché era stata per molto tempo russa e in seguito ottomana prima che Kruscev ne facesse dono agli ucraini spostando semplicemente i confini amministrativi all’interno dell’Urss. «Era la nostra Costa Azzurra», mi aveva detto un artista moscovita. Ma adesso la Crimea è un grosso costo per la Russia che deve investire molto per farla funzionare e tenerla legata a Mosca. Sebbene molto meno nettamente, anche il sostegno dato ai separatisti dell’Ucraina orientale è approvato dai russi, ma queste regioni di lingua russa non saranno in grado di staccarsi dall’Ucraina senza un intervento diretto e, quindi, aperto e politicamente rischioso dell’esercito russo.
Senza ottenere risultati concreti, Mosca perde uomini e molto denaro mentre le sanzioni economiche occidentali, imposte dopo l’annessione della Crimea, hanno già causato molti danni alla sua economia. In Ucraina, Vladimir Putin dimostra che gli occidentali non sono in grado di opporsi a lui, ma sia qui che in Crimea non può più andare avanti né indietro. Così adesso si trova in un vicolo cieco, non meno che in Medio Oriente dove è diventato ostaggio dell’Iran e di Bashar al-Assad. Laggiù tutto era iniziato molto bene. Supplicato d’intervenire dal macellaio di Damasco che stava perdendo la partita, Putin già immaginava di rimettere in sella il regime siriano prima di imporgli i compromessi che avrebbero reso la Russia un paese pacificatore, gendarme di quella regione come del mondo intero al posto degli Stati Uniti. Tutto si svolge inizialmente secondo i suoi piani. Mentre gli occidentali finiscono per espellere l’Isis da Raqqa e Mosul, l’aviazione russa schiaccia l’insurrezione siriana. Militarmente parlando, nulla più minaccia Bashar al-Assad, ma anche se il suo paese è in rovina e quasi la metà dei siriani sono stati cacciati dalle loro case, rifiuta ogni compromesso con l’opposizione e incassa il sostegno dell’Iran. Salvo a ribellarsi contro i suoi alleati, Putin può solo continuare a sostenerli e trarre vantaggio dalla loro intransigenza. Così la Russia, lungi dal diventare un operatore di pace, sta diventando uno dei principali attori del conflitto regionale tra gli sciiti, i sunniti e i loro rispettivi paesi guida: l’Iran e l’Arabia Saudita. Si sta insomma impantanando in Medio Oriente e l’unica vera forza del suo presidente è che l’Unione europea sta ancora sognando la sua unità politica e militare e gli Stati Uniti stanno vivendo una fase isolazionista, screditati da Donald Trump. Di fronte a sé, Putin ha solo dei nani politici, ma la sua posizione interna non è più quella d’un tempo, mentre la sua ricchezza è molto limitata e la sua potenza militare resta molto inferiore a quella degli americani. Di fatto, il ruolo di Superman la Cina lo svolge molto meglio.
Traduzione di Mario Baccianini

l’espresso 4.3.18
Dentro e fuori
Di Bernardo Valli
Il sesso cristiano secondo Foucault
Nella sua opera postuma lo studioso dimostra che le proibizioni imposte dalla Chiesa erano già nel mondo pagano


Il libro è restato trentasei anni tra gli inediti di Gallimard con il rischio di non essere mai pubblicato. Michel Foucault ne aveva proibito un’apparizione postuma nel 1982, quando sapeva che l’Aids stava per ucciderlo, come accadde puntualmente nel 1984. Per fortuna la volontà del filosofo non è stata rispettata e dopo la lunga, comprensibile, rispettosa esitazione le quattrocento pagine di “Les aveux de la chair” (splendido titolo originale, “Le confessioni della carne”), sono uscite come quarto volume della “Storia della sessualità”, che era rimasta incompiuta. La comparsa del saggio, una ricerca erudita e appassionante, è uno degli avvenimenti editoriali di rilievo, il più importante, di questo inizio d’anno. Avviene mentre è in corso un dibattito che abbraccia, non tanto di rilesso, temi come il desiderio, il consenso, la diversità dei sessi. Foucault scava nei millenni, arriva ai primi secoli del cristianesimo attraverso il filtro della sessualità, offrendoci uno sguardo sul passato remoto che ci sembra di straordinario interesse attuale. Sant’Agostino definiva il rapporto sessuale (è vero “in paradiso”) come «un atto da cui è esclusa la libidine almeno per quello che essa comporta di forza costrittiva». Un principio applicabile anche sulla terra. Come un esploratore che si addentra in terre non ignote, ma semiconosciute, Foucault supera, chiarisce anzitutto un malinteso che ha indotto a lungo in errore. Si sono aggiudicate alla dottrina cristiana le colpe e le proibizioni che pesano sulla sensualità. Stando a un’ antica convinzione non sono pochi a pensare che le dovremmo imputare la responsabilità della tristezza che affligge la nostra carne. Foucault lo smentisce. Ricorda anzitutto che i grandi principi di austerità sessuale, come lo scopo procreatore esclusivo dell’ atto sessuale, l’obbligo di fedeltà nel matrimonio, la condanna degli amori e pratiche omosessuali, erano già stati formulati dai filosofi pagani. Sono poi rimasti straordinariamente validi attraverso i secoli. Il cristianesimo ha avuto un ruolo innovatore, ma non ha appesantito le proibizioni. Ha inventato, dice Frédéric Gros, filosofo e curatore del libro di Foucault, senza intensificare la censura e aumentare la nostra colpevolezza sensuale. “Le confessioni della carne” è la prima opera in cui Foucault si dedica interamente alla dottrina, per quanto riguarda la lussuria, la verginità, il matrimonio, la penitenza, il battesimo, cosi come l’hanno espressa i Padri cristiani dei primi secoli. Il filosofo del Ventesimo secolo si addentra nei monasteri di quell’epoca dove scopre una continuità tra i principi antichi e quelli cristiani. Una continuità che smentisce appunto la convinzione che il cristianesimo abbia interrotto una morale di tolleranza dominante nel mondo pagano. Foucault riscontra tuttavia qualche diversità: «I moralisti pagani anche quando accettavano i rapporti sessuali soltanto nel matrimonio e al fine di procreare, analizzavano separatamente l’economia dei piaceri necessari al saggio e le regole di prudenza e di convenienza proprie alle relazioni matrimoniali». La sessualità degli sposi diventa un oggetto di riflessione che l’individuo distingue dalla pratica dei piaceri. Questo continuerà a contare nelle società occidentali. Foucault dimostra, al contrario di quello che molti pensano e sostengono, che il cristianesimo non ha tentato di ridurre o di annullare l’importanza della sessualità. Ad essa ha riservato un posto centrale, decisivo. Da Tertulliano a Sant’Agostino, da Giovanni Cassiano a San Giovanni Crisostomo, i primi Padri cristiani creano, è vero, un altro rapporto tra la sensualità e il peccato, il desiderio, la parola, la verità. Secondo una tesi di Sant’Agostino, evocata da Foucault, nell’atto sessuale c’è una parte involontaria, incontrollabile: l’eccitazione iniziale e il momento del coito sono insurrezioni contro se stessi e anche un richiamo alla rivolta contro Dio dopo la Caduta.