Repubblica 9.2.18
Inediti
Il vero terrore di Lovecraft: essere adulti
Un
matrimonio fallimentare e la paura di diventare grande. Uno dei padri
dell’horror svela nelle lettere il proprio volto più nascosto
Il libro L’età adulta è l’inferno, di H.P. Lovecraft
di Michele Mari
Nel
corso di una vita appartata e interamente rivolta alla letteratura
Howard Phillips Lovecraft si allontanò da Providence solo in occasione
del suo inaspettato matrimonio, che per poco più di due anni lo vide
trasferito a New York.
Inaspettato non solo perché fino ad allora
lo scrittore aveva ampiamente teorizzato la propria impermeabilità
all’amore («Non ho mai provato il minimo interesse per le romanticherie e
gli affetti; cos’è mai una ninfa, per quanto belloccia? Carbonio,
idrogeno, ossigeno, azoto, una presa o due di fosforo e altri elementi —
tutto destinato a corrompersi ben presto»), ma anche perché, misogino,
antisemita e xenofobo, fu portato all’altare da una ebrea ucraina, la
modista Sonia Haft Greene.
All’incongrua vicenda è dedicato un
prezioso libriccino, L’età adulta è l’inferno (L’orma), in cui il
curatore Marco Peano, dal mare magnum dell’epistolario lovecraftiano
(ventimila lettere rimaste di centomila scritte), ha trascelto alcune
testimonianze d’autore: le quali danno però l’impressione di girare
attorno a un vuoto, visto che proprio le centinaia di missive a Sonia
furono da lei bruciate dopo la separazione.
Donna attiva e
volitiva, di sette anni maggiore di Lovecraft, Sonia dovette pensare di
averlo tirato fuori dal bozzolo, ma si ricredette presto quando prese
atto che per lui il matrimonio era sempre stato poco più di una
situazione epistolare. In questo senso è simbolico che i due sposi
abbiano passato la prima notte di nozze a ribattere a macchina un
racconto di cui Lovecraft aveva perduto il dattiloscritto da consegnare
all’editore: Sonia, si compiacque lui, «possiede del resto il raro dono
di saper decifrare gli sciatti scarabocchi dei miei gretti manoscritti».
Non
solo: perché se è vero che Lovecraft accettò di trasferirsi a New York
per sposarsi, è anche vero che si sposò per trasferirsi («Cara zia
Lillian, l’incredibile è realtà […]. Il fatto ha preso corpo con
certezza solo quando la “concreta possibilità” di trasferirsi e
sistemarsi qui si è imposta la scorsa settimana in tutta la sua fredda,
pragmatica e incontrovertibile insistenza»), salvo struggersi di
nostalgia per la sua Providence una volta passata la prima impressione
di New York, figlia di un’immagine mentale che è già una pagina
lovecraftiana: «Ho visto per la prima volta il ciclopico profilo di New
York. Una visione mistica nella luce dorata del tardo pomeriggio; un
oggetto di sogno di un grigio pallido, delineato contro un fumo
perlaceo. La città e il cielo erano così simili che nessuno avrebbe
potuto dire con certezza che lì ci fosse davvero una città… le sue
eleganti torri e i pinnacoli sembravano mere illusioni».
Incominciano
così le recriminazioni: mettendo al di sopra di tutto il proprio
«egoismo estetico» Lovecraft si sente privo della giusta «dose di pace e
libertà per potersi dedicare alla creazione letteraria», e come si era
lasciato sposare da Sonia, così spinge le cose fino a farsi abbandonare
(sono convinto che quelle lettere bruciate dovevano costituire un
capolavoro di infingardaggine e di manipolazione). Non molto dopo essere
tornato a Providence può affermare: «Io non posso vivere fuori dal
clima provinciale del New England, sonnolento e immerso nella Storia; la
mia sfortunata compagna di viaggio giudicava asfissiante una simile
prospettiva, aggravata per di più da difficoltà economiche.
Tentare
di vivere a New York mi ha portato quasi alla pazzia; il pensiero di
trasferirsi nel Rhode Island gettava la mia ex signora nella
disperazione. Ciascuno di noi, è ormai chiaro, costituiva parte
integrante e imprescindibile di un ambiente e di un ciclo vitale
completamente diversi […].
L’olio torna all’olio e l’acqua
all’acqua!» Anche nei confronti degli amici e dei congiunti, del resto,
Lovecraft tese sempre a sostituire il rapporto reale con il rapporto
epistolare, ben più congeniale al suo carattere, come avrebbe detto il
Vasari, «fantastico ed astratto»: e anche la sua abitudine di firmarsi
con pseudonimi sempre diversi mi sembra, più che un tratto umoristico,
la strategia di chi vuole sottrarsi al mondo come individuo biografico.
La
lettera più bella della raccolta rimane così quella indirizzata nel
1920 al Bellomo, un club epistolare con pochi iscritti: qui il grande
scrittore rievoca la propria infanzia in termini che costituiscono una
poetica («l’età adulta è l’inferno», ovvero il fantastico come
regressione): «Quand’ero molto piccolo il mio regno era il lotto di
terra accanto alla mia casa natale […]. Il mio villaggio si chiamava New
Anvik, nome ispirato all’insediamento di Anvik in Alaska, che conoscevo
grazie al libro per ragazzi Snow-Shoes and Ledges di Kirk Munroe […].
Via via che gli anni volavano, i miei passatempi si facevano sempre più
dignitosi; ma in alcun modo potevo abbandonare New Anvik. […] Era il mio
capolavoro estetico, dacché, oltre a un piccolo villaggio di capanne
dipinte […], c’era un parco, interamente frutto del mio lavoro […].
Sebbene
indolente di natura, non ero mai troppo stanco per occuparmi dei miei
possedimenti […]. Poi, con mio grande orrore, mi accorsi che stavo
diventando troppo vecchio per un tale piacere. Il Tempo, impietoso,
aveva allungato su di me i suoi artigli, e avevo diciassette anni. I
ragazzi grandi non giocano con le casette-giocattolo e coi giardini
artificiali, e così fui costretto a cedere il mio mondo a un ragazzo più
giovane […] E da allora non ho più affondato le mani nella terra o
scavato strade e sentieri. Troppa malinconia portano con sé tali
attività, dal momento che la fuggevole gioia dell’infanzia non può più
essere ricatturata.
L’età adulta è l’inferno».
Il libro L’età adulta è l’inferno di H.P. Lovecraft (L’orma editore, pagg. 64, euro 5, a cura di Marco Peano)