venerdì 23 febbraio 2018

Repubblica 23.2.18
Andrea Camilleri 

“Cosa invidio a Montalbano? Le triglie fritte”
intervista di Silvia Fumarola


ROMA Vuoi una camomilla?».
«No, grazie. Non accetto caramelle dalle sconosciute» dice ridacchiando Andrea Camilleri. La sconosciuta è la moglie Rosetta, al suo fianco da 60 anni. «Andrea, ho detto camomilla». «Ah, allora sì. La vuole anche lei?». Posacenere quadrato che contiene una discreta quantità di mozziconi di sigaretta — altri se ne aggiungeranno — sciroppo per la tosse sulla scrivania, un piccolo fax, lo scrittore più amato è seduto in una stanza che è la summa della sicilianitudine. Ceramiche, arazzi, un pupo fatto da Cuticchio a sua immagine e somiglianza, coppola in testa e sigaretta tra le dita. «Me l’ha regalato Antonio Sellerio» racconta. Piccoli scaffali ospitano libri e foto: in una è seduto tra Elvira Sellerio e Antonio, la testa di capelli rossi. «Sono tutti rossi in famiglia, anche i suoi figli. Ha preso dalla nonna russa».
Ha perso la vista e tutto, dice, deve stare al suo posto «perché grazie all’ordine ritrovo le cose. All’inizio ero arrabbiato ora convivo con questa cosa. Per esempio al bagno faccio tutto da solo: mi lavo, mi rado, esco perfetto. Certo, è seccante non essere del tutto indipendente quando sei sempre stato autonomo. Pesa». A 92 anni coltiva l’ironia e quella dote preziosa e vitale che in genere invecchiando sfuma, la curiosità.
«Mi fa piacere essere considerato l’ambasciatore di un’altra Sicilia rispetto a quella mafiosa, alla quale si è data troppa importanza» aveva detto in Rai, tra gli applausi.
«Mi sono sempre rifiutato di scrivere di mafia, tranne il libro sui pizzini di Provenzano, di cui però ho donato i proventi alla mia Fondazione. Diamo borse di studio ai figli di poliziotti vittime dei criminali. Non volevo guadagnare una lira sulla mafia».
Guai a dirgli che sarebbe fantastico se gli affidassero dieci minuti al giorno, in tv, solo per dire come la pensa. «Per carità!».
Le sue presentazioni degli episodi di Montalbano sono seguitissime, la sua riflessione contro i femminicidi è stata rilanciata sui social. Lunedì andrà in onda su Rai1 La mossa del cavallo- C’era una volta Vigata di Gianluca Maria Tavarelli, primo film tv tratto da uno dei suoi romanzi storici (editi da Sellerio), ambientato nel 1877.
Michele Riondino è Giovanni Bovara, l’ispettore capo inviato ai mulini di Montelusa per investigare sull’applicazione dell’imposta sul macinato (l’odiata tassa sul pane come veniva chiamata). Testimone dell’uccisione di un prete, viene arrestato e accusato dell’omicidio. Il rovesciamento dei ruoli lo costringe a una mossa imprevista: recupera il dialetto, parla come i suoi accusatori. «Come verrà accolto?» si chiede Camilleri accendendo l’ennesima sigaretta.
Il romanzo storico è più complesso di Montalbano.
«Bovara è assai più rigido di Montalbano, che qualche digressione ovviamente la fa. È un poliziotto di larghe vedute, ed è perfetto così. Allora sarebbe stato impensabile che potesse essere un carabiniere. E dire che oggi s’intrattengono con le americane...».
Perché recuperare il dialetto
gli salva la vita?
«La lingua sono le radici comuni.
Bovara nasce in Sicilia ma cresce come genovese. Nel momento in cui viene messo spalle al muro dai compaesani ritrova il loro linguaggio, il senso delle parole e il “sottotesto” implicito nel dialogo dei siciliani».
Recuperando la lingua però si abbrutisce. Il giudice che lo interroga lo sollecita a parlare in italiano.
«È così, ma solo somigliando a chi lo accusa si salva, entra nella mentalità di chi lo vuole incastrare. Usa la sua “mossa del cavallo”, la più imprevedibile negli scacchi, salta schiere di avversari e agisce alle loro spalle.
Ma bisogna saperla usare».
Oggi cosa consiglierebbe alla politica?
«Di fare un mossa così lunga da andare fuori scacchiera.
Facciamone una nuova e creiamo una politica che rispetti le regole.
Non c’è possibilità d’inganno nel gioco degli scacchi. Invece la politica ha perso la “p” maiuscola.
Questa non è una campagna elettorale, è uno scambio di insulti e false promesse».
Chi la delude di più?
«La parte in cui credevo. Perché gli altri continuano, con estrema coerenza, ad agire come hanno sempre fatto».
Ha detto che la sua più grande emozione è stata votare comunista.
«Essere comunista allora, al mio paese, significava qualcosa. Ero traditore del mio ceto, un reietto.
Lo capii perché una volta sentii mio padre dire a mia madre: “Ma che male ho fatto per avere un figlio comunista?”».
Il 4 marzo andrà a votare?
«Certo. Come ho fatto già per il referendum, seguendo la trafila.
Vado alla Asl dove mi visitano, poi mi danno il certificato per l’accompagno. Seccante però sono gentili. Viene mia figlia Mariolina in cabina, di lei mi fido».
Per chi voterà?
(Ride) «Umiliati e offesi. Poi naturalmente si alzano le braccia davanti alla Bonino e si rimpiange che non l’abbiano fatta Presidente della Repubblica».
Sa che per la Cassazione il saluto romano non è reato se ha intento commemorativo?
«Mi sembra un’imbecillità totale».
Parliamo di Montalbano?
«Parliamo».
Che impressione fa aver creato un personaggio amato da milioni di italiani?
«Mi ha procurato una quantità di affetto che mi commuove. Qui vicino c’è un grande mercato dove mi piaceva fare la spesa, ora non ci posso più andare. Una signora che lavora lì una volta alla settimana mi manda la caponatina siciliana, un’altra il ciambellone. Cose meravigliose, Rosetta viene indicata: è la signora Camilleri, la moglie di Montalbano».
Cosa invidia a Montalbano?
«Il fatto che mangi. Io non riesco a mandare giù le triglie fritte croccanti e soffro. Quando vado in Sicilia, Enzo il trattore me le spina e m’imbocca. Papà andava a pescare con la “traffinera” a sei punte, prendeva le triglie di scoglio. Alle tre del mattino le cucinavamo: chi mi ridarà quel sapore? Il rapporto con la Sicilia non finisce mai, me la porto in tasca».
Ci torna?
«Quest’anno se Dio — o chi ne fa le veci — vorrà, l’11 giugno sarò a Siracusa con uno spettacolo dedicato a Tiresia l’indovino cieco. Quindi sono in parte».