venerdì 23 febbraio 2018

Repubblica 23.2.18
Decreto rinviato
La riforma tradita sulle carceri
di Liana Milella


La paura di perdere qualche voto (forse più di uno) vince sulla Costituzione. Su quell’articolo 27 che al terzo comma recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
E chissenefrega allora se sul carcere dal volto umano s’è giocata una larga parte di questa legislatura. Buttiamo alle ortiche gli Stati generali sulla detenzione, che pure sono stati il fiore all’occhiello del Guardasigilli Andrea Orlando.
Nel cestino mesi e mesi di lavoro della commissione Giostra. Nel dimenticatoio il vanto — assolutamente legittimo e meritato — dello stesso Orlando che al suo attivo, dopo un lavoro certosino, può dire di aver eroso la sfiducia della Corte di Strasburgo verso l’Italia, al punto da cancellare le condanne milionarie per le celle da terzo mondo. E infine: Rita Bernardini è al 31esimo giorno di sciopero della fame per la riforma; i Garanti dei detenuti protestano; altrettanto fanno le associazioni; si temono perfino possibili reazioni nelle “patrie galere”. Ma tutto questo, messo sul piatto della bilancia dove, dall’altra parte, c’è il rischio di perdere voti in una partita già difficilissima per il Pd, non conta granché.
A nove giorni dal voto, bisogna partire da tutto questo per spiegare l’ulteriore rinvio, durante il consiglio dei ministri, della parte più pregnante della riforma dell’ordinamento penitenziario.
Parliamo di regole del 1975, codificate nella legge Gozzini dell’86, stravolte con l’ex-Cirielli di berlusconiana memoria del 2005, che ha stretto i cordoni dei permessi per tutti i recidivi, al punto da renderli di fatto impraticabili.
Consegnando i detenuti alla negazione di ogni speranza. Anche quando questa potrebbe contribuire a creare uno spiraglio per quel dettato costituzionale, «la rieducazione del condannato».
Non, quindi, la sua dannazione perenne, la fine anticipata della sua stessa vita.
Perché carcere non può voler dire morte anticipata, ma la via equa, in uno Stato civile, per scontare il debito contratto con la giustizia.
Orlando cerca di indorare la pillola, parla di «giornata importante» perché tre parti della riforma (giustizia riparativa, lavoro in carcere, regole per i minori) sono passate. Ma sa bene che queste dovranno affrontare ancora il parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Saremo già nella nuova legislatura, con gli equilibri spostati tra centrodestra e M5S, certamente non favorevoli alla manica larga sulle galere.
Decreti di fatto condannati. Ma uno aveva chance di sopravvivere, il più importante, quello sull’ordinamento penitenziario, anche se avversato da toghe che temono una mano troppo morbida sul 41-bis, il carcere duro per i mafiosi. Preoccupazione infondata, come spiegano in coro i magistrati di sorveglianza, che saranno i cani da guardia della riforma, padroni di valutare possibili e solo motivate eccezioni.
Ma che accade del decreto? Il consiglio dei ministri lo fa slittare di una settimana, proprio sotto il voto. Una promessa che il premier Gentiloni non potrà mantenere.
Del resto, perché dovrebbe accollarsi il peso delle scontate polemiche del centrodestra e di M5S, pronti a sparare in coro contro una riforma che umanizza le carceri? Loro le vogliono il più possibile cattive, per sostenere la propaganda becera contro gli immigrati, per illudere i cittadini, vittime di ladri e scippatori, che basta armarsi e poi sbattere in cella chi sopravvive per garantire la sicurezza.
Allora meglio aspettare. Per la stretta sulle intercettazioni non si è aspettato, per il carcere dal volto umano sì.