giovedì 22 febbraio 2018

Repubblica 22.2.18
La crisi della politica
Il linguaggio del teppismo
di Ezio Mauro


Cosa sta succedendo? Nel momento del massimo disincanto dalla cosa pubblica e dalla vita dei partiti, la campagna elettorale improvvisamente è attraversata da atti di teppismo politico in serie, come non succedeva da tempo. Prima il segretario di Forza Nuova legato mani e piedi a Palermo come nei peggiori anni della nostra vita, e pestato a sangue. Poi la stessa Forza Nuova che tenta l’assalto all’informazione, attaccando gli studi romani del talk DiMartedì.
Quindi il militante di Potere al popolo accoltellato a Perugia mentre incolla i manifesti elettorali al muro. E infine la profanazione della lapide di via Fani — a pochi giorni dal quarantesimo anniversario del massacro di cinque uomini di scorta e dell’uccisione di Moro — con la scritta “Morte alle guardie”, e la svastica che ritorna come oltraggio supremo alla democrazia.
Parliamo di teppismo politico, perché abbiamo conosciuto ben altra stagione di sangue negli anni Settanta. Ma tutti i segni dicono che la violenza torna in politica, sotto forme isolate e disomogenee.
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Torna insieme con le manifestazioni di razzismo, le dichiarazioni xenofobe, le riproposizioni di un fascismo fuori dalla storia, espressione situazionista di antagonismo radicale al sistema più che di nostalgia.
Saltati quei grandi pedagoghi di massa che erano i partiti, esaurite le culture politiche centenarie che sono state un orizzonte di riferimento per generazioni, è venuto meno anche il collegamento tra la società politica nel suo complesso e le istituzioni democratiche, la coscienza di avere un tetto comune. Con tutte le sue miserie, le disillusioni e anche i tradimenti, la democrazia repubblicana “riconquistata” era qualcosa comunque da difendere, un luogo in cui cercare un riconoscimento reciproco, una tutela e uno scambio.
Sarebbe sbagliato dire che la politica oggi crea violenza. Ma mancando questi argini, la violenza sciolta che viaggia dentro la nostra società trabocca anche in politica. Anzi, qualcosa di meno e di peggio: diventa “ linguaggio” politico naturale e spontaneo, quel linguaggio teppistico che registriamo altrove, e che entrando nel campo della politica non trova più una capacità di traduzione e di decantazione in un sistema organizzato di ideali e di valori, ma anche semplicemente di concetti e di forme di espressione.
Tutto questo avviene non perché viviamo una campagna elettorale al calor bianco, ma al contrario nella fase del grande freddo, quando il cittadino e lo Stato sono una coppia apertamente in crisi, con ogni passione spenta. Il cittadino crede e chiede di poter fare a meno dello Stato, anche perché si sente scoperto dalla politica, in deficit di rappresentanza, e pensa che il suo disimpegno dalla partecipazione, dalla responsabilità, dalle scelte e dal voto ( in una parola: dal discorso pubblico) sia l’esercizio di un contropotere.
Non si accorge che è un discorso sterile. Simmetricamente e nello stesso tempo, infatti, anche lo Stato e la politica si disinteressano di lui, perché quando il cittadino si rinchiude nell’esercizio privato dei suoi diritti e li coniuga soltanto al singolare, non mette nulla in movimento, e diventa per questo irrilevante, numero ma non soggetto.
C’è poi un problema in più che riguarda la marginalità sociale, che dopo dieci anni di crisi si sente protagonista negativa non di una disuguaglianza ma di un’esclusione, tagliata fuori, sospinta ai bordi non della società ma della democrazia. A questa fetta minoritaria ma presente di cittadini perduti, la politica non ha saputo proporre un’alternativa all’egemonia della necessità: non un pensiero concorrente, nemmeno un’obiezione culturale, come se l’unica forma di espressione fosse da cercare fuori dal sistema, nell’antagonismo o in quell’antipolitica che è in grado soltanto di garantire l’incompetenza come forma di governo presunta innocente.
Quel che succede oggi, dunque, può darci qualche lezione per il dopo. Le istituzioni sono da cambiare, non da vilipendere come fanno molti. La democrazia repubblicana è malata, ma non è marcia come sostiene qualcuno. Le responsabilità della grande disaffezione italiana sono nostre e non di altri, come dicono tutti.
Ma questo non basta. Per riportare la politica al suo posto, servono identità forti, marcate, distinte e sicure, che richiamino valori riconoscibili e difendano interessi legittimi specifici, facendo nascere una passione per le “parti” in gioco, e dunque per la contesa democratica. Proprio il contrario di larghe intese tra opposti, dentro un indistinto democratico che in una società sbandata e delusa produrrebbe poco governo, cattiva politica e basso potere, allargando ancora di più il fossato senza ponti tra il Palazzo e il Paese.