giovedì 22 febbraio 2018

Repubblica 22.2.18
La manifestazione
Roma, l’antifascismo torna in piazza
Sabato l’appuntamento convocato da Associazione partigiani e sindacati dopo il raid di Macerata. Pd e Leu rispondono all’appello. Ma sale la tensione per i raduni di Forza Nuova e Casa Pound a Palermo e Bologna


Roma Cade in giorni in cui la violenza politica invece di fermarsi dopo il raid razzista di Macerata è andata crescendo, ma la piazza antifascista di sabato a Roma - voluta dall’Anpi e da altre 22 associazioni, partiti, sindacati - è un richiamo « alla democrazia, alla solidarietà, alla sicurezza, alla partecipazione e all’eguaglianza sociale». L’appello “ Mai più fascismi, mai più razzismi” è insieme un no alla violenza. Sfileranno Susanna Camusso e Annamaria Furlan, le segretarie di Cgil e Cisl, ci sarà la Uil, don Ciotti di Libera, Francesca Chiavacci dell’Arci e poi esponenti dei partiti della sinistra, dal Pd a Liberi e uguali alla Lista l’Altra Europa con Tsipras, l’Istituto Cervi , Libertà e Giustizia oltre all’adesione dell’Unione delle comunità ebraiche, dell’unione degli studenti, del movimento Lgbt. L’appuntamento è alle 13 e 30 in piazza della Repubblica per raggiungere Piazza del Popolo dove alle 15 sul palco l’attore Giulio Scarpati darà il via al programma di testimonianze, lettere e racconti di partigiani letti da studenti, musica, il video messaggio della senatrice a vita Liliana Segre. Polemicamente non sarà in piazza Potere al Popolo.
L’Anpi vuole sia una grande festa democratica, per riaffermare i valori della Costituzione antifascista. Un allarme sull’Italia è lanciato da Amnesty international”che - si legge nel rapporto 2017- 2018 - « sembra concentrare più di altri Paesi europei le dinamiche di tendenza all’odio», che si registrano nell’opinione pubblica mondiale. Se nel 2014 l’Italia era « orgogliosa di salvare le vite dei rifugiati e considerava l’accoglienza un valore importante », ora «è intrisa di ostilità, razzismo, xenofobia, di paura ingiustificata dell’altro».
La sorveglianza del Viminale intanto è molto alta. Sempre sabato a Roma sono previste altre tre manifestazioni: una all’Esquilino contro il Jobs Act dei Cobas; il Movimento No- vax si è convocato per un sit in piazza di Porta San Giovanni e al Cie di Ponte Galeria si sono dati appuntamento i gruppi antagonisti. Tensione a Palermo dove è stato pestato il dirigente di Forza Nuova, Massimo Ursino e sabato è previsto il comizio del capo di Fn, Roberto Fiore. A Bologna sabato ci sarà la manifestazione di CasaPound con il leader Simone Di Stefano. – g.c.

Repubblica 22.2.18
Carla Nespolo, Presidente dell’Anpi
“No a ogni violenza ma i gruppi fascisti vanno sciolti”
di Giovanna Casadio


ROMA «Un appello contro la violenza politica parta da tutte le forze democratiche. L’antifascismo è non violento, i partigiani hanno combattuto per consegnarci un mondo di pace». Carla Nespolo di famiglia partigiana e antifascista, è la neo presidente dell’Anpi, per la prima volta una donna. Ha chiamato a raccolta gli antifascisti per la manifestazione di sabato a Roma. In un momento di così forte tensione rincara: «È pericoloso quello che sta accadendo, attenti però a non percorrere un crinale in cui si vuole equiparare fascismo e antifascismo».
Presidente Nespolo, un esponente di Forza Nuova è stato accoltellato a Palermo, un militante di Potere al Popolo a Perugia. Imbrattata con svastiche la targa di Moro. C’è un crescendo di violenza politica. Lei è preoccupata?
«Certo. L’Anpi di Perugia e quella di Palermo hanno chiesto subito si riunisca il coordinamento antifascista. E in questa situazione mi sembra necessario che venga vietata la manifestazione di Forza Nuova a Palermo. Sia chiaro che i vari episodi di violenza vanno condannati. Come Anpi lo facciamo con forza, con la forza della ragione.»
Ma teme per il corteo di sabato a Roma?
«No. Più persone ci saranno a manifestare per la democrazia, la pace, il rispetto dell’altro e meno saranno facili le provocazioni.
Dalla manifestazione di sabato mi aspetto un mondo in cammino.
Ricordo che saranno presenti molti sindaci che sono il cardine della vita democratica. Le ultime adesioni sono quelle dell’Unione delle comunità ebraiche, della rete degli studenti medi e dell’Udu».
Lei ritiene che i gruppi di estrema destra non dovrebbero partecipare alle elezioni?
«Sono andata dal ministro Minniti per chiedere che CasaPound e Forza Nuova non fossero in lizza.
Noi – non solo Anpi, ma tutte le associazioni di partigiani e deportati, anche Arci, Cgil, Cisl e Uil, le Acli, diversi partiti della sinistra, l’Istituto Cervi, Libertà e Giustizia, in tutto 23 sigle abbiamo lanciato l’appello “Mai più fascismi”, con una raccolta di firme che durerà fino a maggio».
Avete lanciato un allarme?
«Da tempo. Il cuore del nostro ragionamento è che questi gruppi vanno sciolti perché contrastano con la Costituzione, tuttavia siamo consapevoli che è con la cultura, la conoscenza e il dialogo che si conduce la battaglia generale. Abbiamo lanciato uniti un allarme democratico richiamando le istituzioni alle proprie responsabilità affinché si applichino le leggi Scelba e Mancino che puniscono fascismo e razzismo».
Ma è rimasto lettera morta?
«Pensiamo di no. La raccolta di firme si sta ingrossando, in tante città d’Italia crescono le adesioni.
Del resto fondamentale è che i cittadini non votino questi gruppi e li isolino. Non devono avere spazio in una società democratica. I fascisti sono propugnatori di violenza. Ma una cosa deve essere chiara: il fascismo trova il suo humus culturale nel razzismo. Le due cose vanno combattute insieme: dire ai poveri che i loro nemici sono i più poveri è la cosa più antidemocratica e ingiusta che si possa fare».
La destra dice che il fascismo è morto e sepolto, che è un fatto storico. Siete voi che state esagerando?
«Non basta cambiare le parole, proclamarsi fascisti del Terzo millennio. Quando a qualcuno che spara dalla macchina a sei persone sconosciute solo perché hanno un diverso colore della pelle e Forza Nuova gli fornisce l’avvocato, cosa è se non razzismo? Il tentativo dei fascisti è di mascherarsi con parole diverse, ma restano sempre gli stessi e vanno isolati. Il danno criminale che stanno realizzando è grande. Se fossero stati già sciolti, sarebbe stato meglio. È il momento di ribadire i valori della nostra Costituzione».
È in atto anche una revisione della Resistenza?
«È in atto un’operazione sfacciata di revisione. L’ultimo libro di Pansa, il solito Pansa, è un chiaro esempio».

Silja Dögg Gunnarsdottir, deputato al Parlamento di Reykjavík, repubblica di Islanda:«chiunque ha il diritto di credere in ciò che vuole, ma i diritti dei bambini vengono prima del diritto di credere»
Corriere 22.2.18
Circoncisione in Islanda serve più rispetto anche per le minoranze
di Paolo Salom


In Islanda il Parlamento si prepara a bandire la circoncisione maschile infantile, per intenderci quella praticata da ebrei e musulmani non per motivi medici ma in virtù di un comandamento religioso. Il testo della legge — che ha l’approvazione dei partiti di governo e anche dell’opposizione e dunque una buona probabilità di essere approvata — prevede fino a sei anni di carcere per chi fosse colpevole di «rimuovere una parte o del tutto gli organi sessuali di un bambino». Questo provvedimento si accosterebbe al divieto di praticare la cosiddetta «circoncisione femminile», approvata già nel 2005. «Stiamo parlando di diritti dei bambini, non di libertà di credo», ha detto la parlamentare Silja Dögg Gunnarsdottir, che ha presentato la legge all’inizio di febbraio, aggiungendo che «chiunque ha il diritto di credere in ciò che vuole, ma i diritti dei bambini vengono prima del diritto di credere». Ora, al di là degli aspetti fisici (le due pratiche, maschile e femminile, sono ovviamente impossibili da paragonare), è interessante notare gli aspetti sociali di una prescrizione che andrebbe a colpire una libertà — quella religiosa — data per scontata nelle democrazie. Può uno Stato decidere fino a dove una fede può arrivare — in questo caso fisicamente — nel formare un individuo? In Islanda vivono 250 ebrei e 1.500 musulmani. Ma le reazioni sono state accese e hanno coinvolto rabbini e imam dell’Europa continentale. Il timore è che venga incastonato un principio cui altri potrebbero ispirarsi (la Danimarca ha già manifestato interesse). È dunque immaginabile una legge che obliteri uno dei cardini della vita religiosa di due storiche minoranze? Forse i deputati islandesi dovrebbero stare attenti a non trasformare il laicismo in un canone altrettanto prescrittivo.

Repubblica 22.2.18
L’altra metà dell’Africa. Dalla Tanzania all’Uganda
Donne che si ribellano a chi vuole cancellare la loro identità
“L’infibulazione era una tradizione di famiglia”. “Temevo di non sposarmi”
Poi Rahel e le altre hanno detto basta a questa pratica diffusa benché vietata
Nel villaggio di Katabok nel nordest dell’Uganda le adolescenti della tribù Pokot si sono ribellate alle mutilazioni genitali, pratica vietata ma ancora diffusa nel Paese
di Raffaella Scuderi


DAR ES SALAAM «Era una tradizione della mia famiglia. Mia madre mi ha dato lo strumento e lo ha poggiato sulla mia testa dicendo che avrei dovuto tenerlo per sette giorni».
La realtà cruda di come si diventa tagliatrice raccontata da un’ex “aguzzina” tanzaniana. Rahel Mbalai ha praticato per tanti anni la mutilazione genitale femminile (Mgf) su donne e bambine del suo Paese finché ha detto basta. Ha realizzato, grazie alla Ong ActionAid in Tanzania, quanto cruento e folle fosse quello che stava facendo. Rahel ora non “cuce” più. Si batte per aprire gli occhi alle tagliatrici come lei. Viaggia in tutta l’Europa per incontrare le comunità migranti originarie dei Paesi a tradizione mutilatoria. Il suo attivismo contro la centenaria pratica della mutilazione femminile l’ha privata del rispetto della sua comunità. Poco importa. Donne come lei stanno facendo cambiare lentamente le cose. E lei lo sa. Non rinuncia alla sua lotta.
Coltelli, lame di rasoi, forbici e pezzi di vetro. Oggetti non sterilizzati usati sul corpo di donne e bambine per rimuovere, parzialmente o totalmente il clitoride. Senza anestesia. Questa è la pratica della mutilazione genitale femminile diffusa in tanti Paesi africani, ma anche asiatici e sudamericani.
L’obiettivo finale di tale rimozione è la “purezza”.
L’istinto “lussurioso” deve essere controllato. Quando i mariti sono in giro con il bestiame devono essere certi che le loro donne conservino la castità e rimangano fedeli. Una condizione obbligatoria per trovare marito, in certe comunità. Se non si è state “operate”, non si esiste. Non ci si può sposare, non si può raccogliere il grano e si viene emarginate dall’intero villaggio. È fuorilegge nella maggior parte dei Paesi ma la pratica continua laddove comandano povertà, analfabetismo e condizioni sanitarie precarie. E ignoranza.
Le donne sanguinano anche fino alla morte, si ammalano di infezioni e spesso contraggono l’Hiv. Per ogni multilazione le tagliatrici intascano circa 8 euro.
Rahel non è l’unica ad aver detto no. C’è un posto, al confine tra Uganda e Kenya, dove la Mgf è praticata regolarmente in beffa alla legge. È qui che Rebecca Chelimo si è ribellata. Aveva 12 anni quando l’hanno costretta al rituale della mutilazione. Nel 2009. «Avevo paura di essere derisa e insultata dalla mia comunità – ha raccontato al Guardian – Mi dissero che che era una vergogna non essere circoncisa. Ci ho creduto.
Nessuno mi avrebbe sposato se non mi fossi fatta tagliare».
L’Uganda è uno dei 29 Paesi nel mondo in cui la Mgf è ancora praticata nonostante la legge lo vieti. Soprattutto tra la gente dell’etnia Pokot, di cui, secondo i dati delle Nazioni Unite, almeno il 95 per cento delle ragazze subisce la mutilazione a cominciare dall’età di 10 anni.
Rebecca ora ha fondato lo Yangat Youth Group, un progetto che coinvolge venti persone impegnate a sensibilizzare la loro gente sulle cause devastanti della Mgf . «Noi dobbiamo interrompere questo flusso criminale tra Uganda e Kenya. Ho quattro sorelle e non voglio che facciano la mia stessa fine».
Il confine è talmente esteso (150 chilometri) che non consente ai governi dei due Paesi di monitorarlo a sufficienza. Si stima che a oggi siano state mutilate almeno 200 milioni tra ragazze e bambine. Ogni anno almeno tre milioni sono a rischio.

Repubblica 22.2.18
I tormenti di Francesco
La confessione del Papa “Ho vissuto anni oscuri temevo di essere alla fine”
Nell’incontro riservato di qualche giorno fa con i parroci romani Francesco parla del suo decennio di “smarrimento”, fino al ’92
La notte oscura sembra ormai svanita.
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Dice di aver vissuto «il tempo di una grande desolazione, un tempo oscuro». «Credevo — continua — che fosse già la fine della mia vita» perché «sì, facevo il confessore ma con uno spirito di sconfitta». E ancora: «Ho pregato tanto, in questo tempo, ma ero secco come un legno» perché «credevo che la pienezza della mia vocazione fosse nel fare le cose». Tuttavia, «non ho lasciato la preghiera e questo mi ha aiutato». Non ha paura di parlare di sé, Papa Francesco, entrando anche nei momenti più riservati e insieme bui della sua vita. Le parole che lui stesso dice a braccio incontrando la settimana scorsa i parroci di Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano, infatti, sono la parte più intima della sua vita e vanno a svelare, con semplicità, il tempo di una sorte di notte oscura vissuta dal futuro Papa in Argentina fra l’inizio degli anni ’80 e il 1992, l’anno in cui Giovanni Paolo II lo nomina vescovo ausiliare di Buenos Aires. Dopo una telefonata del nunzio vaticano in Argentina, Ubaldo Calabresi, «ho poi aperto un’altra porta», racconta.
Bergoglio, che nel 1981 compie 45 anni, vive un momento di difficile passaggio della sua esistenza. Dopo essere diventato a soli 37 anni superiore della provincia argentina della Compagnia di Gesù, e poi rettore del Colegio Máximo di San Miguel, diventa confessore, incarico nel quale non si ritrova del tutto. Trascorre un periodo in Germania dedicato a terminare una tesi dottorale su Romano Guardini che tuttavia non arriverà mai a discutere, e poi parte per Córdoba dove «come lavoro» fa il direttore spirituale e il confessore della chiesa della Compagnia di Gesù. Sono anni duri per lui, di buio, anche di incomprensioni all’interno della Compagnia, un periodo che i biografi definiscono di «esilio». E nei quali Bergoglio deve ripetersi spesso: «Adesso non so cosa fare». Mai avrebbe immaginato cosa sarebbe accaduto dopo; la nomina a vescovo ausiliare, la guida dell’intera diocesi di Buenos Aires, l’elezione al soglio di Pietro il 13 marzo del 2013, giusto cinque anni fa.
È vero, come rivela lui stesso in un libro-intervista scritto col sociologo francese Dominique Wolton, già nel 1978 vive un periodo d’inquietudine — «il demone di mezzogiorno», come chiamano in Argentina la crisi di mezza età — affrontato «per sei mesi una volta alla settimana» con una psicoanalista ebrea che lo aiuta molto. Ma qui sembra che egli debba fronteggiare qualcosa di più profondo, una crisi nella vocazione risolta soltanto grazie alla preghiera, e in particolare a un rapporto «faccia a faccia col Signore, parlando, conversando, dialogando con Lui».
La notte oscura è di tante donne e uomini di fede, «una spina nella carne», dice san Paolo. Ne scrive Giovanni della Croce che parla di notte dei sensi e dello spirito, momento di travaglio, sofferenza, dubbio, senso di solitudine e d’abbandono da parte di Dio. Un’oscurità, spiega il carmelitano spagnolo, voluta da Dio per purificare l’anima dall’ignoranza e liberarla dagli attaccamenti ad affetti, persone e cose, che le impediscono lo slancio verso l’alto e l’unione amorosa con Lui. La vive, fra i tanti, anche Teresa di Calcutta, che si sente per un lungo periodo «abbandonata da Dio».
Sorride a tutti, ma dentro di sé non ha che buio.
Bergoglio non arriva a dire di essersi sentito abbandonato da Dio. Tuttavia, il suo smarrimento è reale. Ma, confida ancora ai preti romani, per molti sacerdoti può essere così: «È un momento aspro ma liberatorio. Quello che è passato, è passato». Dopo «c’è un’altra età, un altro andare avanti».
E, in effetti, tutto cambia successivamente. Il gesuita che nel ’78 sente, mentre si trova in macchina, che hanno eletto Karol Wojtyla al soglio di Pietro, un uomo del quale fatica a ripetere il nome, parte per Roma nel 2013 convinto di tornare a casa presto. Le cose vanno diversamente. Bergoglio diviene Francesco e dalla sua Argentina rimane lontano. Ma la crisi degli anni di Córdoba è oggi passata.
Ai suoi collaboratori ripete di non sentire alcuna nostalgia del suo Paese. Ha scelto di vivere a Santa Marta non per rifiuto del lusso dell’appartamento apostolico, ma perché quelle stanze gli sembrano un imbuto all’incontrario, una porta piccola all’imboccatura di spazi troppo grandi. A Santa Marta vede gente, prega, lavora, non si sente solo. La strada è spianata.

il manifesto 22.2.18
La corruzione della democrazia e la fuga dalle urne
di Paul Ginsborg


Con l’approssimarsi del 4 marzo 2018 è ancor più chiaro che uno dei fondamentali banchi di prova posti da queste elezioni non consiste nel decidere per chi votare, ma piuttosto se votare o meno. Dico subito, a scanso di equivoci, che ho tutta l’intenzione di andare a votare il 4 marzo.
Andrò a votare perché sono convinto che in democrazia i cittadini abbiano precisi doveri, oltre che diritti. Ma c’è altro. Ormai è luogo comune tra amici, colleghi e nella cittadinanza in generale esprimere indignazione e disgusto rispetto al sistema dei partiti, con conseguente propensione al non voto. I sondaggi più recenti riguardo alle prossime elezioni danno l’astensionismo attorno al 34%. Alla fine del 2016, secondo Demos & pi, la mancanza di fiducia nei partiti politici si attestava su un drammatico 94%. Ma che cosa è successo? Come possiamo contrastare il fenomeno? Qui devo limitarmi ad accennare una riflessione che richiederebbe ben più spazio. Inoltre sono (solo) uno storico, non un costituzionalista, ma forse la storia in questo caso può venirci in aiuto.
DAL PERIODO DI ASPRO dibattito politico e costituzionale tra il 1945 e il 1948 che diede forma in Italia al sistema di governo rappresentativo, i partiti emersero dotati di un livello esagerato di potere politico. La loro attività era soggetta a scarsi controlli esterni di una qualche efficacia, né esistevano vincoli a tutela della democrazia interna. I motivi di fondo erano svariati, non solo il tornaconto personale ma anche la necessità di contrastare le tendenze centrifughe – da sempre temute dalla classe dirigente del paese. La divisione ideologica e i contrasti superficiali che turbavano la nuova élite politica trassero in inganno molti giornalisti stranieri poco addentro alle questioni italiane, ma in realtà garantirono grandi linee di continuità. Più del 90% dei cittadini si recava regolarmente alle urne, sia a livello locale che nazionale.
Era l’epoca dei partiti politici di massa, rassicuranti sotto un certo aspetto, ma sotto altri molto meno. In particolare il sistema di favori e raccomandazioni all’insegna del clientelismo e del familismo che affondava profondamente le sue radici nella storia non fu mai contrastato attivamente. I democristiani e loro alleati ripresero questi meccanismi sociali antichi, ma non arcaici, dando loro un nuovo volto. Nel 1957 Giulio Andreotti arrivò addirittura a nobilitare il sistema clientelistico: «Onore a quanti servono il prossimo in un modesto contatto umano che restituisce talvolta la speranza a chi non crede più nella solidarietà degli altri». Peccato che questi longanimi atti di carità cristiana fossero raramente disinteressati e spesso illegali.
È SU QUESTE BASI che venne costruita la partitocrazia italiana. I partiti politici di governo, non ostacolati dai magistrati dell’epoca (tra cui molti ex fascisti), né da altri vincoli istituzionali, diedero vita a un’occupazione sistematica dello Stato, spartendosi tutte le posizioni di potere e di influenza. La corruzione aveva carattere sistemico, non occasionale, al pari dei contatti e degli scambi di favori tra politici e organizzazioni criminali.
Sono risalito agli esordi della Repubblica per esplorare, seppur brevemente, quelle che sono le origini dell’attuale diffusissima alienazione dal sistema politico e del conseguente astensionismo. Naturalmente analizzare questo complesso fenomeno richiede tempo e attenzione. Particolare importanza riveste nel 1992 l’esperienza dei magistrati milanesi del pool Mani Pulite, che nelle aspettative avrebbe ridato slancio e trasparenza alla politica. Ma così non fu e quella sconfitta ha pesato fortemente su porzioni decisive dell’elettorato, aumentandone il cinismo, il privatismo e lo sconforto.
UNA SECONDA RIFLESSIONE riguarda il rapporto tra la democrazia rappresentativa e quella partecipativa o diretta. Gli articoli 50, 71 e 75 della costituzione italiana fanno tutti riferimento alla possibilità di utilizzare metodi «diretti» di espressione della volontà popolare. Il diritto di avanzare petizioni, di proporre leggi di iniziativa popolare e soprattutto di chiedere referendum abrogativi è un’arma importante, seppur smussata e limitata, per consentire ai cittadini di avere una qualche voce in capitolo nel governo del paese.
Negli ultimi 20-30 anni a livello internazionale si sono registrati tentativi radicali di collegare i due tipi di democrazia, dei quali il «bilancio partecipativo» di Porto Alegre in Brasile non è che il più famoso. Il principale elemento distintivo in questo caso è la partecipazione dei cittadini al processo deliberante, attraverso sia il dibattito che la decisione su questioni specifiche.
IN ITALIA INVECE la partitocrazia ha insistito molto sulla necessità di partecipazione, intesa però come una vaga forma di consultazione, realizzata attraverso i meccanismi più moderni, ma priva di poteri decisionali. Le assemblee fiorentine di Matteo Renzi alla Leopolda sono state esempio perfetto di questo trompe-l’oeil. Nel novero rientrano anche la cosiddetta «democrazia digitale» grillina, che maschera lo smisurato potere esercitato all’interno del movimento da Beppe Grillo e dal figlio del suo migliore amico, nonché il netto rifiuto da parte di tutti i partiti di dare attuazione al risultato del referendum sull’acqua come bene pubblico. Il sistema partitico italiano non riconosce affatto che l’attività costante della partecipazione garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza. La realtà è invece che quanto più la democrazia rappresentativa è corrotta e decrepita e quanto più la partecipazione è inefficace e vuota di potere, tanto più è probabile che una massa sempre più ingente di cittadini diserti le urne.
Articolo pubblicato come prefazione all’opuscolo di Libertà e Giustizia «Verso il 4 marzo, una bussola» a cura di Tomaso Montanari, Francesco Pallante e Valentina Pazé e disponibile sul sito internet dell’associazione.

il manifesto 22.2.18
Costruire la felicità è compito della sinistra
Diseguaglianze. Il benessere di cui si parla non è un prodotto statistico, ma umano. È ricerca e costruzione della felicità. E come tale non può prescindere dalle persone, dalla loro partecipazione e dal loro protagonismo.
di Aldo Carra


Le elezioni sono una brutta bestia e rischiano di far passare come realtà le buone intenzioni. Accade così di leggere un titolo che, riprendendo l’analisi del Mef sugli indicatori di benessere equo e sostenibile, afferma che nel 2020 il reddito disponibile sarà più di 1000 euro, che si riducono le disuguaglianze e migliora il lavoro. Si tratta, in realtà, solo di previsioni dell’impatto che la legge di bilancio per il 2018 dovrebbe avere su quattro indicatori del Benessere Equo e Sostenibile (Bes). Gli indicatori di cui si parla sono il reddito disponibile pro capite, la disuguaglianza dei redditi, il tasso di mancata partecipazione al lavoro, le emissioni di Co2. In futuro essi saranno progressivamente implementati.
La scelta di assumere alcuni obiettivi precisi e condivisi, di fare politiche mirate a perseguirli e di misurare dopo i risultati, costituisce un fatto molto positivo. Non solo sul piano metodologico. Potrebbe diventare in futuro una vera e propria rivoluzione sul piano dell’efficacia delle politiche economiche e quindi del rapporto tra cittadini e politica. Ma perché questo avvenga sono necessari tempo, per consolidare strumenti e metodologie, ed una certa separazione dalla contingenza politica e dall’intreccio con la propaganda elettorale: se infatti si parte da un giudizio positivo sulle cose fatte si finisce col riproporre la continuazione delle politiche fatte e non si pensa né ad una discontinuità né ad una svolta.
È il problema che abbiamo davanti.
Il documento del tesoro parla di un quadro incoraggiante caratterizzato da una ripresa del reddito disponibile determinata dalla crescita economica in atto e dagli interventi fatti dal governo in materia di sostegno alle famiglie e all’occupazione, dei bonus degli 80 euro, degli incentivi all’assunzione, del contrasto alla povertà e del reddito di inclusione. Non a caso sui quattro indicatori esso assume obiettivi modesti e sulle politiche una pura continuità.
Nei mesi scorsi è stato presentato anche il Rapporto Asvis (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), l’associazione creata da Enrico Giovannini. In esso si afferma che l’Italia non sarà in grado di centrare né i target da raggiungere entro il 2020 nè quelli fissati per il 2030, a meno di un cambiamento radicale del proprio modello di sviluppo. In assenza di tale cambiamento povertà, disuguaglianze e degrado ambientale non verranno ridotti drasticamente come previsto e necessario. Esso afferma che nel corso degli ultimi anni si registra un miglioramento per alcuni indicatori (alimenti, fame ed alimentazione, salute e benessere, educazione…), ma che c’è un sensibile peggioramento per alcuni indicatori come la povertà, la gestione delle acque, le disuguaglianze e non ci sono miglioramenti sull’occupazione e sulle città sostenibili. Le distanze con gli altri paesi restano molto alte così come le disuguaglianze territoriali socio-economiche e quelle di genere e la percentuale di persone in situazione di povertà assoluta rispetto al 2005 è più che raddoppiata. Il nostro paese è indietro non solo su povertà, disoccupazione, disuguaglianze, degrado ambientale e un sentiero di sviluppo sostenibile e la ripresa economica da sola non risolveranno i problemi che la pongono tra i paesi europei con le peggiori performance economiche, sociali, ambientali
Dice Giovannini che, malgrado i passi avanti compiuti in alcuni campi, l’Italia resta in una situazione di non sostenibilità economica, sociale e ambientale e che se i partiti non metteranno lo sviluppo sostenibile al centro della legislatura, le condizioni dell’Italia saranno destinate a peggiorare anche in confronto con altri paesi.
Per la prima volta nei prossimi anni avremo modo di misurare obiettivi e risultati. In particolare sul grande tema delle disuguaglianze.
Per la sinistra credo ci sia un problema in più. Abbiamo parlato di numeri e di indicatori. Essi sono importantissimi, ma la sinistra dovrà andare ben oltre. Il benessere di cui si parla non è un prodotto statistico, ma umano. È ricerca e costruzione della felicità. E come tale non può prescindere dalle persone, dalla loro partecipazione e dal loro protagonismo. Se di questo non saranno protagoniste le sinistre, altre forze potrebbero attecchire sul malessere.

Repubblica 22.2.18
Così la vita detta legge al diritto
di Gustavo Zagrebelsky
Questo testo è parte dell’intervento che l’autore tiene oggi pomeriggio in Senato. L’occasione è la lectio del presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi, che presenta il suo libro “L’invenzione del diritto” (Laterza)


Nella modernità prevaleva una concezione positivista: erano i fatti reali che di volta in volta dovevano adattarsi alle norme. Ora, nella postmodernità giuridica, accade finalmente il contrario: si parte dall’interpretazione della realtà
Nel tempo della modernità che è quello della sovranità della legge generale e astratta e, potremmo dire, dello schiacciamento della realtà sociale sotto il peso dei precetti legislativi, «il giudice — dice il professor Paolo Grossi, nel suo libro L’invenzione del diritto — doveva adattare il fatto alla norma, una norma pensata come premessa maggiore di un procedimento sillogistico, un procedimento squisitamente logico-deduttivo. Oggi, in questo nostro tempo giuridico post-moderno, il giudice, attraverso operazioni valutative, deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto della vita, individuandone la più adeguata disciplina». Questa è l’interpretazione, che si traduce nella “invenzione” del diritto, «che è un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di logico, ma soprattutto qualità di intuizione-percezione-comprensio ne, tutte segnate sul piano assiologico».
Queste proposizioni sono esplicite aperture di credito all’interpretazione come ermeneutica. Quando il giudice siede in giudizio non ha di fronte a sé, primariamente, la rete delle norme giuridiche, indossando le quali, come suoi occhiali, guardare il mondo che scorre sotto di sé. Al contrario, ha di fronte a sé, primariamente, casi della vita. Solo dopo che li ha valutati nel loro — possiamo dire — bisogno di diritto, egli si rivolgerà alle norme positive per cercarvi adeguate soluzioni: adeguate tanto al caso quanto al diritto. Nella “invenzione” delle soluzioni adeguate rispetto ai due lati dell’interpretazione, formale e materiale, sta il successo dell’interprete; nell’impossibilità o nell’incapacità di invenirle, sta il suo fallimento. Queste posizioni sono anni-luce lontane dalle convinzioni della maggioranza dei giuristi del nostro Paese, così tanto ancora imbevute di dottrine gius-positivistiche che provengono dal passato e ch’essi professano come ineludibili e invariabili pilastri della nostra civiltà del diritto. Come è possibile l’amalgama nel lavoro quotidiano comune d’un collegio come la Corte costituzionale che comprende certamente giudici che, esplicitamente o implicitamente, aderiscono a concezioni diverse se non opposte della materia di cui è fatto il loro lavoro? Non so dare altra spiegazione che questa: la forza delle cose, di fronte alla quale cede la forza di qualsiasi astratta dottrina. La Corte come «organo respiratorio» (espressione di Paolo Grossi) è il prodotto della forza delle cose. Essa si avvale di strumenti di decisione che un tempo, quando furono introdotti, suscitarono critiche e perplessità ma che oggi nessuno ormai contesta (al più, se ne può criticare l’uso in concreto).
“Nessuno”, in verità, non è esatto dire, perché ogni tanto qualche effervescente riformatore della giustizia costituzionale, ponendosi l’obiettivo di porre limiti o addirittura divieti a quello che gli pare improprio protagonismo giudiziario, vorrebbe vietarli. Mi riferisco alle sentenze interpretative, alle sentenze che annullano la legge “nella parte in cui” e perfino “nella parte in cui non”: in generale alle “sentenze manipolative”, fino alle sentenze di accoglimento “di principio” una recente delle quali, di particolare importanza (in tema di parto anonimo, diritto del figlio di promuovere azione per conoscere l’identità della madre e diritto di quest’ultima di mantenere l’anonimato), è dovuta alla scrittura di Paolo Grossi. Con le decisioni di questo ultimo tipo, si annullano regole legislative, si richiama il legislatore al suo compito di legiferazione e, contestualmente, si toglie di mezzo la difficoltà (la norma di legge annullata) che impediva ai giudici di invenire il diritto adeguato alla decisione del caso, secondo i principi. Queste tecniche decisorie stanno a significare che il legislatore ha fallito nell’opera d’invenzione del diritto attraverso norme generali e astratte (donde, l’annullamento della legge) e, a fronte di questo fallimento, affidano al giudice il compito di eseguirla, con riguardo al caso particolare da decidere.
Questa fiorente varietà di strumenti di decisione difficilmente è comprensibile alla luce d’una concezione della validità delle leggi come mero rapporto gerarchico tra norme, norma costituzionale e norma legislativa, un rapporto semplice, anzi semplicistico: accoglimento-rigetto della questione; eliminazione della legge-mantenimento della legge così com’è. È questa un’alternativa che, pur essendo a prima vista sancita dalla Costituzione e dalle leggi che ne danno attuazione, non ha retto di fronte alla forza dell’esperienza giuridica.
C’è un altro elemento di esperienza giurisprudenziale che si è fatto strada passo a passo a partire dalla seconda metà degli anni ’90, riflettendo sul quale appare con evidenza il passaggio da una concezione del diritto a un’altra. È costituito dalla serie di decisioni ormai numerose, diffuse ormai in ogni parte dell’ordinamento giuridico (con l’eccezione parziale del diritto penale e processuale) con le quali leggi sono annullate non per quello che prescrivono, ma perché prescrivono tassativamente, senza lasciare spazio alla discrezionalità del giudice necessaria per apprezzare le caratteristiche specifiche dei casi concreti, sacrificate dalla generalità e dall’astrattezza della legge. Si tratta delle decisioni di annullamento dei cosiddetti “automatismi legislativi”. Troppo vari sono i casi in materie come la bioetica, la famiglia, i rapporti tra genitori e figli naturali o adottivi, le misure restrittive della libertà; troppo intrecciate sono le esigenze multiple che devono bilanciarsi, da poter essere sempre semplificate con norme che operano come il filo di piombo usato per le costruzioni dell’isola di Lesbo. La legge, in questi casi, è dichiarata incostituzionale precisamente a causa di quelle caratteristiche (la generalità e l’astrattezza) che la dottrina tradizionale dell’illuminismo giuridico ha considerato per due secoli non solo sue caratteristiche, per così dire, naturali, ma anche suoi titoli di nobiltà. Anche qui, una vera rivoluzione: una rivoluzione che non manca di porre problemi che non si può pensare di risolvere semplicemente ignorandone le cause. A questi dati della giustizia possiamo aggiungere, infine, il controllo sulla ragionevolezza delle leggi. Si è da ultimo cercato d’irrigidire il procedimento logico da seguire in questo tipo di giudizio, imitando piuttosto artificiosamente schemi che in altre giurisprudenze hanno trovato il nome di giudizio di “proporzionalità”. Ma, alla fin fine, che cosa è la legge irragionevole se non quella che contraddice e forza oltre la misura di ciò che si può giustificare le esigenze della dinamica sociale?
L’apprezzamento di queste esigenze si può davvero immaginare di restringere nel letto di Procuste di ragionamenti scanditi da passi uno dopo l’altro? Il controllo sulla ragionevolezza tira in ballo criteri di decisione che inevitabilmente sono estranei al puro gioco logico di compatibilità-incompatibilità tra norme positivamente poste, costituzionali e ordinarie, e non è formalizzabile in schemi di ragionamento predeterminati. Si tratta dell’applicazione di criteri, si può dire, di “giustezza” tratti dalla dinamica sociale. Sono criteri che scardinano dalle fondamenta il vecchio principio del positivismo giuridico ita lex e dura lex sed lex e conferiscono un certo primato (almeno nei casi di “manifesta irragionevolezza”) alle ragioni che stanno nella vita del diritto rispetto a quelle che stanno nelle righe delle leggi, dei codici, in generale nelle parole d’un legislatore che credesse di poter trasformare in diritto ogni cosa ch’egli vuole, semplicemente rivestendola della forma legislativa.
Nello Stato costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora ribolle sotto lo strato delle leggi.
– Questo testo è parte dell’intervento che l’autore tiene oggi pomeriggio in Senato. L’occasione è la lectio del presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi, che presenta il suo libro “L’invenzione del diritto” (Laterza)

il manifesto 22.2.18
Chi soffia sul fuoco della paura
di Norma Rangeri


L’onda nera che riporta a galla la violenza xenofoba e fascista può stupire solo chi non vede l’avvelenamento di una campagna elettorale dominata dal tema della sicurezza, annaffiata ogni giorno con dosi massicce di odio contro gli emarginati.
Un diffuso sentimento di paura è la benzina sparsa a piene mani da una destra che aspira al governo del paese, che fa immaginare a milioni di italiani, impoveriti e impauriti, di potergli cambiare la vita ingaggiando una battuta di caccia nazionale contro altri poveri diseredati ma con un diverso colore della pelle.
Questo vento di destra che attraversa l’Europa, in Italia è alimentato da politici di primo piano come Berlusconi, Salvini e Meloni, veri e propri «imprenditori della paura», secondo la definizione felice e anticipatrice del sociologo francese Pierre Musso che la coniò ormai dieci anni fa.
Con l’accoltellamento di un ragazzo a Perugia mentre affiggeva i manifesti elettorali di Potere al popolo, con la svastica a Roma sulla lapide di Moro, con l’irruzione di Forza Nuova negli studi del programma di Giovanni Floris, e con il pestaggio a Palermo di un dirigente di estrema destra, questa istigazione alla violenza è passata dalle parole ai fatti. E rapidamente, dall’irruzione, a novembre, degli skinead di Como nella sede di un’associazione per i migranti, al fascioleghista di Macerata armato di pistola per il tiro al bersaglio contro i neri, le organizzazioni di estrema destra chiedono e ottengono le piazze per i loro comizi, alimentando un clima di alta tensione.
Le leggi italiane vietano la ricostituzione del partito fascista, ma questi gruppi sono ben attenti a presentare liste e simboli evitando di nominare il fascismo, così da essere ammessi alla campagna elettorale come tutti gli altri. Salvo poi andare nel salotto di Porta a Porta e rivendicare, come ha fatto Simone Di Stefano, segretario di Casapound: «Siamo eredi dell’esperienza del fascismo, della Rsi e del Msi».
E dunque non bisogna contrastarli su loro stesso piano, cadendo così nella trappola degli «opposti estremismi», cioè replicando una sceneggiatura che purtroppo abbiamo già vissuto. Presidi e manifestazioni sono l’antidoto giusto per contrastarne i rigurgiti e impedirgli di camuffarsi nei panni delle vittime.
Ha ragione Laura Boldrini quando condanna la brutale aggressione ai danni di un esponente di Forza Nuova a Palermo, invitando a non usare l’antifascismo per giustificare azioni violente perché, dice la presidente della camera, «l’antifascismo è una cultura di pace». Ha ragione il presidente del senato Grasso quando avverte che «l’odio politico sta divorando il paese e per evitare il morto non bisogna aspettare oltre».
Bisogna reagire ai fascisti che rialzano la testa in modo democratico, come a Macerata, come a Bologna. Occupando le piazze con cortei e manifestazioni pacifiche. Altro che abbassare i toni, come invita a fare il Pd. Altro che invitare i cittadini a chiudere negozi e scuole per starsene a casa, come ha fatto il sindaco di Macerata, provocando l’annullamento di una presenza forte già organizzata da Anpi, sindacati e forze di sinistra. Quelle stesse organizzazioni che sabato saranno in piazza a Roma, questa volta anche con il Pd che ora cerca di cavalcare stantii richiami all’ordine pensando di lucrarne qualche voto.
Renzi porta in tourné il ministro dell’interno come l’uomo forte contro gli immigrati, nel tentativo di incassare qualche voto destinato ai leghisti di Salvini. Ma c’è da dubitare sul successo dell’operazione. Perché è proprio nelle periferie, nei territori di maggiore disagio che il partito di Renzi in questi anni ha conosciuto il grande esodo sociale. E perché tra la brutta copia e l’originale, è sempre l’originale ad avere la meglio.

La Stampa 22.2.18
La violenza antipasto degli esclusi
di Mattia Feltri


Da una parte e dall’altra hanno in comune la viltà: aggrediscono in tanti contro i pochi o armati contro i disarmati. Esercitano la viltà della violenza, con irruzioni in tv o assalti ai comizi del nemico, perché gli viene più facile eliminare le idee altrui che discutere le proprie, dozzinali, settarie, totalitarie. È una storia che viene da lontano e accostare l’apparente pochezza dei fatti di oggi con quelli degli Anni Settanta o del Primo dopoguerra non è una sciocchezza: si inizia sempre dalle schermaglie. Su un aspetto aveva ragione Beppe Grillo: il M5S, sebbene infastidito dai principi costituzionali dello stato di diritto, fin qui ha mantenuto la protesta dentro una sostanziale legalità, limitandosi a scorrerie di brutalità verbale, senza passare alle vie di fatto.
Ma se si va nelle periferie romane, come a Torre Angela, dove meno di due anni fa Virginia Raggi prese il 79,9%, si vedono cumuli d’immondizia, folle di clandestini, decine di scritte inneggianti al Duce. È che invece di affrontare il malcontento, tutti lo hanno blandito e rinfocolato con folli campagne sulla mafiosaggine e criminalità del sistema e con promesse surreali e mai mantenute, e hanno nutrito il mostro. Se fra sconcezze lessicali, sparatorie e pestaggi, la campagna elettorale vi pare un orrore, sappiate che è l’antipasto. Il resto verrà dopo il voto, quando gli esclusi si sentiranno ancora più esclusi.

il manifesto 22.2.18
Amnesty: «Dal centrodestra frasi di odio e razzismo»
Si salvi chi può. Rapporto di Amnesty international sul linguaggio dei candidati alle elezioni di marzo
di Marina Della Croce


Nulla nasce per caso, neanche il fascio leghista Luca Traini, il folle protagonista della sparatoria di Macerata in cui il 3 febbraio scorso sono rimasti feriti sei migranti innocenti. Certo, quello di Traini è un caso estremo, ma l’humus che alimenta certi gesti è lo stesso che nutre aggressioni certamente meno tragiche ma non per questo meno pericolose, insieme a insulti e violenze verbali.
Un humus che spesso purtroppo trova origine nei discorsi di politici che non esitano a soffiare sul fuoco pur di raccogliere consensi. Parole come «invasione» e «islamizzazione», oppure inesistenti contrapposizioni tra «noi» e «loro», dove per loro si intende sempre il «diverso» di turno, diventano così il linguaggio quotidiano di esponenti di centrodestra e di estrema destra che anziché raffreddare gli animi li esasperano.
E le conseguenze si vedono anche nelle cronache di questi ultimi due giorni, con le aggressioni subite a Palermo e Perugia da militanti di destra e di sinistra.
«Ormai siamo diventati un Paese intriso di odio e di ostilità, che discrimina, razzista e xenofobo, che rifiuta le opinioni diverse, le culture diverse», spiega amaro il direttore generale di Amnesty international Gianni Rufini presentando ieri il rapporto 2017-2018 dell’organizzazione con un focus speciale riservato proprio all’Italia e alle parole di odio che caratterizzano questa campagna elettorale.
Amnesty ha messo sotto osservazione le dichiarazioni e i profili Facebook e Twitter di 1.400 candidati in tutta Italia dei primi quattro partiti e coalizioni, compresi ovviamente leader e candidati alla presidenza delle Regioni Lazio e Lombardia. I risultati dimostrano come nel mirino dei politici di destra finiscono puntualmente non solo migranti, rifugiati e rom, ma anche donne e persone lgbt. «Il 50 per cento delle dichiarazioni – spiega Amnesty – sono da attribuire a candidati della Lega, il 27% a Fratelli d’Italia, il 18% a Forza Italia».
Per quanto riguarda i destinatari, invece, gli immigrati rappresentano un bersaglio scontato, capace i raccogliere il 79% delle dichiarazioni ostili, seguito da un 12% di affermazioni che veicolano una discriminazione religiosa (islamofobia), dal 5% di dichiarazioni contro i rom.
Chiudono la classifica, con il 4%, le discriminazioni di genere. Nel mirino, seppure in percentuale minore, anche i poveri. «C’è una parte di questo paese che si ritiene bella, pura, italiana, mentre il resto non merita di condividere il territorio», prosegue Rufini. Una situazione che «sta rendendo il clima impossibile, uccidendo ogni possibilità di confronto. Si ricorre all’incitamento alla violenza, ma anche alla sua esecuzione, come abbiamo vasto a Macerata», conclude il direttore generale di Amnesty.
Tra i politici il «campione» delle dichiarazioni offensive è il leader della Lega Matteo Salini, con ben 80 frasi, seguito da quello di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni con 61. Staccati Roberto Fiore (Forza Nuova, 12 frasi), Silvio Berlusconi (7 frasi) Simone Di Stefano (Casa Pound, 5 frasi) e Raffaele Fitto (Noi con l’Italia, 3 frasi).
Parole, ma non solo. Contribuiscono a creare un clima ostile anche alcune politiche del governo, come ricorda sempre Amnesty.
«Se nel 2014 l’Italia era orgogliosa di salvare le vite dei rifugiati e considerava l’accoglienza un valore importante nel quale l’opinione pubblica si riconosceva, oggi è intrisa di paura e razzismo». Un risultato, prosegue Amnesty, ottenuto anche grazie alla campagna contro le Ong che operano nel Mediterraneo, all’accordo con la Libia e mettendo l’Italia «alla guida della politica europea di contenimento dell’immigrazione a tutti i costi, e il costo pagato dai migranti in carcere in Libia è terrificante». «Non so se questa è l’Italia che vogliamo – conclude Rufini – purtroppo è l’Italia che sta uscendo da questa campagna elettorale».

La Stampa 22.2.18
Alessandro Campi
“In un clima politico malato i partiti soffiano sull’odio
Ma il fascismo non c’entra”
di Amedeo La Mattina


Il politologo Alessandro Campi non enfatizza gli episodi di violenza. Anzi invita a tenere i piedi per terra, a essere responsabili, a non agitare «le onde nere del fascismo» e la logica degli opposti estremismi come negli Anni Settanta. «Non c’è nulla di tutto questo».
Allora, professore, cosa sta accadendo durante questa campagna elettorale radicalizzata?
«Starei attento a fare paragoni storici impropri con gli Anni di piombo. Siamo di fronte a un vuoto progettuale e di idee da parte di alcuni partiti che hanno radicalizzato la strategia dell’allarme su temi come la sicurezza e l’immigrazione. Temi che hanno un alto tasso di mobilitazione. Questo spinge le vele dei partiti di centrodestra. A sinistra invece c’è chi agita il pericolo fascista, con la complicità di certe campagne giornalistiche, che rischierebbe di travolgere la democrazia italiana ed europea. Sono entrambi atteggiamenti irresponsabili e di corto respiro».
I partiti interpretano la rabbia che c’è nella società civile?
«Nella società italiana c’è molta frustrazione e rabbia che si canalizza nella politica, ma non è motivata dalle ideologie. Spesso siamo di fronte a comportamenti violenti di singoli, come a Macerata. È una violenza di tipo molecolare, anche nichilista. Non vedo un’organizzazione della violenza. La rabbia e la frustrazione è dovuta a fattori di emarginazione sociale, è il risultato di quello che si è seminato negli ultimi 20 anni, a cominciare dalla stagione dell’antiberlusconismo fino ad arrivare alla politica della rissa, dell’insulto diretto, della delegittimazione. I 5 Stelle hanno accentuato questo fenomeno con un linguaggio virulento. Tutto questo si è sedimentato nell’opinione pubblica. C’è un clima politico malato: se predichi violenza e istighi all’odio non può stupirti che poi qualcuno commetta atti di violenza».
Nelle periferie delle città crescono i gruppi che si richiamano al fascismo. Come se lo spiega?
«Questi gruppi non trovano consenso sulla figura di Mussolini. Chi vive in certi quartieri, spesso a contatto diretto con i fenomeni non controllati dell’immigrazione, è arrabbiato, non sono nostalgici del Duce. Credono che CasaPound o Forza Nuova siano una risposta al loro senso di abbandono».
Come dovrebbero reagire i partiti?
«Non dovrebbero soffiare sul fuoco della disperazione. Dovrebbero prosciugare la palude della rabbia con politiche concrete, mirate, responsabili. Non serve l’insulto, l’enfasi allarmista. Mentre noi discutiamo di tutto questo e siamo di fronte a chi accusa il nero che picchia il rosso e il rosso che picchia il nero, in Francia oggi Macron ha presentato un grande piano sull’immigrazione. Se lo avesse fatto Minniti, a sinistra, anche tra i suoi del Pd, direbbero che è un mezzo fascista. In Italia sarebbe necessaria una cura ricostituente di serietà».

La Stampa 22.2.18
Torre Angela dai 5 Stelle ai fascisti
“Solo il Duce ci ridarebbe serenità”
Viaggio nella periferia romana tra materassi, immondizia, stranieri e slogan
di Flavia Amabile


«Per un mondo più pulito, rivogliamo in vita zio Benito». È la ricetta magica di Torre Angela, quartiere della periferia est di Roma, quella che risolve ogni male, che riporta indietro le lancette del tempo, fa arrivare di nuovo i treni in orario, pulisce le strade, restituisce le case e tutta l’Italia agli italiani. È il fascismo della porta accanto che sta prendendo piede con i suoi simboli che a tanti non sembrano affatto pericolosi o incostituzionali.
Nelle strade di Torre Angela si susseguono materassi e scritte in caratteri neri e gotici, sacchetti di calcinacci abbandonati in spregio di ogni norma e disegni con il Duce che salverà tutti dalla fine. Ci sono anche le campane di plastica verde da riempire con bottiglie e altri rifiuti in vetro come nelle città di tutto il mondo ma qui sono tagliate di netto. Dall’interno colano tutt’intorno rivoli di bottiglie, cartoni, sacchetti di plastica pieni di chissà che cosa. È così ovunque vi sia una campana di rifiuti da sventrare, un angolo di strada libero da auto, un’aiuola più spoglia di altre.
Le campane verdi sventrate segnano il confine tra il mondo emerso e quello sotterraneo e clandestino che ha trasformato questa periferia in una delle polveriere di Roma, dove lo Stato ha fatto tre passi indietro e i neofascisti quattro avanti. Se alle ultime elezioni comunali qui Virginia Raggi ha sfiorato l’80 per cento delle preferenze, dopo quasi due anni di amministrazione pure il Movimento Cinque Stelle è stato archiviato come l’ennesima occasione persa. Alle prossime politiche ci si aspetta il balzo in avanti dell’estrema destra, l’ultima speranza di chi ormai considera la politica soltanto come una sequenza di dispensatori seriali di inutili promesse.
«L’Ama non passa da un mese ma non è colpa sua se siamo messi così», spiega Anna, insegnante con cattedra di ruolo in una scuola a pochi chilometri da qui. Ha acquistato casa molti anni fa quando a Torre Angela non si arrivava ancora in metropolitana ma la vita aveva i ritmi tranquilli delle vecchie borgate tirate su tra abusivismo e sudore da chi arrivava dall’Abruzzo, dal Molise, dalle Marche per cercare fortuna nella capitale. Nel 1978 furono costruite le case popolari, la borgata aumentò ancora. Oggi ha oltre 80 mila residenti ufficiali, quanto un capoluogo di provincia come Treviso, Como o Varese. Ma supera di gran lunga i 100mila abitanti se si calcolano tutti quelli che vivono nelle abitazioni del quartiere.
«Sono tutti immigrati, tutti irregolari - racconta la signora Anna - Come lo si capisce? Dai rifiuti, ovvio! I nostri, che siamo residenti, sono qui da un mese nei contenitori forniti dal Comune. Prima o poi l’Ama passerà e li vuoterà ma nel frattempo li lasciamo nei cortili oppure li mettiamo dentro casa quando ci rendiamo conto che non sono passati a ritirarli. I clandestini invece non hanno alternativa: prendono una busta di plastica qualsiasi e buttano dentro tutto quello che hanno, in modo indifferenziato e lo lasciano dove capita».
È così che le campane sventrate circondate da montagne di rifiuti diventano il segnale della resa di uno Stato che ha non è riuscito a evitare che migliaia di richiedenti asilo usciti fuori dai circuiti dell’accoglienza ufficiale rimanessero sul territorio italiano creando un esercito di persone inesistenti sotto un profilo ufficiale ma ben presenti quando si va a contare il numero di coloro che dormono all’aperto o di chi per guadagnarsi da vivere deve per forza superare il muro della legalità.
«Li vedi quei cancelli? Le vedi quelle finestre chiuse? Lì ai piani bassi abitano solo immigrati, gli italiani sono andati via, vengono solo a riscuotere l’affitto in nero. In una stanza dormono anche in cinque. Pensa quanto ci guadagnano», racconta Edyta, cameriera di uno dei bar della zona, romena, che prima di imparare a usare la macchina del caffè ha dovuto farsi insegnare le parole necessarie per tenere a bada i maschi di ogni etnia e religione. Alle sette di sera ce ne sono tre nel bar, tutti ubriachi. Urlano insulti contro quelli che organizzano manifestazioni anti immigrati. Si sostengono a vicenda, escono in strada. «Siete delle m...», gridano.
La strada è vuota, a Torre Angela da anni non si passeggia più né di giorno né di sera. Le voci dei tre uomini si perdono nella notte, un urlo nel vuoto. A pochi metri appare l’ennesima discarica creata da materassi, sacchetti di materiale da costruzione, oggetti di plastica. A volerla dire tutta, sarebbero rifiuti da italiani ma da queste parti si va poco per il sottile, i rifiuti sono per definizione portati dagli stranieri e c’è un’unica soluzione: «Fascismo!», come è scritto nello slalom tra materassi e siringhe delle strade del quartiere.
«Preferisci un mondo popolato dagli stranieri? - chiede Jessica, diciotto anni, al voto per la prima volta fra meno di un mese e nessun dubbio su chi sceglierà. «A casa abbiamo le foto di com’era Torre Angela trent’anni fa. Mia madre mi racconta i sacrifici dei genitori per costruire la casa e per farla studiare. E ora dobbiamo regalare tutto questo a loro? Che me frega se sui muri ci sono il Duce o chissà che altro, se ci possono restituire una vita tranquilla meglio i fasci».
Intorno a Jessica ci sono altri sei ragazzi della sua età. Annuiscono in una delle tante sere di freddo e vuoto. Il loro appuntamento è al parco dove sono cresciuti. Ci sono i giochi di quando erano piccoli, le altalene e gli scivoli. Mancano le luci ma di questo angolo di mondo conoscono ogni centimetro, possono dondolarsi anche a occhi chiusi. «E poi, visto così, è anche più bello», sussurra Pamela. Non ci sono le stelle, troppo traffico e luci lontane. Nell’aria c’è odore acre di plastica bruciata che impregna i vestiti e secca la gola. Forse ha ragione Pamela, meglio non vedere. Soprattutto quando due ragazzi si appartano e una fiammella luminosa irrompe nel buio seguita da una nuvola di fumo. Per cogliere un odore non c’è bisogno di vedere, basta avere un naso. Quello che si sta spargendo nel parco è odore di hashish, quella che sta passando di mano in mano è una canna. E chi ha venduto l’erba era uno dei clandestini dei primi piani delle case di Torre Angela. Ha davvero ragione Pamela: meglio che le luci siano spente, meglio vedere solo quello che si conosce già.

Repubblica 22.2.18
La crisi della politica
Il linguaggio del teppismo
di Ezio Mauro


Cosa sta succedendo? Nel momento del massimo disincanto dalla cosa pubblica e dalla vita dei partiti, la campagna elettorale improvvisamente è attraversata da atti di teppismo politico in serie, come non succedeva da tempo. Prima il segretario di Forza Nuova legato mani e piedi a Palermo come nei peggiori anni della nostra vita, e pestato a sangue. Poi la stessa Forza Nuova che tenta l’assalto all’informazione, attaccando gli studi romani del talk DiMartedì.
Quindi il militante di Potere al popolo accoltellato a Perugia mentre incolla i manifesti elettorali al muro. E infine la profanazione della lapide di via Fani — a pochi giorni dal quarantesimo anniversario del massacro di cinque uomini di scorta e dell’uccisione di Moro — con la scritta “Morte alle guardie”, e la svastica che ritorna come oltraggio supremo alla democrazia.
Parliamo di teppismo politico, perché abbiamo conosciuto ben altra stagione di sangue negli anni Settanta. Ma tutti i segni dicono che la violenza torna in politica, sotto forme isolate e disomogenee.
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Torna insieme con le manifestazioni di razzismo, le dichiarazioni xenofobe, le riproposizioni di un fascismo fuori dalla storia, espressione situazionista di antagonismo radicale al sistema più che di nostalgia.
Saltati quei grandi pedagoghi di massa che erano i partiti, esaurite le culture politiche centenarie che sono state un orizzonte di riferimento per generazioni, è venuto meno anche il collegamento tra la società politica nel suo complesso e le istituzioni democratiche, la coscienza di avere un tetto comune. Con tutte le sue miserie, le disillusioni e anche i tradimenti, la democrazia repubblicana “riconquistata” era qualcosa comunque da difendere, un luogo in cui cercare un riconoscimento reciproco, una tutela e uno scambio.
Sarebbe sbagliato dire che la politica oggi crea violenza. Ma mancando questi argini, la violenza sciolta che viaggia dentro la nostra società trabocca anche in politica. Anzi, qualcosa di meno e di peggio: diventa “ linguaggio” politico naturale e spontaneo, quel linguaggio teppistico che registriamo altrove, e che entrando nel campo della politica non trova più una capacità di traduzione e di decantazione in un sistema organizzato di ideali e di valori, ma anche semplicemente di concetti e di forme di espressione.
Tutto questo avviene non perché viviamo una campagna elettorale al calor bianco, ma al contrario nella fase del grande freddo, quando il cittadino e lo Stato sono una coppia apertamente in crisi, con ogni passione spenta. Il cittadino crede e chiede di poter fare a meno dello Stato, anche perché si sente scoperto dalla politica, in deficit di rappresentanza, e pensa che il suo disimpegno dalla partecipazione, dalla responsabilità, dalle scelte e dal voto ( in una parola: dal discorso pubblico) sia l’esercizio di un contropotere.
Non si accorge che è un discorso sterile. Simmetricamente e nello stesso tempo, infatti, anche lo Stato e la politica si disinteressano di lui, perché quando il cittadino si rinchiude nell’esercizio privato dei suoi diritti e li coniuga soltanto al singolare, non mette nulla in movimento, e diventa per questo irrilevante, numero ma non soggetto.
C’è poi un problema in più che riguarda la marginalità sociale, che dopo dieci anni di crisi si sente protagonista negativa non di una disuguaglianza ma di un’esclusione, tagliata fuori, sospinta ai bordi non della società ma della democrazia. A questa fetta minoritaria ma presente di cittadini perduti, la politica non ha saputo proporre un’alternativa all’egemonia della necessità: non un pensiero concorrente, nemmeno un’obiezione culturale, come se l’unica forma di espressione fosse da cercare fuori dal sistema, nell’antagonismo o in quell’antipolitica che è in grado soltanto di garantire l’incompetenza come forma di governo presunta innocente.
Quel che succede oggi, dunque, può darci qualche lezione per il dopo. Le istituzioni sono da cambiare, non da vilipendere come fanno molti. La democrazia repubblicana è malata, ma non è marcia come sostiene qualcuno. Le responsabilità della grande disaffezione italiana sono nostre e non di altri, come dicono tutti.
Ma questo non basta. Per riportare la politica al suo posto, servono identità forti, marcate, distinte e sicure, che richiamino valori riconoscibili e difendano interessi legittimi specifici, facendo nascere una passione per le “parti” in gioco, e dunque per la contesa democratica. Proprio il contrario di larghe intese tra opposti, dentro un indistinto democratico che in una società sbandata e delusa produrrebbe poco governo, cattiva politica e basso potere, allargando ancora di più il fossato senza ponti tra il Palazzo e il Paese.

Il Fatto 22.2.18
Caso Regeni, i risultati sono “insoddisfacenti”
Amnesty - Analisi di diritti umani in 159 Paesi: molte violazioni, comprese quelle dell’Egitto
di Andrea Valdembrini


Una “visione da incubo di una società accecata da odio e paura”. È quella che emerge dal nuovo Rapporto Amnesty International 2017-2018, sui diritti umani in 159 Paesi.
Difficile, secondo i dirigenti dell’ong, tracciare una scala di priorità nelle violazioni, ma le crisi internazionali, dall’Iran al Venezuela, fino allo Yemen non hanno certo aiutato. Caso esemplare quello dei Rohingya, minoranza musulmana oggetto di persecuzione in Myanmar nel corso del 2017. Senza dimenticare come gli attivisti che si battono per i diritti delle stesse minoranze vengono perseguitati: 312 quelli uccisi lo scorso anno, oltre 250 i giornalisti imprigionati, dalla Cina alla Turchia.
Un’attenzione particolare la sezione italiana di Amnesty International, che ieri a Roma ha presentato alla stampa il Rapporto, l’ha dedicata all’Egitto e al caso Regeni, sul quale i risultati ottenuti sono “insoddisfacenti”.
“Siamo lontani dalla verità giuridica – sostiene il portavoce Riccardo Noury – sia per le responsabilità degli inquirenti egiziani che per la scarsa pressione da parte italiana”. Secondo Noury, Roma è debole se sceglie gli interessi economici e commerciali a discapito della verità: “Quello che chiediamo sia al governo uscente che al prossimo è di considerare Giulio come un elemento centrale per l’interesse nazionale dell’Italia”. L’arretramento sul fronte dei diritti riguarda anche il nostro Paese, dove si ripresenta la contrapposizione politica segnata dall’odio e dalla violenza (come gli episodi di Macerata, Palermo e Perugia dimostrano). È stato il direttore generale di Amnesty Italia, Gianni Rufini, a illustrare la situazione: “Ancora nel 2014 era considerato un valore salvare rifugiati, oggi ci troviamo in una dimensione intrisa di razzismo e xenofobia e paura verso migranti, rom, Lgbt, donne e poveri: nessuno si salva”. In occasione della campagna elettorale, Amnesty ha monitorato espressioni di elettori e candidati pubblicate sui social (quindi prive di filtro editoriale); registrate frasi offensive e razziste da parte di esponenti di Lega (50% del totale) e Fratelli d’Italia (27%), mentre il bersaglio principale è rappresentato da migranti (79%), islamici (12%) e rom (5%).

Il Fatto 22.2.18
Gentiloni in manovra sui Servizi
Il premier ha provato ad aggirare la legge per prorogare già adesso gli attuali vertici di Dis, Aise e Aisi ma il blitz riesce solo a metà, si spacca il Comitato parlamentare di vigilanza
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Per la prima volta una manovra di Paolo Gentiloni sulle nomine non va come previsto. Da giorni il premier, che ha mantenuto la delega sull’intelligence, stava lavorando per affrontare una questione delicata: il mandato dei tre vertici dei servizi segreti (Dis, coordinamento; Aisi, interni; Aise, estero) scade tra marzo e maggio, nel vuoto di potere post-elettorale. Il governo, quindi, ha studiato una soluzione drastica: usare un regolamento per derogare alla legge 124 del 2007 che disciplina l’intelligence e prorogare i vertici in scadenza, da sottoporre al Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti, per un parere obbligatorio ma non vincolante.
La manovra è stata anticipata dal quotidiano La Verità e i membri del Copasir si sono messi subito in allarme, Angelo Tofalo (5Stelle) ha chiesto l’intervento del Quirinale contro “un blitz volgare e antidemocratico, un colpo di mano dell’ultimo minuto per blindare i servizi segreti”. Il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, ha proposto una mediazione, il comitato alla fine ha votato, ma senza raggiungere l’unanimità. Contrari Tofalo e di Felice Casson (LeU), che hanno contestato la scelta di usare una norma di rango inferiore (un regolamento) per cambiarne una superiore (la legge del 2007). In materie delicate come la supervisione dell’intelligence di solito si cerca sempre un compromesso che porti all’unanimità, ma non questa volta. Il risultato è un pareggio tra il tentativo del governo di un provvedimento mirato ad allungare il mandato di Alessandro Pansa (Dis) e Antonio Manenti (Aise) e le rimostranze del Copasir. Pansa e Manenti, nonostante abbiano raggiunto i requisiti per la pensione, resteranno in carica finché non ci sarà un nuovo governo nel pieno dei suoi poteri e comunque non più per un anno, per dare continuità all’attività di intelligence (la Corte dei conti non è stata consultata e potrebbe però aver da ridire). Ma tutto si deciderà soltanto dopo le elezioni: con lo stallo ci sarà la proroga di un anno, se ci sarà invece subito una maggioranza chiara, chi vince nominerà i suoi direttori dell’intelligence. Resta in bilico, quindi, il prefetto Parente all’Aisi, che scade a maggio. Pansa vuole traslocare alla fondazione per la cyber security, ma oggi il progetto evocato anche nella relazione annuale sull’intelligence resta solo su carta. Scalpita per prendere il suo posto Elisabetta Belloni, segretario generale del ministero degli Esteri.
Non è una battaglia burocratica, ma politica. Finora Gentiloni è riuscito a costruirsi un suo potere autonomo dai partiti anche e soprattutto grazie a nomine rapide di figure autonome. Ma questa volta il tentativo di gestire tutto da solo – e con Marco Minniti, ministro dell’Interno che è sempre coinvolto nelle partite sull’intelligence – si è trasformato in un infortunio. Viene garantita la continuità dell’azione dei servizi segreti, ma da ieri è chiaro che le decisioni vere sui servizi segreti spettano al prossimo governo. E Gentiloni spera di trovarsi, ancora lui, a Palazzo Chigi.

il manifesto 22.2.18
Boschi paracadutata spacca il Pd: la minoranza se ne va
Elezioni. I 14 fuoriusciti annunciano un nuovo gruppo in Comune e guardano a LeU. L’ex ministra accusata di accordi con la Spv sulla sanità. Che trema: 7 arresti
di Ernesto Milanesi


BOLZANO Affiancata dal collega di governo Gianclaudio Bressa, sostenuta da Reinhold Messner (lunedì prossimo in municipio), attesa ospite d’onore sabato all’assemblea del Bauernbund, la Coldiretti sudtirolese.
Ma la campagna elettorale di Maria Elena Boschi nel collegio uninominale di Bolzano è riuscita a far esplodere il Pd locale e l’intesa con la Südtiroler Volkspartei, essenziale nelle Regionali d’autunno.
Il seggio a statuto speciale per la sottosegretaria ultra-renziana aveva inviperito l’ex segretario Svp Siegfried Brugger: «Un errore capitale. Il sostegno a Bressa al Senato è abbastanza comprensibile perché ha fatto tanto per l’Alto Adige. Ma Boschi ancora nell’ottobre 2014 aveva chiesto l’abolizione delle autonomie speciali. È imperdonabile che la Svp si presti a questo gioco».
Poi ieri in conferenza stampa è arrivata la ratifica della spaccatura definitiva nel Pd bolzanino: 14 esponenti, cioè l’intera minoranza interna, sono usciti clamorosamente dal partito. Fra loro esponenti di spicco come Monica Franch, assessore in municipio, il presidente del consiglio provinciale Roberto Bizzo, il consigliere comunale Mauro Randi, Miriam Canestrini, membro della segreteria provinciale Pd, e Luigi Tava, assessore di Ora. Un addio senza rimpianti, causato proprio dalle «candidature paracadute»: un diktat anche per il segretario provinciale Alessandro Huber, che alla fine ha comportato l’esclusione dalle liste di Luisa Gnecchi, deputata uscente.
Randi annuncia un nuovo gruppo politico in Comune, che continuerà a sostenere il sindaco-city manager Renzo Caramaschi (in carica dal 23 maggio 2016). D’altro canto, lancia un implicito invito a un voto alternativo alle Politiche: «LeU ha candidati locali…».
Durissima l’assessore Franch: «Il Pd è diventato preposto alla gestione del potere, un pezzo per volta ha smesso di essere il luogo della discussione politica, della pianificazione e della ricerca del bene comune. Lascio il Pd non per smettere di fare politica, se mai per iniziare davvero a farla».
Così nel B & B di Bolzano restano solo fedelissimi. I fuoriusciti rimproverano perfino a Bressa di aver sposato la toponomastica senza bilinguismo, mentre a Boschi imputano accordi sottobanco con la Svp soprattutto in materia sanitaria.
A proposito di sanità dolomitica, è appena divampata una tangentopoli con la Procura di Trento che ha disposto sette arresti (fra cui due tecnici degli ospedali di Bolzano e Merano) più il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione nei confronti di Tecno Service Srl di Roma ed Heka Srl con sede a Trapani.
Intanto nell’intero Nord Est la vigilia elettorale del Pd è infarcita di difficoltà, critiche, apprensioni. L’ex senatore e sindaco di Padova, Paolo Giaretta, ha pubblicamente confessato che voterà «turandosi il naso» come fece Montanelli con la Dc. In Veneto soltanto Nicola Pellicani a Venezia può, forse, evitare la Caporetto nei collegi uninominali spartiti dal centrodestra.
E a Trieste l’eterno ritorno di Riccardo Illy si rivela imbarazzante per il Pd ormai in ginocchio. Candidato al Senato, si presenta come indipendente senza tessere di partito. Di più: preannuncia l’eventuale adesione al gruppo misto. Non basta, perché Illy sull’immigrazione sbandiera una posizione originale quanto interessata, da imprenditore della politica.
«Il ministro Minniti ha dimezzato gli sbarchi ma il problema non è risolto – ha detto – L’economia tedesca è cresciuta più della nostra grazie agli immigrati: abbiamo bisogno di certe tipologie e dovremmo andare a cercarle, per organizzare un sistema di prima accoglienza, educarli alla lingua e alla cultura italiana, formarli e avviarli al lavoro e dare loro case. La vera emergenza è che se ne vanno, lasciando le imprese senza lavoratori».

Il Fatto 22.2.18
Bolzano, primo “effetto Meb”: mezzo Pd è uscito dal partito
Quattordici esponenti locali se ne vanno in polemica con i candidati “paracadutati”
di Ferruccio Sansa


Meno dieci alle elezioni. Comincia il conto alla rovescia. Sulla rampa di lancio il Pd a Bolzano perde 14 pezzi. Sul più bello esplode il caso Boschi: se ne vanno tra gli altri l’assessora del Comune di Bolzano Monica Franch, l’assessore di Ora (nel cuore del collegio Boschi) Luigi Tava. Ancora: il consigliere comunale di Bolzano Mauro Randi e Miriam Canestrini della segreteria provinciale Pd. Poi un’altra manciata di amministratori. È l’ala dissidente del partito che fa capo al presidente del consiglio provinciale di Bolzano, Roberto Bizzo (che, per ora, rimane nel Pd). La scelta dei candidati ha fatto deflagrare il dissenso. Due nomi su tutti: Maria Elena Boschi e Gianclaudio Bressa. Candidati blindati una alla Camera, l’altro al Senato. Lei di Arezzo, lui di Belluno. “Candidature imposte dall’alto”, secondo i fuoriusciti.
Bizzo ricostruisce: “Io sono stato processato dal partito quando ero contro la legge sulla toponomastica che cancellava migliaia di nomi italiani. La commissione chiamata a decidere aveva due membri di lingua italiana, tre di lingua tedesca e un ladino, ma eletto con il Südtirol Volkspartei. La comunità italiana non era tutelata. Abbiamo il 25% degli abitanti dell’Alto Adige, ma solo il 12% degli assessori (uno su otto) e l’11,4 dei consiglieri. Stiamo sparendo. Il Pd ha preferito mantenere una nicchia di potere”. E qui si inserisce la candidatura Boschi-Bressa: “Soltanto tra Bolzano e Bassa Atesina possono essere eletti gli italiani dell’Alto Adige. E qui sono stati scelti Bressa – dalla Svp che ha visto in lui il rappresentante delle sue istanze a Roma – e la Boschi. Nessun italiano della nostra terra. Fa male a tutti: agli italiani, ma anche alla Svp perché la convivenza ha bisogno di due ruote”. L’uscita di Bizzo pare imminente. Randi, invece, ha spiegato così il suo addio: “Lascio il partito per coerenza. Nonostante l’impegno del segretario provinciale Alessandro Huber ci siamo trovati due candidature paracadutate”. Immediata la replica del sottosegretario Bressa: “Gli argomenti contro di me sono inesistenti. Se la motivazione è che sono bellunese, rispondo che è dal 2001 che vengo eletto in Alto Adige e che dal 2005 vi risiedo”. Una difesa che non vale per Boschi.
Huber, giovane segretario, si sfoga: “Il gruppo Bizzo insegue l’ennesima scissione che indebolisce tutti”. Ma poi cominciano a volare gli stracci: “È una manovra scellerata. Si lascino allora tutti gli incarichi ottenuti con i voti del Pd e si restituiscano i contributi dovuti al partito e non versati”. Huber si è trovato la candidatura tra le mani senza esserne il regista. “Lui conta poco. I giochi – racconta chi conosce le stanze del potere Pd bolzanino – li hanno fatti a Roma. E qui Bressa e Carlo Costa, dirigente di Autobrennero e vicepresidente della banca Sparkasse. Vera guida del Pd locale”.
Per chi voteranno i fuoriusciti? Randi invita a guardare nell’area del centrosinistra. Ma constata: “Liberi e Uguali è riuscito a trovare candidati locali, mentre il Pd non ha nessuna espressione del territorio in lista”. Della spaccatura potrebbero beneficiare LeU e Verdi che qui si presentano insieme. E già questo era un segno. Ma ci sono anche i Cinque Stelle: “Le richieste del territorio sono state calpestate e questo è il risultato: chi di candidatura ferisce, di candidatura perisce”, si fregano le mani i M5S del collegio di Bolzano Filomena Nuzzo e Diego Nicolini. Aggiungono: “Boschi non si degna di partecipare ai dibattiti pubblici con gli altri candidati”.
La vittoria di Boschi e Bressa pare certa. Ma bisognerà vedere le percentuali. Vincere male sarebbe una sconfitta. E l’annuncio di una débâcle alle decisive provinciali di Bolzano dell’autunno. Il Pd rischia di sfaldarsi e di trascinare con sé la Svp. A vantaggio delle destre identitarie.

il manifesto 22.2.18
Per Assad e Rojava Afrin è la via d’uscita
Siria. L’intervento di Damasco contro Ankara sembra aprire al riconoscimento dell’autogestione curda. Con la benedizione russa. Erdogan fa la voce grossa ma potrebbe approffittarne per ritirarsi salvando la faccia. A Ghouta est altro giorno di morte, sotto le bombe del governo e i mortai dei qaedisti
di Michele Giorgio


Non è fluido solo il quadro militare dopo l’arrivo l’altro giorno di combattenti filogovernativi siriani delle Ndf a sostegno delle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) – dal 20 gennaio sotto attacco delle forze armate turche entrate in territorio siriano –, successivamente arretrati a Nubl, ad una decina di chilometri a sud-est, dopo i colpi di avvertimento sparati dall’artiglieria turca.
Anche dal punto di vista politico troppe cose restano avvolte nel fumo degli interessi divergenti, e talvolta convergenti, degli attori protagonisti da anni sulla scena siriana. Nuri Mahmud, portavoce delle Ypg, insiste che i combattenti filo-Damasco e, in seguito, anche reparti regolari siriani saranno dispiegati lungo la frontiera tra Siria e Turchia.
«Sono parole coerenti con la tattica dei curdi che facendo e disfacendo alleanze tentano di proteggere le loro aspirazioni – spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani – Se una Siria federale e non la secessione curda è l’obiettivo del popolo del Rojava, è ovvio che il governo centrale sarà chiamato a riprendere il controllo delle frontiere. La richiesta di intervento rivolta a Damasco è legata al presente, per fermare la Turchia, e alla costruzione delle basi di un negoziato per il riconoscimento della piena autonomia del Rojava. A maggior ragione dopo l’abbandono della causa curda da parte degli Stati uniti di Trump».
Quanto Damasco abbia raccolto l’appello curdo in verità non è chiaro. È evidente l’interesse del presidente Bashar Assad a contrastare la Turchia e a ritornare con le sue truppe anche solo in una parte del territorio che le formazioni curde controllano ormai da anni. Allo stesso tempo Assad non ha alcuna intenzione di entrare in guerra con la Turchia.
I media siriani ripetono che i filogovernativi sono andati ad Afrin per «unirsi alla resistenza contro l’aggressione turca» e ieri hanno riferito che altri uomini delle Ndf sono entrati nella provincia unendosi ai 500 combattenti giunti il giorno prima. L’esercito regolare siriano però non si è mosso. E la Turchia continua a fare la voce grossa.
Ankara ieri ha annunciato che considererà «obiettivo legittimo» qualsiasi gruppo in appoggio ai curdi. «Ogni passo preso a sostegno dell’organizzazione terroristica Ypg significherebbe che (quei gruppi) sono allo stesso livello delle organizzazioni terroristiche e ciò li renderebbe obiettivi legittimi», ha avvertito il portavoce del presidente Erdogan, Kalin.
Kalin ha però aggiunto che Ankara non ha alcun contatto ufficiale con Damasco, ma che, se necessario, l’intelligence di Turchia e Siria potrebbero entrare in comunicazione «diretta o indiretta». Questo è l’obiettivo più immediato di Assad. Il presidente siriano sa che deve comunicare con il nemico Erdogan se vuole determinare il futuro della provincia di Idlib, l’ultima importante porzione di territorio nazionale che resta nelle mani delle milizie qaediste e dei «ribelli» pagati e armati da Ankara.
A Damasco sembrano piuttosto ottimisti sulle mosse che la Turchia dovrà fare per venire fuori dal vicolo cieco in cui si è cacciata. «Ankara è in attesa di interventi che la portino fuori dalla situazione in cui è entrata senza calcolare le perdite e le conseguenze delle sue azioni», ha scritto Mustafa al Miqdad sul quotidiano filogovernativo al Thawra.
Erdogan, a giudizio di al Miqdad, vuole ritirarsi ma non vuole perdere la faccia. Proprio l’ingresso delle Ndf ad Afrin potrebbero offrirgli la soluzione che cercava perché, aggiunge, «confermerebbe la sovranità nazionale siriana e (il presidente turco) potrebbe affermare di aver raggiunto l’obiettivo di allontanare i curdi dai confini turchi».
Per il noto commentatore arabo Abdel Bari Atwan da Afrin uscirà fuori più di tutto un accordo senza precedenti tra i curdi e il governo siriano, con la benedizione di Mosca. «La leadership siriana – spiega – ha trovato ad Afrin un’opportunità per aprire canali di comunicazione con l’autogestione curda. Non a caso dopo l’annuncio dell’accordo (tra Damasco e curdi), i russi hanno iniziato a parlare della creazione di una quinta zona di de-escalation in quella città. Significa che hanno dato il via libera alle forze siriane dirette a Afrin».
Chiamata in causa Mosca conferma di essere l’arbitro delle vicende siriane. Senza però mancare di promuovere l’integrità territoriale siriana. Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ieri ha chiesto a tutte le parti di avviare un dialogo con il governo di Damasco.
«Abbiamo più volte affermato che è possibile risolvere i problemi solo attraverso il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Repubblica araba siriana. Tutti gli attori stranieri senza eccezioni, specialmente quelli che hanno una presenza militare in Siria, devono rendersi conto della necessità di un dialogo con il governo siriano», ha detto Lavrov rivolgendosi alla Turchia.
Allo stesso tempo Lavrov insiste affinché Damasco consolidi il dialogo con i curdi. La Federazione democratica del Rojava nei disegni russi deve recidere subito e per sempre i legami con Washington che, dice Lavrov, «promuove l’istituzione di governi locali che disobbediscono apertamente a Damasco». La Turchia ieri sera ha replicato che non intende aprire alcun dialogo politico con Assad ma le sue opzioni diminuiscono con il passare dei giorni.
A 300 km di distanza un altro confronto, sanguinoso, pone di fronte quasi identici protagonisti: a Ghouta est, sobborgo di Damasco dal 2013 trappola per 400mila civili, lo scontro tra esercito governativo e opposizioni islamiste, sostenute anche dalla Turchia, prosegue con il suo carico di violenza brutale.
Ieri le opposizioni hanno denunciato altri 38 morti in raid aerei governativi, vittime che farebbero salire a 270 il bilancio da domenica, quando la controffensiva del governo è ripresa; Damasco, da parte sua, accusa i qaedisti di aver lanciato 45 missili (1.500 negli ultimi due mesi) contro quartieri della capitale uccidendo 9 persone e ferendone 45.
Dopo l’appello del segretario generale dell’Onu Guterres (che ieri ha chiesto un immediato cessate il fuoco di almeno 30 giorni per permettere la consegna di aiuti umanitari alla popolazione), la Russia si è rivolta al Consiglio di Sicurezza Onu perché oggi tenga un meeting d’urgenza su Ghouta est. Ieri nessuna notizia è giunta sul presunto negoziato in corso per l’evacuazione dei miliziani qaedisti dal sobborgo.

il manifesto 22.2.18
«No al Ruanda»: Israele arresta i primi rifugiati eritrei
Israele. Dopo la scadenza dell'ultimatum-ricatto di Tel Aviv, i primi sette richiedenti asilo sono finiti in prigione. E il numero degli ordini di deportazione sale: da 200 a 600 in pochi giorni
Protesta di rifugiati africani in Israele


Domenica scorsa scadeva l’ultimatum del governo Netanyahu ai primi richiedenti asilo africani, accusati di «infiltrazione illegale in Israele»: deportazione in Ruanda o carcere a tempo indeterminato. Ieri i primi sette rifugiati eritrei, dopo il rifiuto a lasciare Israele, sono stati arrestati.
A denunciare gli arresti sono le organizzazioni israeliane Assaf e Hotline for Refugees: «Questo è il primo passo di un’operazione di deportazione senza precedenti a livello globale». Ora si teme per gli altri, il cui numero è già salito: se domenica si parlava di 200 ordini di deportazione, ieri la stampa parlava di 600.

Il Fatto 22.2.18
Bibi sul viale del tramonto. Anche Filber “Black box” testimonia contro di lui
Israele, il funzionario si era guadagnato il soprannome per la sua fedeltà al premier
di Fabio Scuto


L’orizzonte si fa buio ogni giorno di più per il premier Benjamin Netanyahu. La prospettiva che uno dei suoi più stretti collaboratori parli con gli investigatori di Lahav 433 in qualità di “testimone di giustizia” è per “King Bibi” devastante e minaccia di mettere fine al suo regno dopo 12 anni di potere ininterrotto.
L’ondata degli scandali si arricchisce ogni giorno di altre rivelazioni. Shlomo Filber, ex direttore del Ministero delle Comunicazioni, stretto amico e confidente del premier, arrestato con l’accusa di aver favorito la compagnia di telecomunicazioni Bezeq per centinaia di milioni di dollari, ha deciso di modificare la sua testimonianza in cambio della caduta delle accuse contro di lui. Filber è un fedele collaboratore di Netanyahu da oltre vent’anni, gli amici lo chiamano “Black Box”, “scatola nera” per la sua discrezione e impenetrabilità dei suoi segreti.
Sarebbe stato lui per la polizia l’intermediario dell’accordo con il magnate dei media Shaul Elovitch, proprietario di Bezeq, in custodia anch’egli da domenica scorsa.
Filber è un sionista religioso, ma due notti in una cella fredda e maleodorante gli hanno dato il tempo per una valutazione sobria del suo futuro se non avesse accettato l’offerta di incriminare Netanyahu. Sono due le inchieste sulla corruzione per le quali è stato chiesto di processare il premier, altre toccano gli uomini più vicini a Bibi, i suoi collaboratori di staff, i suoi amici molto ricchi e molto generosi. Netanyahu nega tutte le accuse, definendole una caccia alle streghe e promette di andare avanti. Adesso i suoi colleghi di partito, e i ministri del suo governo, che fino a qualche giorno fa lo hanno difeso, restano in silenzio.
In attesa che il procuratore generale Avichai Mandelblit prenda le sue decisioni – se procedere o meno – a Netanyahu non resta che giocare la carta delle elezioni anticipate. Appare come l’unica sua scelta. Da tempo ha perso l’opportunità di sfuggire alle maglie della giustizia a un costo relativamente basso, lasciando la politica e patteggiando con la Procura. Vuole battersi fino alla fine.

La Stampa 22.2.18
Corruzione, favori e pressing sui media
Netanyahu tradito dal suo fedelissimo
Israele, il consigliere Filber testimonierà per l’accusa contro il premier
di Rolla Scolari


L’ultimo guaio di Benjamin Netanyahu si chiama Shlomo Filber, ed è un suo consigliere di vecchia data. Il capo (sospeso) del ministero della Comunicazione avrebbe accettato di comparire come testimone dell’accusa nell’ultimo scandalo di corruzione che ha come protagonista il premier d’Israele. Il cosiddetto fascicolo 4000 è il quinto nelle mani di una magistratura che da tempo indaga sull’uomo forte del Paese, mentre lui contrattacca per difendere un sistema di potere costruito in 12 anni alla guida d’Israele.
Capitani d’azienda, produttori di Hollywood, giudici e poliziotti, giornalisti influenti, una First Lady ingombrante al centro del gossip. Ci sono tutti gli ingredienti dello scontro tra poteri in una storia che questa volta rischia sul serio di far traballare quel politico che, dato più volte per spacciato, è finora riuscito a smentire i più sfavorevoli sondaggi, diventando premier quattro volte.
È la prima volta che una persona a lui così vicina siede al banco dei testimoni. Per gli inquirenti, Filber faceva da tramite: favori alla compagnia telefonica Bezeq in cambio di una copertura mediatica positiva da parte di Walla!, popolare sito d’informazione di proprietà di Shaul Elovitch, tra i maggiori azionisti di Bezeq. La polizia ha inoltre consigliato al procuratore generale d’incriminare il premier per altri due casi in cui è sospettato. Il dossier 1000 riguarda doni ricevuti negli anni dalla famiglia Netanyahu dal produttore di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario australiano James Packer: gioielli, sigari, champagne e altro per 285 mila dollari in cambio di favori politici. Registrazioni di conversazioni con Arnon Mozes, editore del quotidiano più diffuso in Israele, Yedioth Ahronoth, testimonierebbero nel fascicolo 2000 il tentativo di un accordo: una copertura giornalistica favorevole in cambio di limitare la circolazione del tabloid gratuito Israel Hayom, vicino alla destra del Likud, partito di Netanyahu. C’è poi il caso 3000, in cui è coinvolto l’avvocato del premier: una storia di tangenti nella vendita di sottomarini tedeschi Dolphins a Israele.
L’ultimo colpo alla tenuta del potere di Bibi è arrivato quando il giornalista Ben Caspit di Maariv ha rivelato martedì i sospetti della polizia nei confronti di un portavoce del premier: avrebbe tentato di corrompere un giudice – offrendole il posto di procuratore generale – per insabbiare un dossier contro la First Lady Sara che, accusata di frode e abuso di fiducia, ha speso oltre 100 mila dollari di denaro pubblico in cene per la residenza ufficiale.
Il premier nega tutte le accuse. Su Facebook ha postato un sondaggio commissionato dal suo partito: se si votasse oggi, il Likud otterrebbe quattro seggi in Parlamento in più. «Ma più l’opprimevano, e più il popolo moltiplicava e s’estendeva», scrive lui citando la Torah, libro dell’Esodo. E anche sulla stampa, la narrativa si fa intensa nella critica: «Il suo aspetto ha dato alla battaglia che combatte le dimensioni di una tragedia shakespeariana - scrive l’editorialista Nahum Barnea – Questa non è la fine. Non è neppure l’inizio della fine. Ma non può esserci fine diversa». Yossi Verter sul quotidiano liberal Haaretz definisce il premier «un cadavere politico».
Si parla di un possibile voto anticipato, che servirebbe a Netanyahu per sospendere con la campagna la minaccia giudiziaria. In pochi però nella coalizione di destra che tiene in piedi il governo vorrebbero un voto, oggi troppo rischioso, e una campagna in cui il tema sarebbe: «Quanto è corrotto Bibi?», ci dice Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz e autore di una biografia in uscita a maggio, Bibi: «The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu». Il vero rischio nell’immediato per il premier, spiega, è che il superteste Filber tiri fuori subito qualcosa di talmente esplosivo da obbligare i suoi alleati – Naftali Bennett, alla testa del partito di ultra destra HaBayit HaYehudi, e Moshe Kahlon, capo del centrista Kulanu – a tirarsi indietro, facendo crollare la coalizione. E il lungo potere di Bibi Netanyahu.

il manifesto 22.2.18
Pechino-Vaticano voci di «accordo» ormai vicino
Cina/Vaticano. Nonostante le resistenze del cardinale di Hong Kong, Pechino e Vaticano sembrano sempre più vicine


Nonostante la recenti distruzioni di chiese (nella foto una distruzione da poco effettuata nello Shanxi), motivate da Pechino sulla base di «piani urbani» e contro le «costruzioni abusive», in realtà sembra che Pechino e il Vaticano siano ormai vicine a un accordo. Un eventuale compromesso tra Cina e oltre Tevere avrebbe come punto fondamentale quello relativo alle nomine dei vescovi: a oggi Pechino vuole nominare i vescovi più congeniali.
Per il futuro un accordo potrebbe invece prevedere una forma di mediazione, con possibilità di veto.
Questo avvicinamento, se conviene tanto alla Cina quanto al Vaticano, è osteggiato dal cardinale Zen, di Hong Kong, che di recente al termine di un viaggio a Roma ha pubblicato una lettera aperta. Secondo Zen papa Francesco starebbe «svendendo» i cattolici alla Cina.

La Stampa 22.2.18
Clooney in marcia con gli studenti
La sfida a Trump parte dalle armi
L’attore dona 500 mila dollari e alimenta le voci di corsa per la presidenza
di Paolo Mastrolilli


Stavolta è diverso. La strage di Parkland, e l’attacco degli studenti sopravvissuti contro le armi, sta creando un movimento che forse inizia a scuotere la politica americana. Si capisce dal presidente Trump, che valuta iniziative per limitare la vendita, o da George Clooney, che donando mezzo milione di dollari per organizzare la «March for Our Lives» (la «Marcia per le Nostre Vite») ha subito acceso le speculazioni sull’ipotesi di una candidatura alla Casa Bianca nel 2020.
In genere l’indignazione per le stragi nelle scuole si esaurisce dopo qualche giorno, tra il dolore dei famigliari e l’immobilismo della politica. Finite le denunce, la rabbia, le lacrime, la lobby dei produttori Nra mette tutto a tacere, per due motivi: primo, i soldi con cui finanzia presidenti, senatori e deputati; secondo, la cultura delle armi radicata nel paese. La differenza stavolta è che i ragazzi della Marjory Stoneman Douglas High School si sono ribellati, e non mollano, nonostante i media conservatori li accusino di essere attori e pupazzi pagati dai burattinai liberal. Martedì sera il Parlamento della Florida si è rifiutato persino di discutere un progetto di legge per vietare la vendita delle armi da guerra, come il mitra AR15 usato da Nikolas Cruz nella strage. Lo Speaker della Camera locale, Richard Corcoran, ha risposto che lo considera un legittimo fucile da caccia e non crede che il suo bando aiuterebbe a risolvere il problema. La sopravvissuta Sheryl Acquaroli, in lacrime, lo ha condannato così: «La prossima volta che ci sarà una strage, la colpa sarà tua!».
Ieri gli studenti sono andati a Tallahassee, capitale della Florida, per incontrare i parlamentari e protestare contro la loro decisione. Il più duro è stato Alfonso Calderon: «Dicono che siamo ragazzini e non capiamo. Ma io capisco. Capisco cosa significa stare chiuso per quattro ore dentro un armadio, con persone che considero ormai famigliari che piangono temendo per la loro vita, mentre i nostri compagni vengono ammazzati. Capisco cosa vuol dire mandare un messaggio ai tuoi genitori, in cui dici loro: non so se ci rivedremo, volevo dirvi che vi amo. Capisco che un senatore voglia essere rieletto. Però non ci tapperete la bocca. Sappiamo cosa serve per impedire che queste stragi si ripetano, e continueremo a chiederlo fino a quando ci ascolterete». Intanto anche a Washington si svolgeva una manifestazione di solidarietà.
Queste iniziative stanno scuotendo il mondo della politica come non si era visto neppure ai tempi di Sandy Hook. In teoria le elezioni di Midterm di novembre avrebbero dovuto paralizzare tutto, per il timore dei candidati, soprattutto repubblicani ma anche democratici, di essere boicottati dalla potente Nra. Trump poi è stato eletto grazie al sostegno dei produttori di armi, tanto in termini di finanziamenti, quanto di sostegno nella sua base, e non avrebbe interesse a muoversi. Però in passato, prima di fare politica, era stato favorevole a limitare le vendite, e il suo istinto deve avergli suggerito che è arrivato il momento di rispolverare quelle posizioni. All’inizio è andato sul sicuro, appoggiando la legge presentata dai senatori repubblicano Cornyn e democratica Feinstein per potenziare i controlli sui compratori di armi, che la stessa Nra non osteggiava. Poi ha aggiunto la richiesta di vietare i «bump stocks», cioè gli strumenti usati da Stephen Paddock per rendere automatici i suoi fucili nella strage di Las Vegas. Ora, secondo fonti anonime della Casa Bianca, sta considerando di alzare a 21 anni l’età per comprare le armi da assalto, e ieri ha convocato una riunione per ascoltare le vittime. Vedremo quanto di questo è propaganda, fatta circolare per rispondere all’emozione del momento, e quanto diventerà sostanza. Però è chiaro che Trump, dotato di istinto politico per intercettare la pancia degli americani, ha capito che qualcosa è cambiato e bisogna reagire. Anche perché il rischio di un contraccolpo a novembre nelle urne contro il Partito repubblicano rischia di essere più grave degli eventuali ricatti dalla Nra.
Il presidente risponde pure alle tendenze della cultura popolare, e certamente non gli è sfuggito che George Clooney e la moglie Amal hanno donato mezzo milione di dollari per pagare la «March for Our Lives», la manifestazione di protesta contro le armi in programma il 24 marzo a Washington: «La nostra famiglia - hanno detto - ci sarà. La facciamo per i nostri figli Ella e Alexander, ne va della loro vita». Subito dopo Oprah Winfrey ha aggiunto un altro mezzo milione: «Sto con George, contribuisco anche io». Naturalmente sono subito iniziate le speculazioni sull’ipotesi che Clooney voglia candidarsi alla presidenza nel 2020, usando il miliardo di dollari incassato dalla vendita del marchio della tequila Casamigas, con una piattaforma basata su immigrazione, abusi contro le donne «Mee Too», disuguaglianza economica, e ora le armi. Abbastanza per costruire una coalizione vincente.

Il Fatto 22.2.18
La farfalla e l’arte del dolore
Il segreto - Com’è possibile che una pittrice tanto concentrata sulla propria immagine non sia mai narcisista? La sensibilità del suo stesso corpo martoriato la rendeva consapevole di tutto ciò che è vivo
di John Berger


Erano conosciuti come l’Elefante e la Farfalla, anche se suo padre la chiamava la Colomba. Quando è morta ha lasciato centocinquanta piccoli dipinti, un terzo dei quali classificati come autoritratti. Lui era Diego Rivera e lei Frida Kahlo.
Frida Kahlo! Come tutti i nomi leggendari, sembra inventato, ma non lo era. Nel corso della sua vita è stata una leggenda in Messico e – tra una ristretta cerchia di artisti – a Parigi. Oggi è una leggenda mondiale. La sua storia è stata raccontata più volte e assai bene, da lei stessa, da Diego e in seguito da molti altri. Vittima della polio da bambina, di nuovo menomata in un incidente d’autobus, introdotta alla pittura e al comunismo da Diego, la loro passione, il matrimonio, il divorzio, il nuovo matrimonio, la storia d’amore con Trockij, l’odio per i gringos, l’amputazione della gamba, il probabile suicidio per sfuggire al dolore, la bellezza, la sensualità, l’umorismo, la solitudine.
Soltanto alcuni dei dipinti di Frida Kahlo sono su tela, la maggioranza è su metallo o masonite, che è liscia come il metallo. Per quanto fine, la trama della tela opponeva resistenza e sviava la sua visione, rendendo le sue pennellate e i contorni che disegnava troppo pittorici, troppo plastici, troppo pubblici, troppo epici, troppo simili (anche se ancora così diversi) al lavoro dell’Elefante. Perché la sua visione restasse intatta, aveva bisogno di dipingere su una superficie liscia come la pelle.
Anche nei giorni in cui il dolore o la malattia la costringevano a letto, passava ore ogni mattina a abbigliarsi e acconciarsi. Ogni mattina, diceva, mi vesto per il Paradiso! Facile immaginare il suo viso allo specchio, con le sopracciglia scure naturalmente unite che lei sottolineava con il kajal trasformandole in una parentesi nera per i suoi occhi straordinari. Analogamente, quando dipingeva i suoi quadri era come se stesse disegnando, dipingendo o scrivendo sulla propria pelle. In tal caso, ci sarebbe stata una duplice sensibilità, perché anche la superficie avrebbe sentito quel che la mano andava tracciando – collegati come sono, i nervi di entrambe, alla stessa corteccia cerebrale. Quando Frida dipingeva un autoritratto con un piccolo ritratto di Diego dipinto sulla propria fronte e sulla fronte di lui un occhio dipinto, sicuramente stava confessando – tra le altre cose – questo sogno. Con i suoi pennellini, sottili come ciglia, e i suoi tratti meticolosi, ogni immagine da lei prodotta, una volta diventata a pieno titolo la pittrice Frida Kahlo, aspirava alla sensibilità della sua pelle. Una sensibilità acuita dal desiderio, esacerbata dal dolore.
Il simbolismo corporeo da lei utilizzato quando dipingeva parti del corpo quali il cuore, l’utero, le ghiandole mammarie, la spina dorsale, per esprimere i propri sentimenti e la propria brama ontologica è stato studiato e commentato. Se ne serviva come solo una donna può fare, e come nessun altro prima di lei aveva fatto. Senza la sua particolare tecnica pittorica, questi simboli sarebbero rimasti stramberie surrealiste. E la sua tecnica aveva a che fare col senso del tatto, col doppio tocco della mano e della superficie come pelle.
Osservate il modo in cui dipinge i peli, che siano quelli sulle zampe delle sue scimmie domestiche o quelli che le crescono lungo l’attaccatura dei capelli sulla fronte e le tempie. Ogni pennellata spunta come un pelo da un poro della pelle. Gesto e sostanza sono tutt’uno. In altri dipinti, le gocce di latte spremute da un capezzolo, le gocce di sangue che colano da una ferita o le lacrime che sgorgano dagli occhi hanno la stessa identità corporea – in altre parole, la goccia di colore non descrive il liquido corporeo ma sembra esserne il doppio. In un quadro intitolato La colonna spezzata il corpo di Frida è trafitto dai chiodi e lo spettatore ha l’impressione che sia lei a tenere i chiodi tra i denti e a conficcarli con il martello a uno a uno. Tale è l’acuto senso del tatto che rende unica la sua pittura.
Com’è possibile che una pittrice tanto concentrata sulla propria immagine non sia mai narcisista? Bisogna tornare al dolore e alla prospettiva in cui Frida lo poneva non appena le dava un po’ di tregua. La capacità di provare dolore, lamenta la sua arte, è la prima condizione dell’essere senzienti. La sensibilità del suo stesso corpo martoriato la rendeva consapevole della pelle di tutto ciò che è vivo: alberi, frutti, acqua, uccelli e, naturalmente, altre donne e uomini. E così, dipingendo la propria immagine come se la dipingesse sulla propria pelle, lei ci parla di tutto il mondo senziente.
I critici dicono che l’opera di Francis Bacon riguardava il dolore. Ma nella sua opera il dolore è osservato attraverso uno schermo, come si guarda la biancheria sporca attraverso l’oblò di una lavatrice. L’opera di Frida Kahlo è l’opposto di quella di Francis Bacon. Non c’è schermo; lei è in primo piano, che procede, con le sue dita delicate, punto dopo punto, non a cucire un abito, ma a suturare una ferita. La sua arte parla al dolore, la bocca premuta sulla pelle del dolore, e parla della senzienza e del suo desiderio e della sua crudeltà e dei suoi appellativi privati.
Rivera disponeva le sue figure in uno spazio di cui aveva totale padronanza e che apparteneva al futuro; le collocava lì come monumenti: erano dipinte per il futuro. Nei quadri di Frida Kahlo non c’era nessun futuro, solo un presente immensamente modesto che rivendicava tutto e al quale le cose dipinte fanno momentaneamente ritorno mentre le osserviamo, cose che erano ricordi ancor prima di essere dipinte, ricordi della pelle.
Così torniamo al semplice gesto di Frida che dispone il pigmento sulle superfici levigate che ha scelto per dipingere. Distesa a letto o contratta nella sua sedia, un pennello minuscolo nella mano con un anello per dito, ricordava quel che aveva toccato, quel che era lì quando il dolore non c’era. Dipingeva, per esempio, la sensazione del legno lucido di un parquet, la consistenza della gomma delle ruote della sua sedia a rotelle, la lanugine delle piume di un pulcino o la superficie cristallina di una pietra, come nessun altro. E questa abilità discreta le veniva da ciò che ho definito un duplice senso del tatto: la conseguenza dell’immaginare che stava dipingendo la propria pelle.
C’è un autoritratto del 1943 dove è distesa su un paesaggio roccioso e una pianta le cresce dal corpo, le vene che si uniscono alle venature delle foglie. Dietro di lei le rocce pianeggianti si estendono fino all’orizzonte, simili alle onde di un mare pietrificato. Eppure le rocce richiamano precisamente la sensazione che lei avrebbe provato sulla pelle della schiena e delle gambe se su quelle rocce fosse stata distesa. Frida Kahlo stava guancia a guancia con tutto ciò che raffigurava.
Che sia diventata una leggenda mondiale è in parte dovuto al fatto che nei tempi bui in cui viviamo sotto il nuovo ordine mondiale la condivisione del dolore è una delle precondizioni essenziali per riscoprire la dignità e la speranza. Molto dolore non è condivisibile. Ma si può condividere la volontà di condividerlo. E da questa condivisione inevitabilmente inadeguata nasce una resistenza.

La Stampa 22.2.18
Nel ’68 Guttuso scopre la rivoluzione
A Torino una mostra sul pittore e l’arte rivoluzionaria di 50 anni fa Folgorato dal Movimento studentesco, l’interprete dell’ortodossia artistica comunista entrò in collisione con il suo grande amico Giorgio Amendola
di Marcello Sorgi


Renato Guttuso s’era preso una sbandata per il ’68. Sembra incredibile, pensando all’austerità del pittore ufficiale del Pci scomparso nel 1987. Guttuso, notoriamente filosovietico, era stato officiato del Premio Lenin, veniva ricevuto a Mosca come un’autorità, considerato un esempio tra i maggiori del «realismo socialista».
Eppure, come emerge dai documenti della mostra che si aprirà domani alla Gam di Torino, con alcuni dei suoi più importanti dipinti politici, nella primavera del Maggio francese il pittore visse una sorta di tormento e un completo rivolgimento, personale ed esistenziale, prima che politico. Qualcosa che lo portò in rotta di collisione con uno dei suoi più grandi amici nel partito, il leader storico della destra comunista Giorgio Amendola (immortalato, tra l’altro, in un memorabile ritratto a olio). In uno scritto riservato ma assai esplicito, espresse al «caro Giorgio» dubbi, perplessità e riserve sulla linea di contrapposizione che il Pci aveva assunto verso il Movimento studentesco.
L’attacco del migliorista
La lettera è datata 14 giugno 1968. Meno di un mese prima, alle elezioni del 19 maggio, il Pci aveva guadagnato quasi un milione di voti. Due mesi prima, il 19 aprile, Luigi Longo, il leggendario comandante partigiano «Gallo» e allora segretario comunista, aveva ricevuto a Botteghe Oscure una delegazione di studenti romani guidata da Oreste Scalzone (poi coinvolto in indagini sui fiancheggiatori del terrorismo e latitante a Parigi con Toni Negri per molti anni). Amendola, fiero oppositore del movimento, di cui contestava quelli che ai suoi occhi apparivano evidenti limiti, come l’approssimazione culturale, il marxismo superficiale e i primi cedimenti alla violenza, per un po’ s’era tenuto, trincerandosi in un silenzio che decise di rompere all’improvviso il 7 giugno, con un fiammeggiante articolo su Rinascita.
Fin dal titolo, «Necessità della lotta su due fronti», il testo si presentava come drastico raddrizzamento di una linea valutata troppo cedevole: dovere del Pci, a suo giudizio, era condurre una battaglia parallela senza esclusione di colpi contro «l’opportunismo socialdemocratico» e «l’estremismo settario». Un estremismo, quello del Movimento, del tutto inaccettabile, dagli attacchi al Pci all’assemblearismo, agli slogan delle manifestazioni inneggianti alla violenza, ai non chiari rapporti economici con la Cina, agli striscioni con la faccia di Che Guevara - repulsione, quest’ultima, condivisa con il resto del partito. Si pensi che quando il Che era stato assassinato in Bolivia, il 9 ottobre ‘67, non si trovò un solo dirigente comunista di livello disposto a commemorarlo, e dovendosi pur pubblicare qualcosa sull’Unità, fu precettato l’allora segretario della Fgci Claudio Petruccioli. Che lo criticò garbatamente, come si fa con i morti, ma fu egualmente stigmatizzato con una nota di rammarico dell’ambasciata dell’Avana a Roma.
L’articolo di Amendola aveva sollevato reazioni nella sinistra del partito, da Lucio Lombardo Radice a Rossana Rossanda a Davide Lajolo. Ma una replica di Guttuso, da sempre annoverato tra gli amendoliani e amico personale del compagno Giorgio, non era immaginabile. Invece, a una settimana dall’uscita di Rinascita, la busta vergata a mano con la caratteristica grafia del pittore era stata recapitata a destinazione.
Scusandosi per non poter intervenire al dibattito sulla vittoria elettorale in Comitato centrale, Guttuso contestava subito «la critica nei confronti del Movimento studentesco» perché «non accompagnata da sufficiente autocritica sulle esitazioni, i ritardi, i distinguo» del partito, forse condizionato da «irrigidimenti postumi, specie da parte sovietica», e non in grado di cogliere «i motivi profondi di rivolta» sviluppatisi «senza attivo intervento dei comunisti, ai quali è toccato spesso di far da freno».
Di qui il fendente più vigoroso: «Noi abbiamo discusso sull’opportunità di portare in giro la faccia, ma non sulla sballata ideologia di Guevara, Debré e del loro maestro Althusser. Credi che la faccia di Garibaldi abbia contato poco, ai suoi giorni?». Seguiva una presa in giro di intellettuali come Adorno e Marcuse, del «vecchio Lukács», e delle loro strane teorie, genere «oggi è l’Eros il fantasma che percorre l’Europa», che si affermavano liberamente, perché chi avrebbe dovuto contrastarle, come ad esempio il filosofo Cesare Luporini, le condivideva dichiaratamente. La conclusione era che il Pci si sarebbe dovuto aprire e confrontare con gli studenti. Come appunto per la prima volta Guttuso confessava apertamente di aver fatto.
L’atmosfera del Maggio
All’epoca della lettera, infatti, il pittore aveva pienamente maturato la sua sbandata, tra Parigi e Roma. Imbevuto dell’atmosfera del Maggio e della «Rive gauche», sentendosi ringiovanito, era entrato in contatto con il gruppo situazionista degli «Uccelli», in cui militava l’attuale direttore del Tgcom24 Paolo Liguori. Aveva partecipato all’occupazione di Architettura a Valle Giulia, illustrandone con un graffito la facciata, condividendo il progetto di trasformarla in una comune agricola e finanziando personalmente l’acquisto di un gregge di pecore, che vennero messe a pascolare nel parco della facoltà, fino al duro intervento della forza pubblica per liberare l’edificio, che ispirò a Pasolini la famosa poesia a favore dei poliziotti e contro gli studenti.
Amendola, che rispose blandamente alla lettera, forse consapevole del carattere ombroso dei siciliani, la sua rivincita se la prese nel 1978. Celebrando il decennale del ’68 in una lunga intervista sull’Unità, ripropose pari pari le sue posizioni (peraltro oggettivate dall’escalation del terrorismo) e concluse che anche Longo, ormai fuori gioco, sotto sotto era d’accordo con lui: quegli studenti a Botteghe Oscure li aveva ricevuti solo a scopo elettorale.

Repubblica 22.2.18
La chimica dell’amore
Zygmunt Bauman e Aleksandra Kania
“Amarsi a ottant’anni è come a sedici”
L’ultimo Capodanno ballammo un valzer
Alzò il calice e disse: “Credo che quest’anno sarà piuttosto breve”
Capii che l’amicizia stava tramutandosi in qualcosa d’altro dallo sguardo dei colleghi. Per loro eravamo già coppia
di Simonetta Fiori


Mi capisce più Aleksandra di quanto riesca a fare io stesso». Così Zygmunt Bauman a proposito della signora mite e ribelle che l’ha accompagnato negli ultimi anni della sua vita.
Una storia sentimentale che ha il sapore del romanzo. Il primo incontro all’Università di Varsavia oltre sessant’anni fa. La lunga intesa intellettuale e civile spezzata nel 1968 dall’espulsione di Zygmunt per motivi politici. Il buio della separazione, poi il rinsaldarsi del legame insieme a Janina Lewinson e Albin Kania, i loro amati consorti. La vedovanza, il comune dolore della perdita. E nel 2010 “il miracolo dell’amore”: lei ha 78 anni, lui 85.
Ospite dell’editore Laterza, la sociologa Aleksandra Kania ripercorre la sua vita insieme a Bauman. Con la semplicità e l’ironia che caratterizzavano il suo compagno.
Vi siete conosciuti nel 1954 a Varsavia, entrambi studenti di filosofia. Cosa la colpì del suo futuro marito?
«Lo sguardo. Aveva occhi neri con la vivacità della fiamma, capaci di cogliere ogni cosa con straordinaria rapidità. Zygmunt sapeva ascoltare. Aveva solo 29 anni ma sembrava molto più maturo. Del nostro gruppo era il leader indiscusso, ma non tendeva mai a prevaricare. Non era nella sua indole».
Lei era la figlia di Boleslaw Bierut, detto anche “lo Stalin polacco”. Bauman l’ha aiutata a fare i conti con l’ingombrante figura paterna?
«Parlarne con lui è stato per me molto importante. Entrambi siamo arrivati alla conclusione che era un uomo buono e onesto che in quelle determinate circostanze storiche si è ritrovato a fare del male. È il paradosso del comunismo: aspirare a salvare l’umanità per poi ottenere il risultato contrario».
Nel 1968 Bauman fu espulso dall’Università con l’accusa di istigare la rivolta degli studenti contro il regime comunista.
«Nel nostro Dipartimento di filosofia e sociologia furono giorni terribili. Noi ci schierammo contro quella decisione, ma non fummo ascoltati. Anche io venni sospesa dai corsi. Zygmunt fu costretto a lasciare il paese in conseguenza della campagna antisemita».
Dopo il crollo del Muro, tornò in Polonia insieme alla moglie Janina. Poi siete rimasti entrambi vedovi. E nel 2010 avete scoperto di essere innamorati.
«Vuole sapere cosa vuol dire innamorarsi a ottant’anni? Niente di diverso che innamorarsi a sedici anni. Non è affatto vero che le persone anziane non siano più capaci di provare desiderio sessuale, intimità, emozioni forti, dedizione l’uno all’altro. Tutto questo resta intatto, insieme all’esperienza del passato che può tornare anche in modo pesante».
In che senso?
«A ottant’anni è ancora più forte la paura di perdere la persona amata, un timore tipico della giovinezza.
Quando si è vecchi, il rischio aumenta dal momento che è poco il tempo che ci resta. Ma nonostante questo si vuole vivere l’esperienza fino in fondo. Zygmunt scriveva che l’amore non è semplicemente la promessa di una felicità facile, ma il tentativo costante di tenere vivo questo sentimento attraverso la cura dell’altro. E senza voler imporre all’altro la felicità contro la sua stessa volontà: ritorniamo al paradosso del comunismo! Ad esempio: Zygmunt amava da pazzi cucinare per me, ma al principio della nostra storia in pochi mesi sono ingrassata di sei chili. Ero tutt’altro che felice…».
Da cosa capì che l’amicizia stava mutando in qualcos’altro?
«Dallo sguardo degli altri.
Nell’ambito accademico eravamo per tutti una coppia, prima che noi stessi ce ne rendessimo conto».
Ma lei non s’era accorta di nulla?
«La prima volta che ne ebbi percezione fu per la sua festa degli ottantacinque anni. Il governo polacco aveva organizzato una grande cerimonia in suo onore a cui non ero stata invitata, ma Zygmunt insistette per avermi al suo fianco a cena. Tra tanti amici aveva scelto me! Poi durante la conferenza, nel pomeriggio, ebbe un gesto commovente. Furono in tanti a portargli degli omaggi floreali, ma Zygmunt volle scendere dal palco per porgermi quei fiori. Ne rimasi colpita».
E lei come ricambiò?
«Per il compleanno successivo lo andai a trovare nella sua casa di Leeds, in Gran Bretagna. Insieme a me c’era anche un gruppetto di studenti che preparavano la tesi di laurea su Bauman. Era il mio modo per dichiarargli amore. Arrivò il Capodanno e Zygmunt mi chiese di trascorrerlo insieme in una località a sorpresa, che avrei scoperto solo all’ultimo. Mi portò a Bellagio, sul lago di Como. E lì mi consegnò l’anello di fidanzamento».
(Aleksandra mostra teneramente lo smeraldo incastonato tra due brillanti).
Come le ha chiesto di sposarla?
«Fu durante la pausa di una conferenza. “Posso farti una domanda? Mi vuoi sposare?”. “Né l’uno né l’altro: non voglio domande e non voglio sposarti”.
Avevamo avuto entrambi due lunghi matrimoni felici: non aveva alcun senso risposarsi. Potevamo restare amici e amanti, anche vivere insieme ma senza una nuova investitura coniugale. Ma lui continuò a insistere con l’argomento che sarebbe stato difficile stare insieme vivendo in due paesi diversi. E alla fine, dinnanzi a tanta tenacia capitolai».
Lei si trasferì nella sua casa di Leeds. Cosa significò occupare lo studio che era appartenuto a Janina, il grande amore di Bauman?
«Trovai una stanza piena zeppa di carte, cartoline e libri di Janina, ma anche io avevo bisogno d’uno spazio per me. Così misi da parte le sue cose. “Ascolta bene “, mi diceva Zygmunt, “Janina non è più qui.
Ora ci sei tu”. Forse per rassicurarmi, mi raccontò che gli era apparsa in sogno per darmi il benvenuto in quella che era stata la loro casa. Per me non era facile.
Non era facile sostituire Janina al suo fianco e non era facile entrare nel ruolo di moglie di Bauman.
Cercavo di difendere la mia identità. E su questo Zygmunt scherzava molto, rivelandomi anche un aspetto di me che non conoscevo: dietro l’aspetto mite e pacato, coltivavo la natura di combattente. Lottavo per preservare la mia diversità, le mie abitudini, la mia indipendenza».
Voi teneste insieme a Modena una lezione sull’amore. Seppure in modo indiretto, parlavate anche di voi in quella conferenza?
«In modo molto indiretto: si trattava di una lezione teorica».
Glielo domando perché lei sostenne che «l’amore è l’unione tra due anime: il problema consiste nel dare equilibrio all’amalgama che ne scaturisce». Voi ci siete riusciti?
«Se ci siamo riusciti è stato attraverso un confronto acceso, che poteva sconfinare nel litigio. E anche con Janina - l’avrei saputo più tardi - Zygmunt aveva avuto un rapporto battagliero».
Sempre in quella lezione Bauman disse che l’amore è più il piacere di dare che di ricevere. A lei cosa ha dato?
«Un immenso regalo, che intrecciava passione sentimentale e sintonia intellettuale. Zygmunt mi chiedeva spesso se mi sentissi amata. E io lo ricambiavo con la sua stessa attitudine: preferisco amare che essere amata. E fino all’ultimo giorno sono stata stimolata dalle interpretazioni originali».
Bauman sentiva che la fine si stava avvicinando?
«Sì, aveva questo presentimento.
Un giorno mi chiese di chiamare le sue tre figlie, come per una cerimonia dell’addio. La sera di Capodanno, il nostro ultimo insieme, gli proposi di ballare il valzer, come avevamo fatto a Bellagio. Lui si mise in piedi a stento. Poi alzò il calice dello champagne e mi disse: “Credo che quest’anno sarà piuttosto breve”.
Zygmunt è morto nove giorni dopo».

Repubblica 22.2.18
L’assessore Bergamo
“Cinema America Io, feticista dei film, voglio fare pace”
di Arianna Finos


ROMA Luca Bergamo, oltre 180 esponenti della cultura e persino Martin Scorsese, hanno chiesto le sue dimissioni. Come si è arrivati a questo?
«Perché tanta tensione? Io e la sindaca Virginia Raggi ci siamo limitati a dire che, per utilizzare piazza San Cosimato, è necessario partecipare a un bando. Per ragioni amministrative e perché usiamo questo strumento ogni volta che qualcuno accede a luoghi pubblici, salvo norme specifiche. Ho detto più volte che il cinema in piazza San Cosimato è una bella attività. Lo ha scritto anche la sindaca nella sua lettera.
Noi auspichiamo che i ragazzi del Cinema America partecipino al bando dell’Estate romana: hanno tutti gli strumenti per aggiudicarselo. Come da questo sia nata una polemica, peraltro unilaterale, proprio non lo capisco».
La vicepresidente della commissione Cultura Gemma Guerrini ha definito “feticista” chi guarda i vecchi film.
«Quella di Guerrini è stata un’uscita a sproposito da cui si è dissociato l’intero gruppo consiliare. Io e la sindaca compresi».
Ma non l’avete fatto subito.
E anche la sollecitazione alle dimissioni di Guerrini è arrivata in ritardo.
«Abbiamo impiegato 36 ore per dissociarci. La verità è che io non avevo letto il suo post. L’ho scoperto solo quando è arrivata a me la richiesta di dimettermi perché un’altra persona aveva scritto cose in contraddizione con ciò che ho sempre detto e fatto.
Ma probabilmente sì, la risposta doveva essere più rapida».
Converrà che si tratta di affermazioni gravi.
«Di più: inaccettabili».
Lei è un “feticista” del cinema?
«Molto. Ho visto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri quattordici volte, di recente con i miei figli Sacco e Vanzetti, adoro Il Divo, che considero l’unico giudizio politico che l’Italia abbia pronunciato su Andreotti. Vivo di cinema».
Chissà che idea si sarà fatto Scorsese di come viene considerata la cultura a Roma.
«Vivo tutto questo come un dolore personale. Per quel che ho fatto, per la mia storia, per quello che faccio qui ogni giorno, essere definito indegno di rappresentare la cultura mi ha fatto male. Ma declino la richiesta di dimissioni.
E lo dico con garbo: in una società che strilla, cerco di non urlare».
Come farete pace con i registi?
«Il cinema è un elemento fondamentale nell’identità moderna di una città che è anche la capitale del Paese. Il confronto con il mondo del cinema su come fare meglio il nostro lavoro è importante. Lo strappo c’è stato, ne siamo consapevoli. Vorremmo incontrare dopo le elezioni chi ha firmato e anche chi non l’ha fatto. Farebbe bene a tutti».
Si è fatto sentire qualcuno dai vertici del M5S?
«No».
Per il portavoce dei ragazzi dell’America, Valerio Carocci, il bando è un gesto di ostilità dell’amministrazione, come è successo nel caso della concessione della Sala Troisi.
«Starei ai fatti. Attraverso un percorso amministrativo complicato questa amministrazione ha concluso la convenzione per la Sala Troisi (che i ragazzi dell’America hanno preso in gestione per farne un centro di attività culturali, ndr) che derivava dal bando dell’amministrazione precedente. Un pregiudizio non può mettere in dubbio il fatto in sé. In piazza San Cosimato ci potrebbe essere anche quest’anno l’Arena se i ragazzi accettassero di partecipare al bando dell’Estate romana. Sono chiaramente bravi nel presentare i progetti: non vedo quali ostacoli potrebbero incontrare».
Non si poteva trovare un’alternativa al bando?
«Si possono discutere le norme e cambiarle, non stiracchiarle».
Cosa auspica ora?
«Che i ragazzi si presentino al bando entro il 19 marzo. Non vogliono stare nel cappello dell’Estate romana? Stiamo cercando di capire se possono partecipare al bando ma, sempre se lo vogliono, fuori dal cappello dell’Estate romana a livello di comunicazione».
La situazione sembra di stallo.
«La volontà di fare l’Arena c’è ma il bando non si può bypassare. È questo il canale giusto e i ragazzi, lo ribadisco, hanno tutte le possibilità di vincere».