Repubblica 16.2.18
Riscoperte
Lo scrittore errante che decise di essere Don Chisciotte
di Pietro Citati
Lo
spagnolo Miguel de Unamumo era un devoto del personaggio di Cervantes.
Anzi, pensava di aver capito l’eroe che sfida i mulini a vento meglio
dell’autore. Mentre il suo saggio ritorna, ecco la storia di una folle
passione
Miguel de Unamuno, nato il 29 settembre 1864 a Bilbao e
morto il 31 dicembre 1936 a Salamanca, si sentiva profondamente basco;
e, come basco, detestava le persone gravi e noiose, che avevano oscurato
la luce e il riso della Spagna. Il suo maestro era Kierkegaard. Viveva
nell’assoluto presente, sebbene avesse nostalgia del Medioevo.
Detestava
il razionalismo della cultura moderna: abitava nell’inconscio: non
sapeva che stesse dicendo e scrivendo: amava le cose piccole che
sfuggono allo sguardo. Cercava la follia, tutte le follie che avevano
posseduto la Spagna e il mondo nei tempi felici; e per recuperare queste
follie, leggeva e rileggeva il Don Chisciotte che le aveva fondate. Si
sentiva anche lui un cavaliere errante, che si gettava contro ogni
ostacolo e per qualsiasi strada cercando di cancellare la spessa palude
di tedio che nascondeva il volto della Spagna. Come San Paolo, suo primo
maestro, esaltava il paradosso e l’impossibile, con una magnifica e
sarcastica eloquenza. Così tentò di resuscitare Don Chisciotte, il
“cavaliere della fede”, “il cavaliere della nostra fede”; e nel 1904 gli
dedicò il suo capolavoro, Vita di Don Chisciotte e Sancio (Bompiani,
benissimo curato da Armando Savignano, col testo spagnolo, pagine 890,
euro 40), al quale seguì nel 1913 Il sentimento tragico della vita. Non
gli importava nulla di Cervantes, che spesso condannava, accusandolo di
non capire affatto il proprio libro: accusa portata contro ogni verità e
giustizia. Egli credeva che Don Chisciotte fosse fisicamente esistito:
che esista anche ora e che esisterà sempre nel più lontano futuro; vede
il mondo con i suoi sguardi, e soffre perché, come lui, si sente
imprigionato nella terra.
Unamuno commenta il libro come un
mistico commenta la Bibbia: così Origene aveva commentato l’Antico e il
Nuovo Testamento; Don Chisciotte è la Bibbia. Egli non fa che guardare
l’eroe meraviglioso.
Eccolo: è un hidalgo: ha cinquant’anni. Non
lavora, non paga le tasse, non ha moglie né figli; ha qualche amico, tra
i quali il curato e il barbiere del paese. Tutto attorno a lui e dentro
di lui è sempre uguale, come nell’esistenza di madame Bovary. Mangia
vacca, montone, insalata di carne, uova e prosciutto, lenticchie, «e
qualche colombino in più la domenica». Non fa che leggere: legge libri
di cavalleria con tanta passione e gusto, che trascura l’esercizio della
caccia e l’amministrazione delle proprie terre. Di notte sta sveglio
per capire i romanzi, sebbene non li avrebbe potuti comprendere nemmeno
Aristotele.
Anche Unamuno, che vuole essere folle come Don
Chisciotte, non fa che leggere libri antichi e moderni: accompagnato di
nascosto da Don Chisciotte. È persuaso che il libro, dal quale non può e
non vuole sottrarsi, è un grande libro filosofico: l’unico della Spagna
(e della Russia, diceva Dostoevskij).
Ma dir libro filosofico è
dir poco: quasi nulla lo distingue dai Vangeli: Don Chisciotte è “un
vero ministro di Dio”: è simile a Gesù: perde la propria anima, ma chi
perde la propria anima, come dicono appunto i Vangeli, la salva; e,
mentre noi non ce ne accorgiamo, sta creando il presente e futuro regno
di Dio sulla terra.
L’altra figura cara ad Unamuno è sant’Ignazio
di Loyola; e tutto ciò che padre Pietro de Rivadeneira racconta nella
vita di sant’Ignazio si potrebbe raccontare di Don Chisciotte: entrambi
sono “dei cavalieri erranti di Cristo”: entrambi non hanno meta né
programma: si abbandonano al caso, perché Dio è il grande signore del
caso. Dio vuole che il servo carnale di Don Chisciotte, Sancio Panza –
che sembra occuparsi soltanto di mangiare l’olla potrida e dormire
profondamente – diffonda e moltiplichi il Chisciottismo sulla terra. Don
Chisciotte ha fede in Dio: ma anche Sancio Panza ha fede sia in Don
Chisciotte che in Dio. Questa fede è lì, presente, in ogni punto del suo
corpo e in ogni momento della sua giornata. «Oh – dice Unamuno –
meraviglioso potere della fede ribelle ad ogni urto del disinganno e
della delusione! Oh, misteri della fede Sanciopanzesca, che senza
credere crede e, pur vedendo, comprendendo e dichiarando che ogni cosa è
nera, fa sì che chi l’ha in cuore senta ed agisca e speri come se fosse
bianca». Sancio dice: «diventerò un altro come Don Chisciotte, a Dio
piacendo». «E Dio lo vorrà sicuramente», commenta Unamuno: «Sancio
buono, Sancio prudente, Sancio cristiano, Sancio sincero; Dio lo vorrà».
Un
giorno – racconta il grande libro – Cervantes si trovava nell’Alcanà di
Toledo, quando arrivò un ragazzo a vendere scartafacci e carte vecchie a
un mercante ebreo. Cervantes aveva la mania di leggere tutti i pezzetti
di carta, e prese uno di quei fogli, scritto in caratteri arabi. Trovò
un morisco e lo pregò di tradurre.
Allora Cervantes si rese conto
che quegli scartafacci contenevano la storia di Don Chisciotte. Il
titolo diceva: Storie di Don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide
Hamete Benengeli. Siccome Cide Hamete era un arabo, non poteva che
essere un bugiardo, un truffatore, un falsario, visto che nella Spagna
di Filippo II gli arabi erano ritenuti autori e vittime di menzogne.
Così Cervantes, con le spalle coperte dalla complicità di Cide Hamete
Benengeli, si abbandonò alle più inverosimili fantasie e fandonie. Se
non che Cide, questo grande bugiardo, credeva nella verità: credeva e ci
giurava come poteva giurarci un cattolico. La sua figura è il segno
della radicale ambiguità del Don Chisciotte, dove tutto è, al tempo
stesso, falso e assolutamente vero, dove il vero, senza cessare di
essere vero, è assolutamente falso, e dove il falso, senza cessare di
essere falso, è assolutamente vero. Il libro di Cervantes è mobilissimo,
inquieto, pieno di vagabondaggi e di variazioni e tutti i libri moderni
– dal Tristram Shandy all’Uomo senza qualità – guardano ad esso come al
proprio modello, sebbene i loro autori sappiano benissimo che non
riusciranno mai ad imitarlo. Non sta mai fermo. È sempre da un’altra
parte.
«Felicissimi e venturosi furono i tempi», scrisse Cide
Hamete Benengeli, «in cui venne al mondo l’audacissimo Don Chisciotte
della Mancia, poiché per quella tanta onorevole decisione che egli
prese, di cercare e restituire al mondo l’ordine già perduto e quasi
morto della cavalleria errante, godiamo ora nella nostra mente che ha
tanto bisogno di lieti divertimenti, non solo della piacevolezza della
sua autentica storia, ma anche dei suoi racconti ed episodi che, in un
certo modo, non sono meno piacevoli e artificiosi e veri della storia».
Dunque
ciò che importa nella narrativa moderna è il divertimento: a patto che
il divertimento sia immaginato da uno scrittore malinconico che – diceva
Cervantes di se stesso – “tiene la mano sulla gota”. Come l’angelo di
Dürer, egli fece attraversare le terre di Spagna da un cavaliere non
meno malinconico di lui.