Repubblica 14.2.18
I criteri di assunzione
“Ignorante è meglio” L’azienda snobba i laureati
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Inapp: gli imprenditori poco istruiti sottovalutano i vantaggi della
formazione. Solo il 5,7% dei loro dipendenti ha fatto l’università
di Rosaria Amato
ROMA Ma a che servono i laureati in economia?
Per
gli affari bisogna avere fiuto, non aver studiato». Per tutta la durata
del suo stage Carlo M., fresco di laurea presa all’Università di
Napoli, si è sentito ripetere queste frasi dal suo datore di lavoro, un
piccolo imprenditore meccanico. Alla fine Carlo non è stato assunto, ha
poi trovato un posto in una media azienda dove le sue conoscenze sono
state sfruttate per migliorare la produzione. Anche così si spiega il
ritardo italiano: piccole imprese (sono oltre il 90%), con imprenditori
che non sanno usare i giovani laureati spesso perché essi stessi non
sono laureati.
Laureato chiama laureato, avviando un circolo
virtuoso che porta alla crescita dell’impresa, all’innovazione e anche a
retribuzioni superiori: secondo una ricerca dell’Inapp (l’ex Isfol),
dove al vertice ci sono proprietari non laureati la quota di dipendenti
laureati si ferma in media al 5,7%, mentre in quelle con imprenditori
laureati (il 20,5% secondo l’Inapp) arriva al 25,5%.
Anche
l’investimento in formazione cresce con il livello di istruzione del
datore di lavoro: gli imprenditori laureati spendono in media 148,83
euro a dipendente contro 101,85 dei non laureati.
Eppure la laurea
in Italia non sempre apre le porte. «Io non assumo laureati, non siete
affidabili», dichiara nel film “Smetto quando voglio” il proprietario di
un’officina. La laurea come costo, non come investimento per migliorare
la qualità del lavoro e del servizio.
«Come se non avere la
laurea fosse un titolo di merito - ragiona Francesco Pastore, professore
di economia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” – . È un
modo di pensare molto diffuso, che dipende dal fatto che la maggior
parte delle imprese italiane sono piccole o piccolissime, non svolgono
funzioni complesse e in effetti non hanno bisogno di manager con una
grande cultura industriale».
Spiega Giulia Marini, titolare di
un’erboristeria con tre dipendenti a Roma: «Io sono diplomata, e i
laureati nel mio settore hanno una vita difficile quanto la mia. Inoltre
un dipendente laureato deve essere inquadrato a un livello più alto, e
per me questo è un deterrente. Certo per fare l’erborista devi avere un
minimo di cognizione, ma c’è gente che lavora da decenni e lo fa senza
una laurea».
Una realtà sperimentata da un esercito di piccole
imprese in Italia. Le dimensioni però non sono tutto: la pugliese
Planetek ha solo una cinquantina di dipendenti ma, spiega l’ad e
fondatore Giovanni Sylos Labini, «siccome lavoriamo nei sistemi spaziali
abbiamo il 90% dei dipendenti laureati in varie discipline, ingegneri,
fisici, informatici, agronomi, biologi, io sono un fisico. Nel nostro
settore è scontato assumere laureati, ma sono convinto che anche la
manifattura e i settori tradizionali ne avrebbero bisogno». È un tema su
cui però gli imprenditori e le loro associazioni non si confrontano
volentieri, forse anche per non cadere nella polemica innescata
involontariamente alcune settimane fa dalla lettera del presidente degli
industriali di Cuneo, che consigliava di scegliere il corso di studi
sulla base delle esigenze del territorio.
«Il problema non è tanto
che si chiedono soprattutto lavoratori manuali, è che le aziende non
vogliono sprecarsi a fare formazione. – osserva Stefano Sacchi,
presidente dell’Inapp – Un imprenditore non deve aspettarsi che il
ragazzo uscito dall’università o dall’istituto tecnico, sia stato
formato per quel particolare processo produttivo.
Se le scuole
dovessero diventare così specialistiche, formerebbero lavoratori che
diventerebbero obsoleti in pochi anni. Mentre invece conta sempre di più
la capacità di adattamento, di trovare soluzioni ai problemi.
Anziché lamentarsi che gli ingegneri non sanno usare i saldatori, gli imprenditori dovrebbero insegnarglielo».