venerdì 23 febbraio 2018

La Stampa 23.2.18
Sorpresa in Spagna: le pitture rupestri più antiche al mondo sono opera dei Neanderthal
Le pitture rupestri più antiche del mondo si trovano in Spagna e sono opera dei Neanderthal, che le hanno decorate almeno 64 mila anni fa, ossia 20 mila anni prima dell’homo Sapiens.
Una scoperta che «riscrive il nostro punto di vista sulla preistoria antica, perché indicano che l’uomo è diventato “umano” prima di quanto immaginavamo» ha detto all’Ansa il geoarcheologo Diego Angelucci dell’Università di Trento, fra gli autori della ricerca pubblicata su Science Advances.
di Noemi Penna

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Corriere 23.2.18
La scoperta in Spagna
Dipinti Neanderthal. L’arte è 20 mila anni più vecchia di noi
di Elena Tebano


Raffigurano animali, figure geometriche e impronte di mani in ocra e nero e, con le conchiglie usate per fare i colori, rivoluzionano l’idea di umanità. «Provano — spiega il filosofo della scienza Telmo Pievani — che è esistito un altro modo di essere umani, ora scomparso». Le pitture rupestri ritrovate in Spagna ( sopra ) risalgono almeno a 64 mila anni fa, come dimostra uno studio pubblicato oggi su Science , e sono quindi state dipinte dai Neanderthal 20 mila anni prima che l'Homo sapiens , la nostra specie, arrivasse in Europa. Lo stesso indicano le conchiglie e gli oggetti ornamentali che un altro studio, sempre uscito ieri ma su Science Advances e di cui è coautore il geoarcheologo dell’Università di Trento Diego Angelucci, datano a 115 mila anni fa. «Significano che Neanderthal conosceva il comportamento simbolico — dice Angelucci —, aveva cioè la capacità di creare oggetti che non hanno una funzione pratica ma quella che gli viene attribuita per il loro significato. È l’origine della cultura, ciò che ci identifica come umani». Finora si pen-sava che l’espressione artistica fosse esclusiva di Homo Sapiens . « Homo Neanderthalensis è comparso in Europa quando la nostra specie compariva in Africa: aveva un cervello di dimensioni analoghe — aggiunge Giorgio Manzi, paleoantropologo dell’Università la Sapienza di Roma — ma differenze morfologiche e genetiche». Non per questo, sappiamo ora, era meno «umano» di noi.

Repubblica 23.2.18
Scoperte le pitture rupstri più antiche del mondo: si trovano in Spagna e sono opera dei Neanderthal, che le hanno decorate almeno 64.000 anni fa, ossia 20.000 anni prima dell’homo Spiens. La scoperta, che riscrive la preistoria èstata pubblicata su Science. Tra gli autori della ricerca anche archeologi italiani.

Sciences 22.2.18
Oldest dated cave art points to Neanderthal ymbolic behavior
Europe’s first cave artists were Neandertals, newly dated paintings show
In Spain's La Pasiega Cave, a set of lines (center) painted by Neandertals was embellished by later artists.
by Tim Appenzeller

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Corriere 23.2.18
Il rapporto dell’Istat
La conoscenza si realizza attraverso gli altri
di Alessandra Arachi


C’è un mix assai originale di numeri e di astrazioni nel Rapporto dell’Istat sulla Conoscenza presentato ieri. È il primo nel suo genere, ammesso che mescolare statistica e filosofia rappresenti un genere e non invece un percorso di ricerca originale e ardito.
Leggerlo, per capire. Ci sono trentotto quadri tematici nel Rapporto, servono per sviscerare le diverse dimensioni della conoscenza e si possono leggere in direzioni differenti. Quella statistica, ovviamente, e allora si trovano dentro parecchie percentuali che possono confortare e accompagnare questo percorso sulla conoscenza, lineare e inquadrato.
Ma se si sceglie invece la strada filosofica? Conosci te stesso, ci esortava Socrate dal tempio di Apollo a Delfi. Conosci attraverso gli altri, è l’ammonizione che ci arriva invece da questo Rapporto dell’Istat. Da Giorgio Alleva, presidente del nostro Istituto di statistica, per la precisione. Un ragionamento stringente, il suo. Ci fa notare come l’oggetto delle interazioni e delle relazioni tra le persone nei rapporti sociali ed economici sia, in ultima istanza, informazione. Ma non solo.
Questi flussi informativi che vengono scambiati giorno per giorno vanno accrescendo la conoscenza in un inevitabile processo di accumulazione. Un afflato, uno squarcio. Immediatamente richiuso davanti a un numero preoccupante. Una percentuale contenuta nel Rapporto che ci suona implacabile: in Italia per la ricerca e per lo sviluppo spendiamo l’1,3% del Pil, contro una media europea che va sopra il 2%. E purtroppo basta scorrere in maniera matematica le pagine del Rapporto dell’Istat per scoprire (o semplicemente confermare?) che siamo sempre il fanalino di coda in Europa quando si vanno a verificare i numeri sull’istruzione e sulla ricerca. Siamo sempre — come dicono all’Istat — quelli in basso a destra nei diagrammi.
Torniamo meglio alla strada filosofica, e arriviamo alle «somiglianze di famiglia» per dirla con Wittgenstein. Ecco quindi che possiamo assemblare nel nostro percorso la società dell’informazione con l’economia della conoscenza, la digitalizzazione, l’impresa 4.0, l'Internet delle cose. Tendono tutti a ricorrere insieme nei discorsi sugli sviluppi più recenti della società e dell’economica. E sull’informazione.
Giorgio Alleva — che questo percorso di ricerca all’Istat ha cominciato ben prima del Rapporto sulla conoscenza — specula sull’informazione. E si chiede: è nata con il linguaggio? O invece c’era prima ancora che ci fosse la vita umana sulla terra, trasmessa grazie a un organismo unicellulare?
La domanda, dal sapore ontologico, rimane in attesa, prima c’è un’altra questione da sciogliere, pratica e operativa. Alleva lo sa, la mette sul tavolo, e si chiede: di cosa parliamo quando parliamo di informazione?
Le due strade — quella statistica e filosofica — tornano ancora una volta a incontrarsi e a scontrarsi nel Rapporto sulla conoscenza. Ma questa volta ci pensa il Piccolo principe.
L’immortale creatura di Antoine de Saint-Exupery non avrebbe dubbi a rispondere alla domanda. Lui lascerebbe ai grandi — che li amano — tutti i numeri a tanti zeri su quanti exabyte o zettabyte di dati ci scambiamo ogni anno. Si interesserebbe dell’altra parte. Sarebbe invece curiosissimo di sapere tutto il resto: ma in mezzo a quei dati ci sono le foto di gattini o i sonetti di Shakespeare?

Il Mattino 23.2.18
Se la democrazia resta vittima dell’ignoranza
La democrazia costituzionale ha verosimilmente esaurito la propria spinta propulsiva e sta crollando in parte sotto il peso del proprio successo ma soprattutto per l’assalto dell’ignoranza. Il modello liberale della democrazia ha consentito all’occidente di battere il resto del mondo (per parafrasare il titolo di un bel libro di Niall Ferguson). Ma apparentemente la complessità e le dinamiche che si sono determinate su scala locale e globale non sono più governabili usando le tradizionali regole democratiche....
di Gilberto Corbellini

il testo nelle edicole e nella lettura andata in onda stamattina a Pagina Tre su Rai Tre disponibile qui

La Stampa 23.2.18
La Chiesa riabilita il prete condannato in tribunale per pedofilia
Il sacerdote era stato condannato a sette anni e 8 mesi di carcere per aver molestato una chierichetta della chiesa di San Vincenzo nel 2009 e ha finito di scontare la pena

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Repubblica 23.2.18
“Vaticano opaco sui preti pedofili” l’ultimo addio al pool anti abusi
Scontro sull’obbligatorietà della denuncia alle autorità civili, si dimette la psichiatra francese Bonnet
di Paolo Rodari,


CITTÀ DEL VATICANO Parla per la prima volta la psichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specialista in violenze sessuali contro i minori. E svela che, nel giugno scorso, ha preso in via riservata una decisione clamorosa: dopo le ex vittime Peter Saunders e Marie Collins, si è dimessa anche lei dalla Commissione pontificia per la tutela dei minori. Il motivo è semplice. A suo dire in Vaticano la lotta contro gli abusi sessuali non è considerata prioritaria. Insieme, ha trovato frustrante sottostare alle procedure e ai limiti di un gruppo, che, a conti fatti, non è riuscito a perseguire gli intenti dichiarati.
Il Papa nei giorni scorsi ha rinnovato la Commissione. I nomi delle ex vittime appartenenti sono stati questa volta tenuti secretati sia per tutelare i diretti interessati sia, probabilmente, per evitare che le difficoltà riscontrate in questi primi quattro anni di lavoro ( la Commissione venne istituita il 22 marzo del 2014) trovino con troppa facilità la ribalta dei media.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che ha portato Bonnet alle dimissioni, riguarda il dibattito sull’opportunità dell’obbligatorietà della denuncia dei sospettati presso le autorità civili e i loro tribunali. «Ho sostenuto — racconta — che i vescovi e i superiori degli ordini religiosi debbano segnalare i sospetti di abusi sessuali sui minori alle autorità civili, come già avviene negli Stati Uniti membri del clero inclusi » . Tuttavia, « quando a giugno mi sono resa conto che non avrei potuto convincere i due terzi dei commissari, ho scritto la mia lettera di dimissioni. Ho chiesto al cardinale Sean O’Malley ( che guida la Commissione, ndr) di trasmetterle al Papa che le ha accettate».
L’obbligo di denuncia è un tema dolente per la Chiesa. La Santa Sede chiede che si rispetti la legislazione vigente nei rispettivi Paesi. In Italia, ad esempio, l’obbligo non c’è, altrove sì. Alcuni esponenti delle gerarchie hanno dichiarato più volte che l’obbligo fosse doveroso. Così anche l’ex prefetto della Dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, a Repubblica: « Se un vescovo viene a sapere con certezza morale del verificarsi di alcuni casi di abuso su minori nella sua diocesi, deve dire alle vittime o ai genitori delle vittime di denunciare all’autorità competente quanto accaduto e, insieme, deve obbligare l’accusato ad auto denunciarsi », disse.
Ma ancora, evidentemente, non tutti sono convinti di ciò. Dice Bonnet: « Quando la legge obbliga le persone a denunciare, è più facile perseguire coloro che tacciono e che con il loro silenzio impediscono alle vittime di ricostruire e sperare nella giustizia».
Secondo Bonnet l’obbligo di denuncia completerebbe il Motu proprio del Papa “ Come una madre amorevole”. Il testo, infatti, solleva l’idea che su ogni vescovo o altra persona religiosa accusata di « negligenza » in merito agli abusi si possa aprire un’indagine presso la Dottrina della fede. E una denuncia anche presso le autorità civili, in sostanza, chiuderebbe il cerchio.
Altro punto dolente riguarda il segreto pontificio sui religiosi indagati di abusi presso la stessa Dottrina della fede. Fu anche a motivo dell’esistenza di questo segreto che Marie Collins decise di dimettersi. Spiega Bonnet: «Al momento le vittime non hanno accesso agli elementi della procedura». E ancora: « Quando inviano lettere, noi non rispondiamo. Collins ha trovato questo punto particolarmente insopportabile. La nostra Commissione aveva votato a maggioranza una proposta che chiedeva al Papa di autorizzare la rimozione di questo segreto » . Ma « il Papa non ha dato risposta. Anche se spero che su questo punto la nuova Commissione faccia progressi».
Un altro problema, spiega ancora Bonnet, è stato il fatto che il Papa « non è mai venuto alle nostre riunioni interne » . Dice: « Ci siamo incontrati solo due volte l’anno. È troppo poco».

Corriere 23.2.18
«Gli esorcismi sono triplicati»
L’erede di padre Amorth: ma i giovani disposti a farlo sono sempre di meno
Il corso di aggiornamento per preti. L’associazione riconosciuta dal Vaticanoconta circa 400 sacerdoti 240 dei quali in Itlia
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO Libera nos a malo , certo. Ma la prima cosa che ti spiegano è: dimenticate i film, le teste che ruotano su se stesse, Max von Sydow e Anthony Hopkins. La realtà è meno spettacolare, seppure dolente. A Palermo si è aperto un incontro di aggiornamento per gli esorcisti, riconosciuto dalla conferenza episcopale, alcuni azzardano una stima di «almeno cinquecentomila persone» che ogni anno chiedono aiuto, numero che sarebbe «triplicato» negli ultimi anni. E padre Cesare Truqui, allievo di padre Gabriele Amorth, lamenta la scarsità di vocazioni specifiche tra i sacerdoti, parlando al portale «Vatican News» della Santa Sede: «Molti cristiani non credono più all’esistenza del Maligno, vengono nominati pochi esorcisti e non ci sono più giovani preti disposti a imparare la dottrina e la pratica di liberazione delle anime».
Bisogna andarci cauti, chiaro, e gli esorcisti veri sono i primi a farlo. La stragrande maggioranza di chi si rivolge a loro patisce problemi spirituali o psichiatrici. Le «possessioni» da film sono rarissime anche per chi ci crede. Ma se i numeri variano, «non esistono dati attendibili», una cosa è certa, spiega al Corriere padre Paolo Carlin, frate cappuccino e portavoce dell’Associazione internazionale degli esorcisti: «Tutte le persone che arrivano da noi soffrono, sono tante e noi siamo pochi, mai in numero adeguato. I tempi di accompagnamento si allungano...».
L’associazione, riconosciuta dal Vaticano nel 2014, conta circa 400 sacerdoti esorcisti, 240 dei quali in Italia. Bisogna guardarsi dai truffatori, da chi chiede soldi e si definisce «liberatore, medium, guaritore», pure da quelli «che magari sono convinti di fare del bene» e fanno danni. Per prima cosa, un esorcista può essere solo un sacerdote, e non uno qualsiasi: «Deve avere una espressa licenza scritta del proprio vescovo, come prevede il canone 1172 del diritto canonico. Ed è il vescovo a scegliere chi ritiene adeguato, non si diventa esorcisti per desiderio personale», spiega padre Carlin. E poi c’è lo studio, il punto dolente: «Qualcosa si muove, come associazione ci stiamo lavorando, ma purtroppo manca ancora una formazione accademica su angeli e demoni. E stata eliminata dopo il Vaticano II, chissà perché». E così restano i corsi, la lettura dei libri, il tirocinio con esorcisti già esperti.
La materia è complessa. Papa Francesco invitava i confessori a un «attento discernimento». Le «azioni del Maligno», riassume padre Carlin, sono due: «Quella ordinaria: la tentazione. E quella straordinaria: le ossessioni, che colpiscono la mente; le vessazioni, sul corpo; le possessioni vere e proprie, ancora più rare, quando il Nemico prende possesso di una persona; e le infestazioni dei luoghi». I «criteri» per individuare una «presenza straordinaria» sono quattro, prosegue: «Un’avversione straordinaria, furibonda, al sacro e agli oggetti sacri; una forza fisica abnorme, al di là delle patologie psichiche; la conoscenza di lingue mai studiate, sia moderne sia morte come l’aramaico o il latino; e la conoscenza di cose occulte, che soltanto un’altra persona e Dio potrebbero sapere».
È qui che il sacerdote interviene con la preghiera di esorcismo, «un comando diretto al demonio perché se ne vada, nel nome di Gesù e della Chiesa». Attenzione, però, conclude padre Carlin: «L’azione più pericolosa del diavolo è quella che appare più innocua: la tentazione che porta al peccato e allontana da Dio. Più il Nemico è nascosto, più e pericoloso. Quando si manifesta è perché sta perdendo terreno».

Corriere 23.2.18
Facebook
La dubbia filantropia di Mark Zuckerberg
«Facebook, come gli altri giganti della Silicon Valley, è uno dei principali imputati per l’esplosione delle diseguaglianze: ricchezze enormi per pochissimi»
di Massimo Gaggi


Facebook, come abbiamo raccontato qualche settimana fa, ha brevettato un metodo per suddividere i suoi utenti tra ricchi, poveri e ceto medio senza disporre direttamente dei dati relativi a reddito e patrimonio di ciascuno, ma deducendo il tenore di vita da altre informazioni catturate dal suo sterminato database : da quelle sui consumi al livello di istruzione. Informazioni che servono a offrire alle aziende sue clienti una migliore profilazione dei destinatari di ogni messaggio pubblicitario che passa per la piattaforma di Zuckerberg che, così, diventa (insieme a quelle di Google) sempre più essenziale per gli inserzionisti.
Ma ora trapela che Facebook i suoi dati sul tenore di vita degli americani non li colleziona solo per venderli: li dà anche, e gratis, all’economista della Stanford University Raj Chetty per contribuire ai suoi studi sulle diseguaglianze economiche negli Stati Uniti. Gesto apprezzabile, visto che quello dell’enorme disparità nella distribuzione del reddito è il più grosso dei problemi sociali che affliggono il Paese più ricco del mondo. I dati di Facebook faranno fare grandi passi avanti al lavoro scientifico di Chetty.
L’unica perplessità riguarda le motivazioni di Mark Zuckerberg: il fondatore di Facebook cerca di operare come filantropo, oltre che come imprenditore, e deve ancora farsi perdonare la sottovalutazione del problema delle fake news transitate dalla sua rete sociale durante la campagna elettorale del 2016. Comprensibile che cerchi di recuperare terreno anche mostrandosi più sensibile sui temi sociali. Gli serve per preparare una discesa in politica in prima persona o un ruolo più attivo in questo campo? È solo un’illazione. Qualche preoccupazione in più nasce da un altro dato: Facebook, come gli altri giganti della Silicon Valley, è uno dei principali imputati per l’esplosione delle diseguaglianze: ricchezze enormi per pochissimi, pochi posti di lavori creati a fronte di un fatturato gigantesco. La fotografia dell’estate scorsa era quella di un’azienda che valeva in Borsa 520 miliardi di dollari, poco meno di General Electric, Ibm, Ford e AT&T, messi insieme. Ma aveva solo 21 mila dipendenti a fronte del milione e 100 mila stipendi pagati da questi giganti. L’immagine della volpe messa a guardia del pollaio sa di antico nell’era delle tecnologie digitali. Ma forse è meglio non accantonarla del tutto .

il manifesto 23.2.18
«Fermare i fascisti con la cultura. E quando serve con la polizia»
La presidente dell'Anpi. Carla Nespolo e la manifestazione di sabato 24 a Roma. «Preservare l'unità antifascista, anche dopo le elezioni. Aver dovuto ritirare l’adesione al corteo di Macerata è stata una ferita, quel giorno è venuto fuori il cuore antifascista di questo paese»
Carla Nespolo con Susanna Camusso, Francesca Chiavacci e Luigi Ciotti
di Andrea Fabozzi


Corteo ecumenico? «Niente affatto», risponde Carla Nespolo, presidente (la prima donna e la prima non partigiana) dell’Anpi. «Sabato a Roma in testa ci saranno i partigiani, i deportati e i perseguitati politici. E poi le 23 organizzazioni che hanno sottoscritto il documento Mai più fascismo che chiede una cosa precisa: lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste. Per la verità avevamo chiesto anche che CasaPound e Forza Nuova non fossero ammesse alle elezioni, l’ho riferito proprio io a Minniti. Invano».
Pensa che la risposta repressiva sia la più efficace?
Non è la più efficace, contro il fascismo serve innanzitutto la conoscenza. Ci vuole un ruolo più incisivo della scuola, dove molto spesso la storia della seconda metà del Novecento, della Resistenza e dell’antifascismo è negletta. Anche per questo l’Anpi è impegnata a portare nelle classi la storia e la memoria. Detto questo, quando hai i fascisti che accoltellano per le strade serve innanzitutto che la polizia li arresti.
Fanno paura?
Vorrei essere molto chiara, io non ho paura che il fascismo possa tornare a opera di questi piccoli gruppi di sconsiderati che rappresentano un’esigua minoranza. Temo molto di più l’indifferenza generale.
Il ministro dell’interno ha spiegato di aver fermato gli sbarchi di immigrati per impedire gli episodi di violenza razzista.
Tesi assolutamente non condivisibile. Bisogna fermare le guerre invece, altrimenti la gente non ha alternative a scappare dalle bombe e dalla fame. E bisogna accogliere e integrare. Si potrebbe fare a livello europeo, se l’Europa mettesse al centro la dignità delle persone e non l’economia.
La manifestazione di domani è una riparazione per la mancata adesione ufficiale di Anpi, Arci, Cgil e Libera a quella di Macerata del 10 febbraio?
Non è una riparazione, è una manifestazione di ben altra portata nazionale. Comunque non mi nascondo, aver dovuto ritirare la nostra adesione è stata una ferita.
La manifestazione c’è stata e non è stata piccola.
Sì, ma la città è rimasta sostanzialmente estranea. Si può capire, dal momento che la paura era ancora forte, paura che il sindaco ha molto mal governato. In ogni caso quella manifestazione ha dimostrato, ancora una volta, che in questo paese c’è un cuore antifascista spontaneo con il quale noi dell’Anpi vogliamo metterci in connessione. Spero che molti di quelli che sono stati a Macerata il 10 febbraio siano anche domani a Roma.
Chi non ci sarà magari teme un antifascismo da campagna elettorale.
Mi rendo conto che siamo a una settimana dal voto, ma non potevamo spostare ancora la data. In ogni caso il nostro è un antifascismo di lunga lena e saremo fermi e incalzanti con tutti. Dopo il 4 marzo c’è il 5 e i rischi di involuzione democratica nel nostro paese non spariranno. Così come temo non spariranno i distributori a piene mani di odio razzista.
Il Pd che metteva dubbio la rappresentatività dell’Anpi, quando eravate per il No al referendum costituzionale, adesso però vi esalta.
Non so se il Pd esalti l’Anpi e questa polemica mi interessa zero.
Mettiamola così: le fa piacere che abbiano cambiato idea?
Non mi fa piacere e non mi dispiace. Siamo in un’altra fase. Sono stata ben contenta che abbia vinto il No, anzi sono stata parte attiva perché l’Anpi prendesse quella posizione. E oggi sono contenta di conservare il baluardo sicuro della nostra Costituzione nata dalla Resistenza. Con quel voto il popolo italiano ha dimostrato di tenere alla sua Carta, pur nella disillusione politica di questi tempi. Oggi però il tema non è questo. Il tema è battere il fascismo rimontante.
Con tutti?
Con tutte le forze onestamente antifasciste, l’esigenza di unità è più alta di qualsiasi polemica tra partiti e organizzazioni. Le dirò che se venisse anche qualcuno di Forza Italia convintamente antifascista io sarei contenta. Noi porteremo le nostre richieste e la voce del popolo antifascista sul tavolo di chiunque governerà. Continuiamo a raccogliere le firme al nostro appello e intendiamo celebrare degnamente il 70esimo della Costituzione con un’altra grande manifestazione, il 2 giugno.

il manifesto 23.2.18
Sfileranno Renzi, Bersani e Boldrini. Ma il leader Pd teme i fischi
di Daniela Preziosi


Chi se lo sarebbe mai aspettato che Renzi sfilasse a fianco, o quasi, di Bersani a una settimana dal voto e cioè nel punto di massimo attrito della campagna elettorale. Eppure succederà così sabato a Roma al corteo antifascista che partirà alle 13 e 30 da piazza della Repubblica in direzione piazza del Popolo per il discorso finale della presidente dell’Anpi Carla Nespolo.
Alla testa, lo striscione «Mai più fascismi, mai più razzismi», titolo dell’appello con cui Anpi, Arci, Cgil e altre venti fra associazioni e partiti chiedono lo scioglimento delle organizzazioni ispirate al fascismo e lanciano «un allarme democratico» per i crescenti fenomeni di xenofobia. Subito dopo la parata dei gonfaloni delle città: annunciati moltissimi. È atteso, ma stranamente non ancora confermato, anche quello di Macerata, la città dell’uccisione di Pamela Mastropietro e della tentata strage razzista di Luca Traini. Lì in principio doveva svolgersi la manifestazione, prima che il sindaco chiedesse agli organizzatori di spostarla dalla città.
Poi sfileranno le associazioni della Resistenza (Anpi, Anppia, Aned, Fivl, Fiap), e i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil. Chiudono il corteo, che cresce ogni ora nonostante l’annunciata morsa del freddo, le associazioni promotrici: fra le altre, Libera, Arci, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Istituto Cervi, Uisp, Ars, Altra Europa.
In mezzo i quattro partiti che hanno firmato l’appello: Pd, Leu, Prc e Pci (quest’ultimo ex Pdci-Pcdi). Pesarsi e farsi riconoscere sarà un’impresa: saranno senza bandiere. Così avevano fatto a Macerata i partiti che avevano sfilato nonostante il veto del sindaco (non il Pd), così dovrebbe andare anche questa volta, anche perché in campagna elettorale la legge proibisce l’utilizzo di simboli elettorali in manifestazioni itineranti.
Per la prima volta il Pd sfilerà a fianco dei suoi scissionisti, diviso da un apposito spezzone delle Acli, cattolici laici sempre utili a mettere pace in caso di necessità. Da una parte i presidenti Laura Boldrini e Piero Grasso, Bersani (D’Alema sabato è dato in Puglia), i tre segretari Speranza, Fratoianni e Civati. Dall’altra Renzi con i dirigenti Pd e mezzo governo. Al Nazareno circola del nervosismo: si temono fischi all’indirizzo del segretario. Al suo fianco potrebbe esserci persino il presidente del consiglio Gentiloni. A Palazzo Chigi la decisione non è ancora presa. Sarebbe una scelta simbolica forte, d’altro canto comporterebbe una presenza massiccia di uomini della sicurezza. Anche perché Roma sarà blindata: quel stesso giorno nella capitale si svolgono altre tre corteo.

il manifesto 23.2.18
L’ansia di controllo sul corpo estraneo
«I nuovi volti del fascismo» dello storico Enzo Traverso
Il postfascismo non ha alcun progetto di società futura, nessun inedito sistema sociale da proporre. Liberato dalla funzione anticomunista, si permette posture antiliberiste, antiborghesi e filo operaie
di Marco Bascetta


Fascismo e antifascismo sono tornati prepotentemente in un dibattito pubblico infestato di equivoci, di retorica e di sfacciate strumentalizzazioni dei fatti di cronaca. Destra e sinistra si accusano reciprocamente di prendere di mira un bersaglio da tempo defunto, il fascismo o il comunismo (il cui spettro comincia però ad andare davvero in soffitta) con lo scopo di negare ogni legittimità all’avversario politico. E, in effetti, se consideriamo uno dei fattori determinanti della diffusione dei fascismi negli anni Venti e Trenta del Novecento la contrapposizione alla rivoluzione bolscevica e ai movimenti che vi si ispiravano, la partita, in questo inizio del XXI secolo, appare chiusa da un pezzo.
FASCISMO E COMUNISMO finirebbero, insomma, per equivalere a categorie storico-politiche come giacobinismo o sanfedismo che, sottratte al loro contesto cronologico, si limiterebbero a designare un atteggiamento mentale, un lontano sfondo ideologico, un modo di percepire la realtà circostante e di reagire alle contraddizioni che la attraversano. «La parola ‘fascismo’, a ben riflettere – scrive lo storico Enzo Traverso – si rivela più come un ostacolo che come un elemento chiarificatore della discussione» (I nuovi volti del fascismo, ombre corte, pp.140. euro 13). Come anche il termine populismo si applica infatti a un gran numero di fenomeni assai eterogenei, dalle destre radicali europee fino al cosiddetto islamo-fascismo di Daesh, definizione più emotiva che utile a inquadrare il fenomeno.
Per sottrarsi a questa confusione tra vecchio e nuovo Traverso sceglie di ricorrere al termine «postfascismo» con il quale si intende designare una discendenza dal fascismo classico che se ne è tuttavia emancipata introducendo elementi estranei a quella tradizione, senza ancora, tuttavia, cristallizzarsi in una forma politica ben definita. L’esempio cui fa più estesamente ricorso è quello del Front National che Marine Le Pen ha appunto emancipato dal puro fascismo paterno per traghettarlo verso una nuova identità politica della destra ancora in costruzione. Un analogo processo di emancipazione dalla «classicità» dell’anticapitalismo comunista e socialista lo si può del resto osservare anche a sinistra in movimenti sociali (Occupy Wall Street, Indignados, Nuit debout) e formazioni politiche (Podemos, Syriza, Linke).
Qui finisce però ogni analogia, a dispetto del tentativo dell’establishment liberista di omogenizzare tutto nel calderone del «populismo». Questi accostamenti sono favoriti dal fatto che un postfascismo liberato dalla funzione anticomunista del suo progenitore, può ben permettersi posture antiliberiste, antiborghesi e filo operaie, nonché proporsi come restauratore di un’autentica democrazia garantita dalla sovranità nazionale contro le élites transnazionali. La stessa miscela che alimenta le correnti politiche cosiddette «rosso-brune». La distanza dai fascismi del Novecento non può non accompagnarsi, tuttavia, con una qualche operazione di revisionismo storico, magari non estrema alla David Irving, ma comunque dedita a certificare errori e meriti, a spacchettare l’esperienza fascista onde poterne reimpiegare questo o quell’aspetto. Non sono rare le esternazioni di politici della destra che si propongono di salvare il fascismo dai suoi errori, occultando, per esempio, la coerenza tra l’entrata in guerra e la forma mentis stessa del fascismo.
IL FULCRO DELL’IDEOLOGIA postfascista (condiviso però in forme più urbane e moderate anche da formazioni di centro-sinistra) è il nazionalismo riproposto nella forma dell’identità nazionale. «In fondo – avverte Traverso – ciò che interessa la destra quando parla di identità, è in realtà l’identificazione, cioè le politiche di controllo sociale adottate fin dal XIX secolo in Europa: controllo dei flussi di popolazione e delle migrazioni interne, schedatura degli stranieri, dei criminali, dei sovversivi». Temi securitari in buona parte condivisi dalle sinistre di governo europee, che virano immancabilmente verso soluzioni autoritarie. Basti pensare alle misure volute dal presidente socialista Hollande in Francia.
QUEST’ANSIA DI CONTROLLO è sostanzialmente orientata a un disegno di conservazione. Il postfascismo non ha infatti, a differenza del suo antenato novecentesco, alcun progetto di società futura, nessun inedito sistema sociale da proporre. Il suo discorso è giocato tutto sulla difensiva, sulla salvaguardia di un già noto, di una tradizione che si vuole insidiata dalla globalizzazione, dai flussi migratori, dalle influenze culturali «aliene».
NEL SOLCO del ressentiment nietzscheano possiede una natura strettamente reattiva. Che trova terreno fertile nella paura e nell’incertezza seminate dalla crisi economica, nel vuoto politico prodotto dalla controrivoluzione neoliberista. Questa assenza di progetto consente al postfascismo di agire nella maniera più pragmatica e insidiosa discostandosi anche, quando serve, dalla stessa ideologia che professa con postmoderna spregiudicatezza. Di adattare alle circostanze date questo o quel segmento opportunamente ribattezzato dello strumentario politico fascista. La composizione sociale a cui si rivolge non è più quella omogenea e massificata del secolo scorso, ma quella frammentata, instabile ed esposta alla contingenza del mondo postfordista.
L’antifascismo, che per definizione ha anch’esso un carattere difensivo, vuoi nella forma del patriottismo costituzionale, vuoi nella salvaguardia di un sistema di valori ripetutamente proclamati, ha dunque il problema di imparare ad agire in questa stessa dimensione del post. Disporsi a combattere un preteso ritorno del fascismo più o meno classico da una posizione istituzionale e legalitaria costituisce una scelta rituale, inefficace, autoassolutoria.
Non basta il ricorso alla memoria e la pur essenziale difesa della verità storica. Senza entrare nello spazio politico del disagio sociale in cui il postfascismo e la destra estrema crescono e si sviluppano, reinventando un’ideologia autoritaria adattata alla contemporaneità, l’antifascismo resterà impastoiato tra proibizionismo ideologico e questioni di ordine pubblico.
Ma quello che si rivela ancora più pericoloso è quando le politiche governative entrano in questo spazio politico interpretandolo, come nel caso dell’immigrazione, in forme analoghe a quelle utilizzate dalla destra, imputando cioè alla eccessiva presenza del suo bersaglio, il discriminato, la responsabilità del razzismo imperante. Così come – Traverso lo spiega chiaramente – il patriottismo repubblicano in Francia è del tutto impotente a fronteggiare il Front national che lo abita comodamente, l’antifascismo rituale in Italia non è in grado di contrastare una destra xenofoba sempre più arrogante e aggressiva.
Al postfascismo si affianca infine una galassia neofascista che rivendica apertamente, talvolta più larvatamente per sfuggire alla legislazione antifascista (in Italia leggi Scelba e Mancino), una linea ereditaria che discende dal fascismo storico. Lo scioglimento di queste formazioni non ha mai impedito la loro rinascita con altre sigle e denominazioni e ha invece innescato le crociate delle destre che, sotto la bandiera della legalità, invocano ricorrentemente la messa al bando di movimenti e gruppi antagonisti che agiscono nel sociale fuori dalla sfera dei partiti.
LA PRESENZA SEMPRE più incalzante e rumorosa della destra radicale tende inoltre a precipitare queste realtà di movimento in una intensa militanza antifascista che ne assorbe gran parte dell’energia, con quegli effetti di logoramento e impoverimento che abbiamo già avuto modo di osservare già negli anni Settanta. Come già allora la galassia neofascista non costituisce tanto una minaccia diretta quanto un fattore di condizionamento che attraverso il filtro postfascista si spinge fino all’insieme del quadro politico e in alcuni paesi, come l’Ungheria, alla stessa attività di governo.
Tuttavia, una minaccia immediata e concreta il neofascismo la esercita davvero: sulla vita quotidiana dei migranti. In numerosi paesi europei aggressioni e omicidi sono all’ordine del giorno, così come il tentativo di circoscrivere queste azioni violente alla pura e semplice sfera della criminalità o della psicopatia. Negando così l’evidenza di una fitta circolazione di temi e atteggiamenti tra queste frange estreme e il postfascismo mainstream. Nonché il vero punto di congiunzione tra tutti i fascismi vecchi e nuovi: la discriminazione e la persecuzione dell’altro, l’espulsione del corpo estraneo, lo straniero come fenomeno perturbante e un’idea di purezza che, all’occasione, trasloca dalla razza alla «identità culturale».

Corriere 23.3.18
Marcello Flores direttore scientifico degli Istituti per la storia della Resistenza
Il docente contesta Pansa
«Per riscriverla servono prove». «Il golpe comunista, altra tesi infondata»
di Massimo Rebotti


Milano Lo storico Marcello Flores è direttore scientifico degli Istituti per la storia della Resistenza. Quella storia che secondo Giampaolo Pansa, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere , andrebbe «riscritta» perché «falsa». Flores ha letto immediatamente l’ultimo libro di Pansa, Uccidete il comandante bianco , sulla morte di Aldo Gastaldi, l’unico comandante partigiano non comunista in Liguria.
Cosa ne pensa?
«È un libro disonesto dal punto di vista storico, non vengono indicate le fonti. Pansa stesso scrive che “molti passaggi sono ideati da me”. Questo lo rende più simile a un romanzo».
L’autore ha accusato voi storici di avere mentito. Si è sentito punto sul vivo?
«Come si può dire a un’intera categoria di persone che mente? È come se io dicessi che tutti i giornalisti mentono. Pansa è stato un grande giornalista, anni fa lo avevo anche invitato a confrontarci pubblicamente. Non volle».
Lo rifarebbe?
«Se si parla di storia, sono pronto. In questo libro, per esempio, scrive che il comandante “venne assassinato da un complotto politico”. Poi spiega di non avere elementi, che si tratta di una sua convinzione, che “c’erano delle voci”. Non si fa storia così. Io ho studiato i gulag, le vittime vere del comunismo. Le “voci” sono ipotesi di lavoro, poi si cercano i riscontri».
Ma vittime «vere» i comunisti italiani nel Dopoguerra ne hanno fatte.
«Certo. Pansa parla di 800 morti a Genova dopo la Liberazione. Finora risulta, anche da fonti dei fascisti di allora, che furono 2-300. Un numero enorme, intendiamoci, ma perché dire 800? Enfatizzare è da narratori, non da storici».
Pansa pone anche un tema generale: la storia della Resistenza va riscritta.
«In generale riscrivere la storia è importante per ogni generazione. Ma il suo obiettivo polemico non esiste più da decenni. Ha in mente la narrazione che facevano i comunisti negli anni 50-60, ma sono ormai 40 anni che la storia della Resistenza viene “riscritta”».
Sostiene che «il mito» non ci sia più?
«Mi sono laureato nel 1970 proprio in polemica con quella narrazione comunista. Ma l’idea da cui muove Pansa, che i comunisti nel Dopoguerra fossero pronti a un colpo di Stato, è fondata sul nulla dal punto di vista storiografico».
Sul nulla?
«Sì. Avrebbero dovuto disobbedire a Stalin che disse chiaramente al Pci — ci sono fior di studi in merito — di non fare come in Grecia. Anche nelle reazioni dopo l’attentato a Togliatti non c’era niente di organizzato. Qualche comunista, certo, auspicava una presa del potere violenta, ma nessuno dei dirigenti pensava che si dovesse o si potesse fare».
Difende la storia per come è stata «scritta» finora?
«Questa idea che la Resistenza non è mai come ce la raccontano, che è stata una guerra tra italiani, buoni e cattivi in entrambi gli schieramenti, con la maggioranza interessata solo a farsi gli affari suoi, ecco, questa idea di Pansa è profondamente pessimista sulla coscienza civile degli italiani: una sorta di disfattismo morale. Il contrario di ciò che la Resistenza fu».

Repubblica 23.2.18
Salvini e la piazza “ sovranista” per sfidare l’antifascismo
Il segretario del Carroccio domani a Milano, senza Forza Italia e Fratelli d’Italia per replicare a distanza alla manifestazione nazionale organizzata a Roma dall’Anpi
di Paolo Berizzi


Milano Le parole d’ordine sono quelle del fascioleghismo che ha riplasmato la Lega negli ultimi quattro anni: a partire da quel “prima gli italiani”, ormai lo slogan mantra del Carroccio era- Salvini e del quale però non a caso - CasaPound rivendica il copyright e infatti hanno registrato il marchio. « Per farla finita con i sovranisti della domenica » , tuonò Simone di Stefano. Niente domenica: la Lega sovranista scenderà in piazza di sabato, domani. Proverà a riempire quella piazza Duomo dove solo quattro anni fa manifestava proprio con i “fascisti del terzo millennio” al grido di « No invasione » . Poi l’asse si incrinò, fino a spezzarsi. In politica si guarda avanti e così, lanciata l’opa sul terreno del nazionalismo, difesa dei confini, lotta ad alzo zero contro l’immigrazione, per spingere Matteo Salvini verso palazzo Chigi la Lega si riprende piazza Duomo. L’adunata si intitola “ Ora o mai più”. Il riferimento è ovviamente alla chance di governare dopo aver vinto le elezioni del 4 marzo. «Non parliamo più di secessione nel 2018. Puntiamo sulla difesa dell’Italia e gli italiani » , ha ripetuto il capo leghista nelle ultime ore. Il significato dell’evento, nei piani dello stato maggiore della Lega, è doppio. Il primo è “esterno”: una sfida al Pd che domani ha convocato a Roma le sue truppe alla manifestazione antifascista e antirazzista lanciata da Anpi e altre 22 sigle dopo i fatti di Macerata, dove a sparare sugli immigrati africani è stato il nazi leghista Luca Traìni. Il secondo è “interno”: interno alla coalizione di centrodestra. Salvini userà la piazza per dare un segnale di forza agli alleati, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. «Il candidato premier? Decide chi prende più voti», ha ribadito negli ultimi mesi il Capitano della Lega parlando già da presidente del consiglio in pectore. «Salvini farà il ministro», ha replicato Berlusconi che sventolando sondaggi interni ha aggiunto: « Forza Italia ha più voti, siamo 4 punti sopra la Lega » . Che Salvini non intenda fare ne il ministro ne accettare qualsiasi altra proposta al ribasso lo dirà forte e chiaro domani dal palco. Rilanciando il guanto del duello anche ai compagni di cordata. « Sarà una grande manifestazione aperta a tutti » , ha twitatto il segretario federale, come a voler lasciare le porte aperte. Ma sono in pochi a scommettere che piazza Duomo sarà invasa anche da militanti di Forza Nuova e Fratelli d’Italia. È proprio sulle piazze che, in questi giorni, nel centrodestra sembrano allargarsi delle frizioni. Incassati i forfait degli alleati al recente evento anti inciucio organizzato a Roma, Giorgia Meloni ha rilanciato la proposta di « una manifestazione unitaria del centrodestra per chiudere insieme il 1 marzo la campagna elettorale: farla sarebbe un atto di chiarezza e di forza per la coalizione. Ma non mi sembra che Berlusconi e Salvini vogliano farla » . Il primo marzo è anche il giorno nel quale Salvini ha prenotato il teatro Brancaccio per una “uscita” romana.
Ma torniamo a Piazza Duomo di domani. Nelle locandine della manifestazione c’è un Salvini sorridente, aria rassicurante, giacca blu Trump come le scritte “Salvini premier” e “Prima gli italiani”. “Sabato, è ora”. “ Buongiorno amici. Pronti per sabato? Posso contare su di voi? Ora o mai più: #primagliitaliani”. L’altro slogan è “ Solo buon senso”. Chissà se ne faranno tesoro i Giovani padani che a Busto Arsizio un mese fa hanno bruciato il fantoccio di Laura Boldrini. Alla stessa ora (15), mentre la Lega tirerà la volata al suo capo verso la partita del 4 marzo, a poche centinaia di metri da piazza del Duomo, in piazza Beltrami, davanti al Castello Sforzesco, gli ex alleati di CasaPound Italia si daranno appuntamento per il comizio di Simone Di Stefano e della candidata alla presidenza della Regione Lombardia, Angela De Rosa. La sfida della sovranità.

il manifesto 23.2.18
Carceri, la riforma nella tomba. Gentiloni congela Orlando
Governo. Il Consiglio dei ministri affossa il primo decreto attuativo ad un passo dal via libera. Avviato l’iter di altri tre decreti da concludersi dopo il voto. Il Garante Palma: «Deluso»
di Eleonora Martini


ROMA Tutto rinviato a dopo le elezioni. Il primo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Andrea Orlando, quello sulle misure alternative – il più importante dei decreti legislativi e più incisivo nel contrastare il sovraffollamento carcerario e la recidiva dei reati – è finito nel calderone delle promesse mancate del governo bipartisan.
Mancavano solo le controdeduzioni alle obiezioni sollevate dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato, l’ultimo passo prima dell’approvazione finale prevista per il 2 marzo, giusto sul filo di lana dopo tante promesse, e invece ieri il Consiglio dei ministri non se l’è sentita e ha rimandato la gatta da pelare alla prossima riunione prevista per il 7 marzo.
In compenso – si fa per dire – ha messo in moto l’iter di altri tre decreti attuativi della riforma (ordinamento minorile, giustizia riparativa e lavoro) che fino ad ora non avevano visto la luce, malgrado un processo di studio durato due anni da parte di oltre 200 esperti nominati dal Guardasigilli al fine di cambiare volto ad un sistema concepito oltre 40 anni fa e che è costato all’Italia la condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Non a caso il ministro Orlando ieri non si è fatto vedere in conferenza stampa, malgrado fosse presente a Palazzo Chigi mentre il premier Paolo Gentiloni dava brevemente conto (e senza spazio per le domande) del «lavoro in progress».
Il presidente del Consiglio, evidentemente ottimista sull’esito del voto, ha spiegato che l’iter dei decreti proseguirà «nelle prossime settimane e mesi» anche «tenendo conto delle indicazioni del Parlamento».
Ed è questo il nodo: ufficialmente il primo dlgs è stato messo in stand by perché occorrerebbe più tempo per ricalibrare le correzioni apportate all’articolo 4 bis (selezione dei reati esclusi dai benefici) che proprio non sono piaciute alla commissione Giustizia del Senato, presieduta dal centrista D’Ascola. Anche se in via Arenula assicurano che la riforma non sarà svuotata come vorrebbe Ncd.
Eppure l’ululato delle destre, Lega capofila, ma anche del M5S e di alcuni sindacati di polizia penitenziaria, come il Sappe che ieri esultava per lo stop a quello che in certi ambienti viene definito come «l’ennesimo svuota carceri», evidentemente fa molta paura.
Tanto da indurre il governo a chiarire che l’obiettivo non è tanto quello di riportare la pena nel solco del dettato costituzionale e delle norme internazionali (privazione della libertà, non della dignità, come spiega bene Emma Bonino), ma quello di «ridurre notevolmente il tasso delle recidive».
Lo ha precisato ieri Gentiloni: «Se vogliamo rintracciare un filone che unisce i diversi provvedimenti il filone è esattamente questo: abbiamo un rischio che questo sistema se non ha delle correzioni utili, in parte adottate oggi, in parte lo si farà nelle prossime settimane e mesi, non sia sufficientemente efficace nel ridurre la recidiva. Perché i comportamenti criminali continuano a generare comportamenti criminali, invece di favorire il reinserimento nella nostra società».
«Non è un rischio, è una certezza», ribatte la radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 22 gennaio, insieme a migliaia di detenuti e centinaia di garanti regionali, magistrati, avvocati e cittadini, per ottenere il varo definitivo della riforma prima delle elezioni ed evitare così di buttare a mare soldi, energie, tempo e giustizia.
«Arrogantemente – insiste la leader del Prntt – ritiene di conoscere già i risultati elettorali, probabilmente pensa che gli esiti di una legge elettorale incostituzionale saranno quelli da lui e da Napolitano previsti».
«Parecchio deluso» si è detto anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: «Ci si aspettava la capacità di approvare il provvedimento, che è stato più volte esaminato dal governo e in sede parlamentare. Ci aspettavamo una capacità di risposta che è mancata. Mi auguro che nel prossimo Consiglio dei ministri non vengano sollevate questioni di opportunità politica e che prevalga invece la volontà di non lasciare al palo la riforma».

Il Fatto 23.2.18
Carceri, la riforma è buona. Ma non c’è
di Giovanni Maria Flick


Nel 2015 gli Stati generali sul carcere e una successiva commissione ministeriale hanno avviato la riforma dell’ordinamento penitenziario, giungendo alla legge delega e al decreto legislativo oggi in fibrillazione con tre anni di lavori. A questi hanno partecipato numerosi magistrati, operatori, avvocati, studiosi, esponenti della società civile di diversa estrazione, esperti nei problemi della realtà drammatica del carcere, con un dibattito trasparente e pubblico. Non ho partecipato a quei lavori, perciò non ho un conflitto di interessi per difendere la riforma.
Ho l’esperienza istituzionale di ministro della giustizia e di giudice costituzionale, ormai molto tempo addietro, e quella culturale di cittadino e di studioso, per porre a confronto l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) con la realtà e la quotidianità del carcere. È un confronto impietoso: è sintetizzato nella condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani, per le condizioni di sovraffollamento; è denunziato, fra i tanti, dalle voci del Pontefice e del Presidente della Repubblica; è espresso dai 52 suicidi (uno alla settimana!) dello scorso anno in carcere. È un confronto emblematico del fatto che in molte parti la nostra Costituzione è attuale per i valori che propone, ma non è attuata per il modo con cui sono tradotti nella realtà. Contro la riforma è stata evocata la convinzione di alcuni magistrati (non molti) sul rischio che l’eccesso di garanzie consenta ai mafiosi di approfittarne per uscire dal regime del 41 bis (il carcere duro per evitare contatti con l’esterno). Aggiungerei a quel timore la perplessità di quei magistrati sulla eliminazione di alcuni automatismi, con i quali la legge vincola l’intervento del giudice di sorveglianza nel trattamento penitenziario; nonché la loro perplessità sulla parificazione fra i padri mafiosi e le madri decedute o impossibilitate, per provvedere ai figli minori di dieci anni o in condizioni di handicap. La maggioranza dei magistrati (fra cui giudici di sorveglianza) – alcuni dei quali hanno partecipato ai lavori – contesta invece quei rischi, perché la legge delega esclude esplicitamente dalle previsioni della riforma i detenuti condannati per criminalità organizzata o per terrorismo. L’art. 41 bis non può diventare un carcere “ancora più duro” – condannato dalla Corte Costituzionale – al fine di spingere i detenuti esclusi dai benefici alla collaborazione per ottenerli. Gli automatismi legislativi possono essere e spesso sono in contrasto con il diritto del detenuto al trattamento rieducativo (anche e soprattutto attraverso le c.d. misure alternative); e sono in contrasto con il princìpio della riserva di giurisdizione, per il rispetto dei “residui” di libertà compatibili con la reclusione. Infine la parità fra madre e padre è espressione di un princìpio fondamentale di eguaglianza, affermato dalla Corte Costituzionale in questo caso. A conferma, alcuni fra i magistrati più decisi nell’opposizione alla riforma hanno ammesso tardivamente che l’uscita in massa dei boss forse non vi sarebbe stata; e che la riforma avrebbe se mai provocato molti ricorsi e contenziosi (che sono un diritto dei detenuti, per difendere quei “residui”). Essa è stata giudicata positivamente dal Consiglio Superiore della Magistratura, dalla magistratura nel suo insieme, dal Garante dei detenuti e da chi conosce un poco la realtà del carcere e la sua differenza dagli alberghi a 4 o 5 stelle cui viene troppo spesso paragonato da chi ignora quella realtà. Il Presidente del Consiglio si era impegnato a portare a compimento il primo passo della riforma: il decreto legislativo ritornato ieri al Consiglio dei Ministri dopo i rilievi e i suggerimenti non vincolanti proposti dalla Camera e in maniera molto più radicale dal Senato. Tuttavia l’approvazione in articulo mortis non v’è stata. V’è stato un rinvio al prossimo Consiglio dei ministri – sembra il 7 marzo prossimo, dopo le elezioni – per decidere se e in quale misura accogliere le raccomandazioni del Parlamento. In cambio (si fa per dire) sono stati presentati al Consiglio tre schemi di decreti (sui minori, sul lavoro in carcere, sulla giustizia riparatoria) importanti nel contenuto, ma appena all’inizio della loro “lunga marcia”. In questa situazione temo di dover in gran parte condividere il giudizio formulato da Antonio Padellaro (Senza Rete, Fatto di domenica 18 febbraio scorso): il rischio di “salvarsi la coscienza con una riforma studiata male per poi scegliere di lasciare tutto immutato”, attraverso i ritardi nella presentazione della riforma. Sono ritardi certamente inaccettabili, ma non imputabili ad essa. Dissento da Padellaro solo in un punto: la riforma non è stata studiata male, per il modo e il tempo con cui è stata pensata, elaborata, discussa ed approvata; è stata presentata male. E mi auguro che tutte le riforme vengano studiate con l’ampiezza e la profondità che hanno caratterizzato i lavori di quella del carcere.

il manifesto 23.2.18
Carceri, ha vinto la paura della destra
di Patrizio Gonnella


La riforma dell’ordinamento penitenziario non è stata approvata. Ieri il Consiglio dei Ministri ha lasciato in naftalina le norme sulle misure alternative, sulla sanità penitenziaria e sulla vita interna alle carceri. Il 4 marzo è vicino e una variegata compagnia ha già intascato il primo risultato. Ha vinto Salvini con le sue truci volgarità. Ha vinto Luigi Di Maio che insultava la riforma definendola l’ennesimo svuota-carceri.
Ha vinto chi in Forza Italia ha sposato tesi leghiste. Ha vinto chi nel Governo e nel Partito Democratico era da sempre contrario, soffrendo il percorso riformatore. Ha vinto chi ha spostato l’asse del governo verso posizioni securitarie. Hanno vinto quei sindacati autonomi di polizia penitenziaria che si sono sempre dichiarati contrari a ogni tentativo di umanizzazione della vita penitenziaria e che intendono confinare gli agenti al ruolo di girachiavi e i detenuti al ruolo di camosci.
Hanno vinto soprattutto quei magistrati che hanno detto e fatto di
tutto per bloccare la riforma nel nome della lotta alla mafia. Ha vinto il procuratore di Catania Sebastiano Ardita che da mesi solleva dubbi e resistenze, alcune delle quali espresse nella convention di Casaleggio e amici. Pensa di aver vinto, ma in realtà ha perso, chi pensa che la politica sia tattica, attendismo. Chi pensa che una riforma vada trattata come una partita di calcio, ossia una lunga melina con vittoria ai supplementari quando tutti sono oramai distratti.
Ha perso chi tra i partiti ha riunciato al coraggio delle idee. Non ha perso invece il mondo delle associazioni e di chi lotta per i diritti dei detenuti. È un mondo abituato a combattere. E non si rassegnerà.
Continueremo a chiedere l’approvazione della riforma anche dopo il 4 marzo. Lo faremo anche rispetto a quelle parti della legge delega (ad esempio l’ordinamento penitenziario minorile) che solo ieri hanno fatto il primo passo in avanti. Non sappiamo se mai ce ne sarà un altro.
Continueremo a farlo in quanto oggi le prigioni d’Italia sono regolate da norme vecchie 43 anni. E la loro età si sente tutta. Norme pensate per una tipologia di detenuto nel frattempo profondamente cambiata. Norme scritte quando ad esempio non c’erano gli agenti di Polizia penitenziaria ma il corpo militare degli agenti di custodia. E’ un attimo che la crescita quantitativa dei detenuti sia tale da tornare ai numeri che hanno portato alla condanna da parte dei giudici di
Strasburgo.
Una condanna che ha portato alcune novità nel sistema penitenziario italiano che fortunatamente reggeranno agli scossoni elettorali. Tra le più importanti vi è l’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà.
Dunque quel percorso avviato con determinazione dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano con il suo messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013 e proseguito con gli Stati Generali voluti dal Ministro Orlando si è scontrato con la paura di perdere consenso su un tema ostico. La paura però fa commettere errori gravi. A dieci giorni dal voto il mondo progressista, laico e cattolico, avrebbe apprezzato il coraggio della riforma mancata.

Repubblica 23.2.18
Decreto rinviato
La riforma tradita sulle carceri
di Liana Milella


La paura di perdere qualche voto (forse più di uno) vince sulla Costituzione. Su quell’articolo 27 che al terzo comma recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
E chissenefrega allora se sul carcere dal volto umano s’è giocata una larga parte di questa legislatura. Buttiamo alle ortiche gli Stati generali sulla detenzione, che pure sono stati il fiore all’occhiello del Guardasigilli Andrea Orlando.
Nel cestino mesi e mesi di lavoro della commissione Giostra. Nel dimenticatoio il vanto — assolutamente legittimo e meritato — dello stesso Orlando che al suo attivo, dopo un lavoro certosino, può dire di aver eroso la sfiducia della Corte di Strasburgo verso l’Italia, al punto da cancellare le condanne milionarie per le celle da terzo mondo. E infine: Rita Bernardini è al 31esimo giorno di sciopero della fame per la riforma; i Garanti dei detenuti protestano; altrettanto fanno le associazioni; si temono perfino possibili reazioni nelle “patrie galere”. Ma tutto questo, messo sul piatto della bilancia dove, dall’altra parte, c’è il rischio di perdere voti in una partita già difficilissima per il Pd, non conta granché.
A nove giorni dal voto, bisogna partire da tutto questo per spiegare l’ulteriore rinvio, durante il consiglio dei ministri, della parte più pregnante della riforma dell’ordinamento penitenziario.
Parliamo di regole del 1975, codificate nella legge Gozzini dell’86, stravolte con l’ex-Cirielli di berlusconiana memoria del 2005, che ha stretto i cordoni dei permessi per tutti i recidivi, al punto da renderli di fatto impraticabili.
Consegnando i detenuti alla negazione di ogni speranza. Anche quando questa potrebbe contribuire a creare uno spiraglio per quel dettato costituzionale, «la rieducazione del condannato».
Non, quindi, la sua dannazione perenne, la fine anticipata della sua stessa vita.
Perché carcere non può voler dire morte anticipata, ma la via equa, in uno Stato civile, per scontare il debito contratto con la giustizia.
Orlando cerca di indorare la pillola, parla di «giornata importante» perché tre parti della riforma (giustizia riparativa, lavoro in carcere, regole per i minori) sono passate. Ma sa bene che queste dovranno affrontare ancora il parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Saremo già nella nuova legislatura, con gli equilibri spostati tra centrodestra e M5S, certamente non favorevoli alla manica larga sulle galere.
Decreti di fatto condannati. Ma uno aveva chance di sopravvivere, il più importante, quello sull’ordinamento penitenziario, anche se avversato da toghe che temono una mano troppo morbida sul 41-bis, il carcere duro per i mafiosi. Preoccupazione infondata, come spiegano in coro i magistrati di sorveglianza, che saranno i cani da guardia della riforma, padroni di valutare possibili e solo motivate eccezioni.
Ma che accade del decreto? Il consiglio dei ministri lo fa slittare di una settimana, proprio sotto il voto. Una promessa che il premier Gentiloni non potrà mantenere.
Del resto, perché dovrebbe accollarsi il peso delle scontate polemiche del centrodestra e di M5S, pronti a sparare in coro contro una riforma che umanizza le carceri? Loro le vogliono il più possibile cattive, per sostenere la propaganda becera contro gli immigrati, per illudere i cittadini, vittime di ladri e scippatori, che basta armarsi e poi sbattere in cella chi sopravvive per garantire la sicurezza.
Allora meglio aspettare. Per la stretta sulle intercettazioni non si è aspettato, per il carcere dal volto umano sì.

Il Fatto 23.2.18
A proposoto di “agente provocatore”
È Cantone a rinnegare Cantone
di Antonio Esposito


Alcuni giorni orsono, richiesto dalla giornalista Liana Milella del quotidiano La Repubblica di un parere sull’introduzione nella nostra legislazione della figura del c.d. “agente provocatore”, il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone ha così risposto: “Assolutamente sì all’agente infiltrato, assolutamente no all’agente provocatore, perché si crea un reato che non c’è, e perché, come dice una sentenza della CEDU, si va contro il diritto di difesa”.
Ieri – dopo un articolo de Il Fatto Quotidiano che segnalava come la previsione dell’agente provocatore fosse assolutamente necessaria per sradicare finalmente la dilagante corruzione – il Garante anticorruzione è tornato sull’argomento con un lungo articolo scritto, a due mani, con Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale dell’Università Statale di Milano, sul Corriere della Sera dal titolo: “Va punito chi fa reati, non chi potrebbe farli; ecco tutte le incognite dell’agente provocatore”. Gli autori – dopo aver richiamata “l’esigenza insopprimibile di garantire il rispetto di diritti fondamentali del cittadino di fronte alla giustizia penale” – hanno “ricordato quel che si insegna agli studenti di giurisprudenza: il compito della giustizia penale è punire (e perseguire) coloro che hanno commesso reati, cioè fatti socialmente dannosi, non coloro che si mostrano propensi a commetterne. In secondo luogo, è opportuno riflettere sul fatto che uno Stato che mette alla prova il cittadino per tentarlo e punirlo, se cade in tentazione, non riflette un concetto di giustizia liberale”.
Gli autori, inoltre, dopo aver richiamato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha ritenuto illegittimo l’impiego di tale istituto, hanno sottolineato che “la pratica investigativa che faccia uso dell’agente provocatore è, all’evidenza, una pratica che si può prestare ad abusi: chi decide chi, quando e come provocare?”, di qui la necessità di “garantire il cittadino da possibili abusi della polizia”.
Le ragioni che militano a favore dell’introduzione nella nostra legislazione penale della figura dell’agente provocatore sono state già illustrate nell’articolo pubblicato martedì scorso da questo giornale, in perfetta sintonia con i pareri di magistrati di assoluto valore come Pier Camillo Davigo – autentico PM anticorruzione e oggi presidente di sezione della Corte di Cassazione – e l’ex Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti. Non è, quindi, il caso di ritornare su tali ragioni se non per segnalare la irrilevanza dell’argomentazione secondo la quale “questa pratica investigativa si può prestare ad abusi”. Invero, una volta che la figura dell’agente provocatore sia stata legislativamente riconosciuta, il “provocatore” agirà secondo le direttive e le modalità indicate dall’Autorità Giudiziaria sotto il cui costante controllo dovrà operare, il che esclude qualsiasi “possibilità di abusi della polizia”.
Quello che, invece, qui preme sottolineare è la circostanza che, in precedenza, il Presidente dell’ANAC, in una intervista rilasciata nell’agosto 2014 al Corriere della Sera diceva esattamente il contrario: “Un agente provocatore offre a un Pubblico ufficiale una grossa somma di denaro per avere un significativo atto a suo favore, tutto con le garanzie di legge e sotto il controllo della AG.” Continua al Corriere della Sera Cantone: “Al Governo direi di ampliare gli istituti dell’agente provocatore validi per la criminalità organizzata. Non solo il classico infiltrato, penso anche a chi si finge corruttore, come in materia di droga dove esiste il simulato acquisto”.
Era, quindi proprio il Capo dell’Anticorruzione che intendeva proporre al Governo (non si sa se poi l’abbia fatto) di prevedere la figura, non del “classico infiltrato”, ma dell’agente provocatore, finto corruttore, che avrebbe dovuto svolgere il suo compito “sotto il controllo dell’AG”

Repubblica 23.2.18
Piercamillo Davigo
“Agenti provocatori indispensabili nell’Italia corrotta”
Intervista di Liana Milella,


ROMA «Di Napoli non parlo, perché l’inchiesta è in corso, ma sulle operazioni sotto copertura non ho dubbi. Se l’Italia vuole uscire dalla corruzione deve ammetterle anche per questi reati».
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed ex presidente dell’Anm, presidente di sezione della Cassazione, a Repubblica dice: «Thomas Hobbes, nel Leviatano, ha scritto che il termine tirannia significa né più né meno ciò che significa sovranità. Solo che chi è in collera col sovrano lo chiama tiranno. Venendo a noi, agente provocatore significa, né più né meno, quello che significa operazioni sotto copertura, solo che chi è in collera con le operazioni sotto copertura chiama chi le fa agente provocatore».
Un momento. Chiariamoci. Lei sostiene che parliamo della stessa cosa?
«Prendiamo l’esempio degli acquisti simulati di stupefacente, che oggi sono consentiti dalla legge. Un ufficiale di polizia giudiziaria che acquista droga per arrestare un trafficante lo induce all’evidenza a vendergliela. E infatti la legge dice che non è punibile perché lo fa al fine di arrestarlo. Perché tutti quelli che strillano per le operazioni sotto copertura in materia di corruzione non strillano per le stesse operazioni in materia di stupefacenti, armi, criminalità organizzata, terrorismo, pedopornofilia? Quale sarebbe la differenza? Non ce n’è nessuna».
Lei ne è proprio convinto?
Alcuni suoi colleghi non lo sono affatto...
«Come mai non li ho sentiti parlare così per gli acquisti simulati droga?
E comunque, certamente sì che ne sono convinto. Perché dal punto di vista criminologico i corrotti sono autori “seriali” come i trafficanti di droga, commettono lo stesso reato non una sola, ma numerose volte».
E come la mette con chi dice che non è lecito creare reati?
«È evidente che il reato lo induco io, ma quella droga il trafficante “seriale” l’avrebbe venduta lo stesso. È evidente che non ci si può rivolgere a chiunque proponendogli una mazzetta, ma ci si deve limitare a soggetti mirati, come chi, pur guadagnando 1.500 euro al mese, ha la Ferrari in garage. È chiaro che qualcosa non va».
Per lei quindi operazioni sotto copertura e agente provocatore in pratica sono la stessa cosa.
«Può essere che durante un’operazione sotto copertura, che oggi è ammessa in altre materie ma non per la corruzione, possano verificarsi atti di induzione a commettere reati. Partiamo da un presupposto. Tutte le operazioni prendono il via da un esimente, cioè stai facendo un’attività illecita, ma sei “scriminato”. Certo che vengono commesse delle illegalità, ma non capisco perché si stracciano le vesti. Dai generalità false, dici di essere un altro, quindi c’è una sostituzione di persona. In realtà parlano a vanvera. Non si crea il reato, perché queste persone comunque commetterebbero “serialmente” i reati. Vale la stessa regola per la cocaina come per la corruzione, da una parte c’è chi venderebbe comunque la cocaina a qualcun altro, dall’altra c’è chi prenderebbe la mazzetta da un altro».
In concreto come
cambierebbe la legge?
«Attuando la convenzione Onu di Merida sulla corruzione che risale al 2003. Quindi consentendo le operazioni sotto copertura anche per i reati di corruzione e di turbativa d’asta».
Il livello della corruzione in Italia lo renderebbe necessario?
«Basta un dato oggettivo, le opere pubbliche in Italia costano mediamente almeno il doppio rispetto al resto dell’Europa e il debito pubblico soffoca il Paese.
Vorrà dire qualcosa? O no? E non stiamo parlando solo di un indice di percezione (peraltro affidabile), ma di dati misurabili. Bisognerà pure fare un passo per uscirne».
Una via obbligata?
«Se si vuole uscire dalla corruzione sì, altrimenti si finisce per diventare come gli stati gravemente corrotti.
Per combatterla seriamente servono due cose, le operazioni sotto copertura e un diritto premiale forte, cioè riduzioni di pena per chi collabora, arrivo a dire fino all’impunità. Perché chi collabora realmente diventa onesto per necessità. Chi volete che porti ancora soldi a un funzionario pubblico che una volta arrestato fa l’elenco di tutti quelli che l’hanno pagato? E chi volete che accetti più denaro da un privato che una volta arrestato fa l’elenco di tutti quelli che ha pagato?».
Con Mani pulite però anche chi ha confessato, poi ha continuato a commettere reati...
«Perché hanno mantenuto sacche di silenzio. Allora non c’era una legge premiale, non c’era e non c’è una revisione in danno, per cui se scopro che mi hai mentito ti revoco tutti i benefici. Però chi ha parlato per davvero ha chiuso con le tangenti. Invece chi ha taciuto, ha iniziato folgoranti carriere politiche, o ha continuato a fare la stessa attività almeno come intermediario».

il manifesto 23.2.18
Quando il Pil non fa la felicità, pesa la condanna alla precarietà
Economia. Il World Happiness Report per lo sviluppo sostenibile, su 155 paesi ci mette al 48° posto. Un gradino sotto l’Uzbekistan e a pari merito con la Russia
di Luigi Pandolfi


Dopo i dati sul Pil, arrivano quelli sul fatturato dell’industria. Che la produzione industriale fosse cresciuta nell’anno appena chiuso era noto, ora dall’Istat arriva una conferma: +5,1% rispetto al 2016 (+3,3% solo per il manifatturiero), miglior risultato dal 2011.
L’altra conferma è che le imprese il business l’hanno fatto con la domanda estera (+6,1%), vero motore, in questa fase, della nostra economia.
Nondimeno, a dimostrazione di quanto siano inadeguati questi parametri per valutare lo stato di benessere di una popolazione ci sono non soltanto i numeri sulla povertà e il disagio sociale (il nostro Paese raggiunge livelli scandalosi), ma anche altri fattori, più umani, perfino emozionali, che da un po’ di tempo sono entrati a far parte delle statistiche sociali a livello internazionale. La felicità, per esempio.
COSÌ, SE DA UN LATO il 2017 si è rivelato un anno importante per la crescita quantitativa del nostro Paese, la stessa cosa non si può dire della gratificazione dei suoi cittadini. Sviluppo della persona umana, qualità della vita, «libertà di essere e di fare e auto-realizzazione», opportunità, serenità e piacere, non entrano nel calcolo del Pil, dei surplus commerciali e dell’inflazione, ma, più di quest’ultimi, danno il senso della direzione di marcia di una comunità e del livello di soddisfazione di chi vi appartiene.
Nel caso dell’Italia, la distonia tra stime quantitative sull’andamento dell’economia ed indici di benessere e felicità dei cittadini è davvero notevole. L’ultimo World Happiness Report, classifica stilata dalla rete delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (SDSN), rileva che il nostro Paese, benché rientrante nel 16% dei paesi più ricchi al mondo, si troverebbe al 48° posto (su 155) in quanto a felicità dei suoi abitanti, sotto di una postazione rispetto all’Uzbekistan, in compagnia con la Russia di Putin.
SUL PODIO la Norvegia, seguita, nelle posizioni di vertice, da Danimarca, Islanda, Svizzera, Finlandia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Australia e Svezia. Insomma, rispetto ai cittadini di altre nazioni europee (e non solo), gli italiani sarebbero più sfiduciati verso il sistema e le istituzioni, si sentirebbero meno liberi di fare i propri progetti di vita, avvertirebbero maggiormente il peso delle ingiustizie e della corruzione nelle proprie vite.
SENTIMENTI, percezioni, la cui importanza è data anche dal fatto che, per il 2017, il documento si è basato specialmente sulle «fondamenta sociali della soddisfazione», a partire dalla felicità nel posto lavoro. «La felicità differisce considerevolmente attraverso lo stato di occupazione, il tipo di lavoro e i settori industriali. L’equilibrio vita-lavoro, la varietà del lavoro e il livello di autonomia sono altri fattori rilevanti», è il commento del professor Jan-Emmanuel De Neve, dell’Università di Oxford.
QUALCOSA che ha a che fare con la precarizzazione del lavoro (nel 2017 i posti stabili sono a -117mila), potremmo aggiungere noi, guardando agli effetti mutageni del Jobs Act sulla qualità dell’occupazione e la composizione stessa della base occupazionale.
CON LA RIFORMA della contabilità pubblica del 2016, comunque, il nostro Paese, tra i primi in Europa, ha introdotto gli «indicatori di benessere equo e sostenibile» nel ciclo della programmazione economica e di bilancio.
Come rileva lo stesso Istituto di statistica, «l’inclusione di tali indicatori costituisce un’innovazione rilevante perché impegna il governo a considerare le dimensioni del benessere, accanto a quelle più strettamente economiche, nella valutazione delle politiche pubbliche».
AL DI LÀ del dato formale, tuttavia, viene da chiedersi se e quanto il governo si sia impegnato, negli ultimi due anni, nel calibrare i propri bilanci e le proprie politiche pubbliche sulla domanda di benessere della popolazione, ovvero se tale impegno non sia stato del tutto disatteso, visti i provvedimenti che sono stati adottati proprio a partire dal nuovo corso della contabilità di Stato, dai tagli alla sanità ed alla ricerca, fino all’imbroglio dell’abolizione dei voucher.

Il Fatto 23.2.18
“Via il pareggio di bilancio o sarà austerità per sempre”
Il costituzionalista presenta la legge popolare per eliminare la riforma che ha imposto il fiscal compact nella Carta
di Carlo Di Foggia


Il 1° gennaio la Costituzione italiana ha compiuto 70 anni. Il 4 dicembre scorso ricorreva l’anniversario della vittoria del No al referendum sulla riforma che voleva stravolgerla. Quel giorno il Coordinamento per la democrazia costituzionale (erede del comitato per il No) ha depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione. “È una scelta simbolica, vogliamo rompere con una lunga stagione di regressione e rilanciare la cultura costituzionale in Italia”, spiega Gaetano Azzariti professore di diritto costituzionale alla Sapienza, tra i promotori dell’iniziativa per portare il testo in Senato. Oggi ne discuterà in un convegno a Roma con gli economisti Marcello Minenna e Antonella Stirati. La riforma – incardinata nel nuovo articolo 81 – è stata introdotta nel 2012 dal governo Monti con l’appoggio della quasi totalità del Parlamento, sotto la pressione dell’Ue e dei mercati.
Perché è una battaglia in continuità col referendum?
Perché rilancia la lotta per un costituzionalismo democratico che deve porre limiti al mercato, all’Europa, alla politica per la salvaguardia dei diritti. Bisogna uscire dalla logica delle riforme fatte per garantire esclusivamente la ‘governabilità’, cioè i sovrani, i quali invece devono essere limitati dalle costituzioni.
In che modo il nuovo articolo 81 danneggia i cittadini?
È la peggiore riforma entrata in vigore negli ultimi anni, approvata senza praticamente discussione, in un momento di confusione politica. Il Fiscal compact imposto in Costituzione obbliga all’austerità ed esclude le politiche di bilancio di natura espansiva. Si legittima così ogni possibile taglio allo stato sociale: è inaccettabile comprimere per ragioni di bilancio i diritti fondamentali, che devono invece essere salvaguardati soprattutto nelle fasi di recessione.
In che modo si può realmente invertire la rotta?
Riconsegnando al Parlamento il potere di decidere davvero sul bilancio e fissando nei diritti fondamentali un limite invalicabile per l’azione della politica economica. La nostra proposta assegna alla legge di contabilità generale il compito di stabilire i vincoli per il rispetto del Fiscal compact, ma pone un “controlimite” per assicurare in ogni caso il “rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Riscriviamo anche l’articolo 119, per restituire un ruolo alle Regioni sancendo che agli enti territoriali “sono attribuiti con legge risorse destinate a garantire i diritti delle persone”, e il 97 relativo alla P.A.
L’obiezione è nota: il pareggio di bilancio è previsto dal Fiscal compact, che noi abbiamo ratificato…
Impone di porre vincoli permanenti, che già non è poco, ma non anche di scriverli in Costituzione. Averlo fatto dimostra la forte miopia della nostra classe dirigente: se in Europa dovessero cambiare gli orientamenti di politica economica avremmo difficoltà ad adeguarci perché ci siamo auto-limitati. Un autolesionismo scellerato. Presi dal panico della crisi si è pensato che la Carta servisse solo al contingente, dimenticando che le costituzioni non servono per i cicli brevi dell’economia ma per assicurare i principi “eterni” delle persone.
I vincoli di bilancio hanno la loro radice nei trattati europei, significa che la Carta deve prevalere su tutto?
È un discorso complesso, ma va chiarita una cosa: lo spazio lasciato ai Paesi europei è almeno quello definito dai principi supremi fissati dalla Costituzione. Questi spazi vanno utilizzati al meglio se si vuole affermare la garanzia dei diritti e rafforzare il nostro ruolo in Europa, magari provando a cambiarla. È così in tutti i grandi Paesi, non solo in Germania. La normativa sui conti pubblici è il caso più evidente di espropriazione di potere sostanziale di decisione politica, ed è proprio qui che va posto un limite solido alla pervasività della normativa europea sancendo la prevalenza dei principi supremi dell’ordinamento italiano.
Come hanno accolto i partiti la vostra iniziativa?
Con molti imbarazzi, per via della scelta del 2012. Ma la realtà ha mostrato l’urgenza di abbandonare questa strada. Confido lo capiscano.

il manifesto 23.2.18
Italia paese tra i meno istruiti con pochi laureati e tanti tagli
Guerra alla conoscenza. Istat: una società classista che penalizza la ricerca dell’autonomia attraverso i saperi. La spesa in ricerca e sviluppo è concentrata solo in quattro regioni
Milano, un corteo contro l’alternanza scuola-lavoro
di Roberto Ciccarelli


Italia paese tra i meno istruiti d’Europa. Dopo di noi ci sono Spagna, Portogallo e Malta. Un ritardo storico nei livelli di istruzione che, stando al rapporto sulla conoscenza 2018 presentato ieri dall’Istat nell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano a Roma, è inferiore di 16,8 punti percentuali rispetto alla media europea: il 60,1% tra i 25-64enni con almeno un titolo di studio secondario superiore contro l’oltre 76% europeo. Questo ritardo è dovuto alla scarsa istruzione della popolazione matura, e non ai giovani e ai meno giovani che, anzi, hanno permesso un aumento di otto punti dal 2007 a oggi, negli anni della peggiore crisi dal Dopoguerra.
LE RAGIONI di questa disparità sono approfondite dal rapporto, lo strumento a oggi più completo per affrontare uno dei problemi strutturali del capitalismo cognitivo italiano. Le cause sono dovute principalmente a un rapporto di potere: in particolare nel privato, tra le piccole e medie aziende – settore importante nel paese del «capitalismo molecolare»: 770 mila imprese dai 2 ai 49 addetti nella manifattura e nei servizi, 4,6 milioni di occupati – chi è meno istruito comanda, chi lo è di più cerca un lavoro, per lo più precario, pagato in maniera pessima. Il livello medio di istruzione dei micro-imprenditori è modesto: 11,4 anni di scolarità a testa nel 2015, meno della scuola dell’obbligo. Questa composizione indica due caratteristiche del sistema produttivo: il basso tasso di specializzazione di queste imprese e il livello altrettanto basso della forza lavoro richiesta. I dipendenti hanno un livello medio di 10,8 anni di scolarità a testa. A riprova che una maggiore istruzione aumenta la produttività dell’impresa c’è questo dato: quando gli imprenditori sono più istruiti, anche i dipendenti tendono ad avere un livello di istruzione più elevato. In media ogni anno di scolarizzazione in più dell’imprenditore corrisponde a 1,3 mesi di istruzione in più per ciascun dipendente. Per ogni anno d’istruzione in più un’impresa ha il 5 per cento in più di speranze di sopravvivere nel contesto aggressivo della crisi. Anche in un capitalismo relazionale, basato su basse competenze, bassi salari un mese in più di istruzione riesce a produrre un effetto positivo.
LA POVERTÀ soggettiva degli imprenditori e di una parte della forza lavoro va considerata rispetto allo scheletro produttivo di un paese dov’è forte la manifattura. Lo si vede nel caso dei brevetti: di gran lunga dominanti sono quelli legati ai macchinari, ai mobili, gioielleria e articoli sportivi. Insieme formano il 51,9% delle domande nazionali di brevetto. Seguono quelli nel settore tessile-abbigliamento-pelletteria e alimentare. Dunque, siamo ancora un paese fissato allo scheletro manifatturiero del Centro-Nord? Sì, e per di più gli investimenti (pochi) sono concentrati solo in 4 regioni: Lombardia, Lazio, Piemonte e Emilia Romagna. Poli che concentrano le poche risorse in ricerca e sviluppo. inferiori a quelle delle maggiori economie europee: 1,3% del Pil nel 2015 contro una media Ue al 2%. Lontanissima è la Silicon Valley, e su questo non ci sono dubbi. Ma è lontana anche la Francia dove, dal punto di vista di un capitalismo neoliberale puro, Emmanuel Macron ha previsto investimenti ingenti nel campo del digitale. Un campo – tra gli altri – dove gli investimenti «immateriali» sono davvero modesti in Italia, anche se l’Istat sostiene abbiano superato il 20% di quelli totali in ricerca e sviluppo. Nonostante la crisi e l’improvvisazione che ha accompagnato questo settore, perlomeno da quando è stata decisa la chiusura dell’Olivetti.
NELL’ISTRUZIONE pubblica la situazione è più che noto il violentissimo attacco di Berlusconi al settore ha portato nel 2008 al taglio di 8,4 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università. Da allora mai più rifinanziati. Unico paese dell’Ocse ad avere tagliato l’istruzione nella crisi, l’Italia ha continuato a pestare l’acqua nel suo mortaio di mediocrità, infelicità e povertà lucidamente volute e programmate. Una situazione che si spiega con il realismo capitalista: il paese va tarato su una struttura produttiva ridotta, tipicamente sbilanciata sull’export e non sull’innovazione e la domanda interna. Alla richiesta di autonomia, attraverso i saperi, vanno tagliate le gambe. Perché, come disse il commercialista di Sondrio che fece anche il ministro dell’Economia, «con la cultura non si mangia».
UNA TESI che ormai nutre l’inconscio di un paese virulento e classista. Ma è negata dai fatti. Il dato non è nuovo, e anche l’Istat conferma che un titolo di laurea permette di trovare più facilmente un impiego e di guadagnare di più, a cominciare dalle donne. E ci sono novità: pur nell’estrema esiguità dei laureati (ultimi nell’Ocse: 16%) aumentano quelli nel Mezzogiorno: +55%. Resta tuttavia l’impianto classista: chi si laurea ha già genitori con il titolo. Le speranze di emancipazione sono ridotte per chi invece proviene da famiglie non laureate. Un problema storico non risolto né dalle riforme degli anni Sessanta-Settanta, né da quelle neoliberali degli anni Novanta.
OGGI c’è un altro problema: lo si vede dal tasso degli abbandoni scolastici. Sono diminuiti dal 20 al 13,8%, ma aumentano tra i figli degli immigrati dove superano il 30%. È il nuovo volto del classismo che, fuori dalle classi, è accompagnato dal razzismo scatenato di una società in ostaggio.

La Stampa 23.2.18
Cancellate le illusioni sull’Ema
di Marco Bresolin


Nelle speranze di chi ancora ci credeva - nonostante tutto - l’ispezione di ieri doveva essere il Grande Faro puntato sullo scandalo, l’occhio della verità sul complotto euro-olandese per portare l’Agenzia del Farmaco ad Amsterdam anziché a Milano. Ma la visita della commissione europarlamentare Ambiente, guidata dall’italiano Giovanni La Via, ha sentenziato che la soluzione offerta dall’edificio transitorio (Spark Building) «è buona: bisogna ancora verificare i tempi per l’adeguamento, ma non ci sono grandi necessità. E, avendo ancora nove mesi davanti, il tutto è realizzabile». Che poi è ciò che il cda dell’Agenzia aveva messo nero su bianco il 7 febbraio scorso. Ma nonostante questo i sospetti italiani non si erano placati.
Ora c’è la certezza che l’edificio transitorio assicurerà la continuità operativa dell’Ema, che dal 1 aprile 2019 lascerà Londra. Per La Via restano ancora dubbi sulle promesse dall’Olanda in merito alla realizzazione del Vivaldi Building, l’edificio che diventerà la sede definitiva dell’Agenzia e che sarà pronto entro il 15 novembre 2019. «In caso di fallimento non hanno un piano B», dice l’esponente popolare. A oggi nella zona ci sono solo cantieri aperti, ma gli olandesi hanno assicurato che ci sono i tempi tecnici per completare l’opera: «Assicureremo l’operatività dell’agenzia», ha ripetuto il vicepremier Hugo De Jonge.
Anche su quello che sembrava essere l’unico vero punto di scontro tra l’Ema e il governo olandese, il canone d’affitto maggiorato da extra-costi per l’allestimento, le tensioni sembrano essere rientrate (come rivelato ieri da La Stampa). «Rimarranno a carico del bilancio Ue solo le risorse per l’affitto presenti nell’offerta iniziale», ha assicurato La Via.
«La partita è ancora aperta», non si rassegna Beppe Sala, sindaco di Milano, dopo che il Consiglio Ue ha definito «irricevibile» il ricorso di Palazzo Marino. Certamente il Parlamento Ue dovrà votare regolamento, ma a questo punto pare difficile che l’Eurocamera decida di aprire uno scontro istituzionale con Commissione e Consiglio. Il presidente lombardo, Roberto Maroni, se la prende quindi con il governo: «Serve un’azione più incisiva». Ma riceve solo un invito dal premier Paolo Gentiloni che riporta tutti alla realtà: «Basta battute elettorali».

Corriere 23.2.18
Emma Bonino: con Gentiloni e Renzi
«Così il Paese non dà un’immagine di serietà Ma Paolo ha avuto una forza rassicurante»
di Alessandra Arachi


Bonino: cerchiamo gli indecisi, i 18enni votino
ROMA «Ogni tanto mi sento sola, Marco si è sempre inventato qualunque cosa perché potessimo avere uno strumento istituzionale». È finita così ieri pomeriggio l’intervista di Emma Bonino, leader della lista «+Europa» a #Corrierelive, con un amarcord di Pannella, il suo amico di tante battaglie radicali.
A poco più di una settimana dal voto, come va la campagna elettorale?
«È una campagna elettorale mediocre, sguaiata e piena di bugie. Anche contro di noi si stanno scagliando come se stessimo promettendo lacrime e sangue».
Ma cosa succederà dopo il 4 marzo? Lei è pronta ad un patto post-elettorale?
«Questa domanda è frutto di un titolo sbagliato di un’intervista...».
E quindi?
«Al di là della fantapolitica siamo verso due soluzioni di governo: uno sovranista, anti europeo, con venature razziste evidenti, e un altro più aperto all’Europa, un po’ più timido, e noi evidentemente sosterremo questo tipo di governo, anche federalista».
E a proposito di Europa, cosa ne pensa dell’uscita di Juncker?
«Juncker dice quello che dicono tutti i commentatori, e infatti è intervenuto anche su Brexit e sulla Catalogna. Non è che stiamo facendo una grande figura di serietà. Ma...».
Ma cosa?
«Se riusciamo a convincere una parte consistente di questo mare di astensionisti possiamo avere delle sorprese nonostante una pessima legge elettorale che è stata fatta in modo che nessuno avesse la maggioranza».
E come farebbe a convincere un diciottenne al primo voto?
«Caro amico diciottenne, non ti sei impegnato tanto per nascere in Italia, è capitato, è una tua fortuna, un privilegio che ho avuto anche io, ma nel mondo ci sono milioni di persone che ancora rischiano la vita per avere questo diritto al voto...».
Che cosa ne pensa del fatto che Paolo Gentiloni rimanga a fare il presidente del Consiglio? L’ultimo endorsement lo ha avuto dal presidente emerito Napolitano...
«Tutto dipende dal voto degli elettori. Certo si deve dire che Gentiloni ha avuto una forza rassicurante, è più dialogante, e forse questo Paese ha bisogno di un periodo di serietà, ma anche di una classe politica che non inciti agli scontri».
Le sembra che ci sia molta violenza in giro?
«Ci sono stati vari episodi complessivamente preoccupanti e penso che a questi bisogna reagire in modo netto e anche molto urgente, con fermezza e serietà, e non giustificarli come ragazzate. È come giustificare l’antisemitismo perché esistevano gli ebrei o uno stupro perché la ragazzina portava la minigonna. E poi...».
Poi?
«Vorrei citare la mia mamma. Qui si passa dall’insulto verbale alla violenza e ci chiediamo perché: noi dovremmo dare l’esempio di buona educazione. L’educazione, diceva la mia mamma, è rivoluzionaria».

La Stampa 23.2.18
La delusione dei lavoratori Coop
“Questa sinistra è irriconoscibile”
I dipendenti tra frustrazione e fedeltà al Pd: candidando Casini hanno svenduto la nostra storia
di Gabriele Martini


«Mio nonno era comunista, ma per davvero. Lui ci credeva. Ecco, io penso che se mio nonno sapesse che il Pd ha candidato Casini, si rivolterebbe nella tomba. Poi rivolterebbe anche le sezioni del partito di tutta la provincia. La faccio breve: per la prima volta in vita mia, non so chi votare». I tormenti del popolo di sinistra alla vigilia delle elezioni prendono forma in un pomeriggio d’inverno al bancone della pescheria di un ipermercato Coop alle porte di Bologna. Il caporeparto Gianluca Giunta, 54 anni, parla schietto e si accalora: «Anche stavolta metterò la croce sulla scheda elettorale, ma sono arrabbiato. Renzi ha svenduto la nostra storia. Gli vorrei fare una sola domanda: caro Matteo, cosa ti è passato per la testa? Mia figlia vota per i grillini, chissà che forse abbia ragione lei».
Nella roccaforte rossa
Fuori piove a dirotto, la nebbia spessa sale da Ferrara e nasconde i colli. «Fa un freddo birichino», chiosa la signora mentre litiga con l’ombrello. Coop Alleanza 3.0 è la cooperativa di consumatori più grande d’Italia. Gestisce punti vendita lungo tutta la dorsale adriatica, dal Friuli alla Puglia. Solo in Emilia Romagna dà lavoro a quasi 12 mila persone. Tra questi c’è Alessandro Petrolati, ferrarese, 52 anni di cui trenta passati in cooperativa. «All’inizio facevo il cassiere, poi sono passato all’ortofrutta e adesso sono qui». Oggi è il direttore di un supermercato con 380 dipendenti. Il suo amore per la Spal è smisurato, pari solo all’allergia per le cravatte. «La cosa più bella – racconta - è quando riesco ad assumere i giovani. La mia filosofia è aiutare chi è rimasto indietro. Proprio quello che dovrebbe fare la politica...». E invece? «Invece i governanti si sono dimenticati che fuori dai palazzi esiste la gente. Hanno smarrito gli ideali». Affetti e politica, nell’ultima roccaforte rossa tutto s’intreccia. «La mia è una famiglia di sinistra. Mio padre è un vecchio militante, dice che dovrei votare Pd - rivela Petrolati -. Ma sono troppo deluso. Penso che alla fine sceglierò Bonino e Tabacci, sono brave persone e competenti».
Il duello più atteso
A Bologna - da sempre laboratorio politico e città maestra di contraddizioni - va in scena una delle poche sfide degne di nota della tornata elettorale. La gustosa battaglia è quella per il collegio uninominale del Senato. Da una parte c’è Pier Ferdinando Casini, navigato democristiano in Parlamento dal 1983, che ha strappato l’ambito posto in lista nella coalizione guidata dal Pd. Dall’altra c’è l’ex comunista Vasco Errani, già presidente della Regione, schierato da Grasso e Bersani nel tentativo di sgambettare Renzi nella città simbolo della sinistra. Infine ci sono Michela Montevecchi (Movimento 5 Stelle) ed Elisabetta Brunelli (civica vicina a Forza Italia), che sperano di beneficiare dello scontro fratricida a sinistra. Scontro che, almeno finora, non c’è stato.
Tra Casini ed Errani, per ora, scorrono parole al miele: «Non ho alcun motivo per polemizzare con lui», dice uno; «Lo rispetto, è un politico per bene», risponde l’altro.
Per sapere come andrà a finire tocca aspettare il 5 marzo. Tuttavia l’indagine lampo effettuata tra le corsie delle Coop bolognesi – nessuna pretesa statistica, per carità – qualcosa rivela. Su trenta interpellati, undici dicono che voteranno per il Pd, sei per i grillini, tre per Liberi e Uguali, due per Forza Italia, uno per Salvini; tre non andranno alle urne, mentre quattro non hanno ancora deciso che fare. Numeri a parte, a colpire è lo scetticismo, tratto distintivo dell’homo bononiensis.
I clienti più cortesi sospirano e sbuffano, i più insofferenti si allontanano e imprecano contro le classi dirigenti (a volte con parole irriferibili). Il termine più abusato è delusione. «Voto Pd, è ovvio», assicura lisciandosi i baffi Graziano Albertazzi, classe 1933: «Casini? Pazienza, mi turerò il naso, ma non tradisco il partito». Domenico Fortunato, dirigente bancario in pensione, si definisce un «liberale spaesato». Sorride gentile, cita Einaudi e Malagodi: «Quegli ideali si sono persi. Oggi la politica è sporca. Voterò per il centrodestra. Avrei potuto scegliere anche il Pd, in passato l’ho fatto. Ma finché il ciarlatano toscano non va a casa, preferisco Berlusconi».
Al reparto carni Luciano Aldrovandi affetta con sapienza il sottofiletto: «Io non ho la ricetta magica per guarire i mali del Paese. Quello che so è che dobbiamo lavorare meno per lavorare tutti. Non sta in piedi un sistema che mi tiene qui fino a 70 anni e lascia fuori i giovani. Io cerco di essere ottimista, ma è sempre più difficile. Speravo in un mondo migliore per i miei figli, dovranno costruirselo da soli».
All’uscita del supermercato del quartiere San Donato c’è il banchetto di Greenpeace. «Vuole salvare una balena?», domanda la ragazza con la pettorina verde. Quasi nessuno si ferma. Il cielo è grigio, l’umidità penetra nelle ossa. Iyabo batte i denti e sorride a tutti. È arrivato dalla Nigeria un anno fa, laggiù ci sono una moglie e due figli che lo aspettano. Aiuta gli anziani a portare i sacchetti della spesa in cambio di una moneta: «Ci sono le elezioni? Non lo sapevo. In Nigeria i politici sono tutti corrotti. E qui?».
La signora Carla
La ragazza è l’arcobaleno che all’improvviso sbuca dalla nebbia: occhi verdi, capelli blu, giubbotto rosso, anfibi viola. «Se stai facendo un sondaggio lascia perdere perché non faccio testo, io sono strana». Si chiama Alida, studia Lettere all’università. Meglio Renzi o Di Maio? Lei finge di svenire, poi sorride: «E va bene, te la sei cercata. Il mio voto va alla signora Carla, anche se non è candidata». E chi sarebbe? «Una donna di sessant’anni che vive nelle case popolari del quartiere Corticella assieme al figlio disoccupato. Qualche settimana fa volevano sfrattarla, ma l’abbiamo impedito. A Bologna i politici fanno la guerra ai poveri». Che cosa farà Alida il 4 marzo? «Quel giorno inforcherò la bici e andrò fuori città. Nei seggi elettorali c’è un cattivo odore, a me piace l’aria pura».

La Stampa 23.2.18
Dallo stallo tedesco all’Ungheria xenofoba
Tutte le crepe Ue che spaventano i mercati
La crescente instabilità rischia di allontanare gli investitori
di Francesco Guerrera


Il pericolo-Italia ritorna a spaventare l’Europa. A lanciare l’allarme è stato Jean-Claude Juncker in un’esternazione che ha fatto scalpore a Roma, innervosito Bruxelles e fatto paura ai mercati.
Il presidente della Commissione europea si è detto preoccupato dello «scenario peggiore» nel dopo-elezioni, «cioè un governo non operativo in Italia». È un bell’eufemismo per spiegare la paura che aleggia nei corridoi del potere dell’Unione Europea e tra i trader delle banche d’affari. Dopo mesi in cui le varie, troppe, fazioni politiche avevano rassicurato alleati, investitori e connazionali che il 4 marzo non avrebbe portato al caos, è arrivato Juncker a guastare la festa.
Ma l’Italia non è l’unica mina vagante nel panorama politico europeo. Il Vecchio Continente è pieno zeppo di governi, Paesi e partiti «non operativi», a dirla con Juncker. Facciamo due passi in Europa: Polonia e Ungheria sono in mano a regimi reazionari e beceri che trattano l’Ue come uno zerbino; il governo austriaco è puntellato dai militanti di estrema destra del Partito della Libertà, grande fautore di Vladimir Putin.
Nel
Regno Unito, Theresa May traballa sul ponte del Titanic targato Brexit, mentre in Spagna Mariano Rajoy sta facendo l’impossibile per non soccombere alla forza centrifuga della Catalogna. Per fortuna che c’è la Germania. No, un momento. La locomotiva storica dell’Ue è paralizzata dal voto dei social-democratici su una «Grande Coalizione» che non sembra grande a nessuno.
Una sfortunata coincidenza storica vuole che i risultati di quel plebiscito verranno rivelati poco prima delle elezioni italiane, creando un mix potenzialmente esplosivo per politica e mercati. Persino in Francia, la luna di miele dell’enfant prodige Macron sta per finire.
La buona notizia, per il momento, è che l’economia dell’Ue è in condizioni decenti – thank you, Mr Draghi – e che gli altri grandi blocchi non stanno proprio benissimo, certo non gli Usa dilaniati dal trumpismo. Ma siamo ormai alla fine di un periodo di (relativa) tranquillità europea che dura da anni – dalla fine della crisi dell’euro nel 2012, passando per l’inizio dell’enorme stimolo della Banca centrale europea tre anni fa, fino alla rispettabile crescita economica attuale. Checché succeda nelle urne italiane, nel ballottaggio tedesco o nel ventre del partito conservatore inglese, stiamo per entrare in un periodo di turbolenza: l’intervento di Juncker è l’avviso del pilota ad allacciare le cinture di sicurezza. Come spesso accade, saranno i mercati a decidere se questo sia l’inizio di una nuova crisi europea o un semplice momento-no in un’Unione che fa dell’inquietudine la sua ragione d’esistere.
La dicotomia è ovvia e preoccupante: i politici amano l’incertezza perché è solo negli interstizi dell’incertezza che trovano lo spazio per compromessi e accordi. Gli investitori odiano l’incertezza perché non gli permette di calcolare con precisione i propri ritorni. E quando gli investitori non possono divinare il futuro, vendono. Basta guardare allo spread tra obbligazioni italiane e tedesche: dopo i commenti di Juncker, è salito di quasi il 4 per cento, un rialzo allarmante, soprattutto perché la Germania non è in salute perfetta.
Gli ottimisti dicono che Juncker e i mercati stanno esagerando. Anzi, sostengono che sia positivo che le paure escano fuori adesso. Se i vari risultati sono migliori delle aspettative, gli investitori ritorneranno in massa a comprare beni ed obbligazioni dell’Ue. Non è certo impossibile. Warren Buffett, il più grande investitore del mondo, consiglia sempre di essere «avidi quando gli altri sono timorosi e timorosi quando gli altri sono avidi». E so di un gestore di hedge fund che sta comprando un po’ di tutto, allettato dai prezzi bassi e dalla convinzione che le cose miglioreranno sia in Italia sia in Germania.
Un banchiere della City mi ha persino detto che le parole di Juncker sono un classico caso di psicologia dei contrari: parlare del peggio per farsi sorprendere dalla realtà. Speriamo abbia ragione. Per il momento, chi guarda verso l’orizzonte europeo vede una nuvola a forma di stivale.

il manifesto 23.2.18
Trump: «Armiamo i professori». Il padre di una vittima: «Sì, ma di conoscenza»
Stati uniti. Mass shooting nelle scuole e armi facili, Barack e Michelle Obama si schierano «con i giovani che dicono basta»
La protesta degli studenti a Parkland, Florida
di Marina Catucci


Il tema del controllo delle armi continua a mettere in crisi Trump che ha ricevuto alla Casa Bianca una delegazione di ragazzi sopravvissuti, genitori delle vittime e insegnanti del liceo Douglas di Parkland in Florida. Mentre si svolgeva l’incontro, fuori la Casa Bianca si teneva una manifestazione, così come accade dal giorno successivo la sparatoria, per chiedere una regolamentazione delle armi. nell’incontro con Trump, trasmesso in diretta da vari network tv, i toni si sono accesi, sono scorse lacrime, parole di dolore e rabbia: «Sono incazzato perché non vedrò più mia figlia. Quanti altri ragazzi ancora? – ha detto uno dei padri – Non chiuderò occhio finché non si farà qualcosa».
LA RISPOSTA che è arrivata è a dir poco incongrua, infatti per l’inquilino della Casa bianca la soluzione per evitare mass shooting nelle scuole d’America sta nell’aumentare il numero di armi e nell’armare insegnanti appositamente formati. «Una zona senza armi, per un maniaco è un invito a entrare e attaccare perché sono tutti codardi – ha detto Trump – Ma se ci fossero degli insegnanti capaci di usare le armi da fuoco, questi potrebbero mettere fine all’attacco molto velocemente», specificando poi che questo «varrebbe solo per quei i professori che hanno frequentato un addestramento speciale» e per un 20% del corpo docente.
Suscitando reazioni non proprio positive: «Gli insegnanti vanno piuttosto armati di conoscenza per prevenire queste stragi, per identificare i ragazzi a rischio prima che arrivino a quel punto – ha affermato Nicole Hockey, che ha perso il figlio di 6 anni nella strage nella scuola elementare Sandy Hook in Connecticut – Per favore parliamo di prevenzione. Aiutiamo la gente prima che arrivi ad una strage».
UNA SITUAZIONE simile l’ha vissuta anche il senatore Gop Marco Rubio in un incontro con studenti del liceo Douglas, parlamentari e rappresentanti della Nra (National Rifle Association), trasmesso dalla Cnn; Rubio si è detto contrario ad armare gli insegnanti, ma si è rifiutato di promettere che non accetterà più finanziamenti dalla Nra che per la sua campagna come senatore ha speso un milioni di dollari.
Mentre la Nra fa fuoco e fiamme anche per la proposta di alzare l’età minima per possedere un’arma, da 18 a 21 anni e accusa i media «di amare i mass shooting» e di soffiare sul fuoco, a sostegno dei ragazzi contro le armi sono arrivati Barack e Michelle Obama; «I giovani hanno contribuito a guidare tutti i nostri grandi movimenti. – ha scritto l’ex presidente – È stimolante vedere di nuovo così tanti studenti intelligenti e impavidi che difendono il loro diritto di essere al sicuro, marciare e organizzarsi per rifare il mondo come dovrebbe essere. Vi stavamo aspettando. Vi guardiamo le spalle».

Corriere 23.2.18
Un’intesa Trump-Xi Jinping è difficile ma inevitabile
di Ian Bremmer


A Davos, come pure durante il recente discorso al Congresso sullo stato dell’Unione, Donald Trump ha espresso chiaramente la volontà di far valere le sue ragioni con la Cina. Questo presidente americano ha «una mentalità antiquata da Guerra fredda», ha commentato di rimando il ministro degli Esteri cinese. I rapporti commerciali e finanziari tra le due più grandi economie globali hanno imboccato una strada che non promette nulla di buono. Ma se Trump certamente non vuole scatenare una vera e propria guerra commerciale, nemmeno Pechino propende per questa opzione. Tuttavia, anche senza arrivare a un confronto-scontro, i danni potrebbero essere notevoli.
Sin dall’annuncio della sua candidatura presidenziale nel 2015, Donald Trump si è presentato all’elettorato americano come un esperto negoziatore, pronto a dimostrarsi più astuto e tenace di qualunque altro presidente, democratico o repubblicano, e come il più capace difensore del popolo americano. Trump sa benissimo che la sua popolarità, le possibilità di un secondo mandato e ciò che sarà in grado di realizzare in veste presidenziale dipendono interamente dalla sua abilità nel promuovere gli interessi dei suoi elettori, i quali imputano alla concorrenza commerciale della Cina la perdita di occupazione e il declino negli standard di vita degli americani negli ultimi decenni. Con la sua economia centralizzata e la sua rapida espansione globale, Pechino rappresenta il nemico numero uno.
Da qualche tempo, Trump ha cominciato a sostenere che la sicurezza economica coincide con la sicurezza nazionale, lanciando così un avvertimento a Pechino che la sua massima priorità consiste nel raddrizzare le storture e gli squilibri dei rapporti commerciali e finanziari tra Stati Uniti e Cina. Le sue prime mosse sono state scandite dagli annunci di nuove normative commerciali e restrizioni sugli investimenti cinesi, che saranno varate nelle settimane a venire. Si aprirà un acceso dibattito tra Congresso e Casa Bianca sulle modalità di riforma delle procedure tramite le quali il governo americano approva le proposte di investimenti stranieri. Trump farà inoltre pressione affinché Pechino modifichi le regole che impongono alle aziende americane di trasferire know-how e proprietà intellettuale (Ip) per poter accedere al mercato cinese. Trump esige inoltre che Pechino dichiari illegale il furto di proprietà intellettuale. Con questi cambiamenti, Trump spera di mettere nell’angolo la Cina e le imprese cinesi al punto tale da costringere Pechino a prendere sul serio le lagnanze americane sul piano commerciale. Si comincerà con l’annuncio di nuove tariffe e restrizioni sui prodotti cinesi immessi sul mercato americano. Se queste mosse non daranno i risultati sperati, Trump passerà alla minaccia di ostacolare le aziende cinesi che intendono operare e investire negli Stati Uniti. Queste misure, attentamente calibrate, non mirano tanto a punire la Cina, quanto a costringere gli interlocutori a sedersi al tavolo dei negoziati.
Indubbiamente, la Cina risponderà sulle prime con aspre critiche e atteggiamento di sfida, ma queste reazioni saranno temperate dal desiderio di evitare inutili provocazioni. Il presidente cinese Xi Jinping dipingerà il suo governo come leader mondiale nel commercio e nella finanza, per poi avvertire Washington di non imboccare la strada pericolosa del protezionismo. La Cina sarà pronta a sfidare le misure varate dagli Stati Uniti davanti al Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio). Xi Jinping proverà inoltre a testare la soglia di sopportazione degli Usa. Le aziende americane, nei più svariati settori, si vedranno imporre non solo nuove restrizioni formali, ma anche revisioni, ispezioni e altre forme di pressione burocratica tali da costringere la comunità imprenditoriale americana ad ammonire Trump, affinché si muova con maggior cautela. In particolare, sia il governo cinese che quello americano prenderanno di mira le aziende tecnologiche della controparte.
Tuttavia, entrambe le parti hanno buoni motivi per raggiungere un compromesso. Xi Jinping respingerà tutte le pressioni che vogliono metter fine alle sovvenzioni statali alle aziende impegnate nel costruire un’economia cinese moderna e dinamica nel settore delle tecnologie. Né si azzarderà a indebolire la valuta cinese per trarne vantaggi tattici, o a provocare un forte rallentamento nell’acquisto di buoni del Tesoro americani per alzare la posta in gioco. Entrambi questi interventi sarebbero controproducenti. È più probabile che Xi Jinping si appelli direttamente a Trump con la promessa di concedere alle aziende americane un maggior accesso al mercato cinese senza dover condividere know-how tecnologico e proprietà intellettuale. Anche a Trump conviene scendere a compromessi, se punta a raccogliere dalla Cina sufficienti concessioni per poter dichiarare vittoria senza mettere a repentaglio i buoni risultati economici che puntano a rafforzare la sua popolarità.
Ma qui è il problema: ciascuna parte è convinta che l’altra sia più vulnerabile. I ministri di Trump sono certi che alla Cina sia indispensabile l’accesso ai mercati americani per evitare un brusco raffreddamento dell’economia che potrebbe innescare una crisi politica. I funzionari cinesi credono che il loro presidente sia molto meno esposto alle pressioni rispetto a Trump, il quale è costretto a raccogliere le incessanti lagnanze degli imprenditori americani e a breve dovrà confrontarsi nuovamente con l’elettorato. E quando ciascuna parte è convinta di poter avere la meglio sull’altra si rischia il conflitto.
Ma non aspettiamoci una rapida soluzione. Né la Cina né gli Usa vogliono mostrarsi deboli, in patria e all’estero. Le frizioni si protrarranno verosimilmente per tutto il 2018. Vista l’importanza dei rapporti che intercorrono tra le due massime potenze globali, una affermata e l’altra emergente, e il loro ruolo nell’economia globale, non ci resta che sperare che Trump e Xi Jinping trovino un terreno comune ampio abbastanza da consentire a entrambi di procedere a testa alta.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

il manifesto 23.2.18
Rifugiati a digiuno contro le deportazioni israeliane
Tel Aviv. Oltre 750 richiedenti asilo rinchiusi ad Holot iniziano lo sciopero della fame dopo l'arresto di sette eritrei che hanno rifiutato di andare in Ruanda. Fuori dal centro di detenzione centinaia in marcia
La protesta dei rifugiati africani in Israele
di Chiara Cruciati


Dopo i primi sette arresti la protesta è ripresa, dentro e fuori le carceri: ieri centinaia di richiedenti asilo africani hanno manifestato di fronte al centro di detenzione israeliano di Holot, nel deserto del Naqab, contro l’arresto di sette eritrei che hanno rifiutato la deportazione in Ruanda.
Dentro, 750 africani – dei mille già in prigione da mesi – lanciavano lo sciopero della fame contro la politica anti-rifugiati di Tel Aviv: «Non vogliamo mangiare, né domani né dopodomani – spiega al quotidiano israeliano Haaretz Abdat Ishmail, eritreo in carcere da 10 mesi e portavoce del movimento – Ci dicono che è vergognoso gettare via il cibo. Noi rispondiamo: è vergognoso gettare via delle vite umane».
Fuori i manifestanti scandivano «Non siamo criminali», prima di dirigersi in marcia per due chilometri verso la prigione di Saharonim, dove i sette eritrei sono stati condotti mercoledì. «Ridateci indietro i nostri fratelli», «Israele rispetti la convenzione del 1951», si leggeva nei cartelli, in inglese, arabo ed ebraico, con i migranti che si affollavano intorno ai nastri rossi messi lì dalla polizia per non farli avvicinare.
Una scena surreale: il centro di Holot sorge nel mezzo di una piana desertica e i cancelli «semi aperti» sanno di beffa: chi ha l’autorizzazione ad uscire (alcuni hanno solo l’obbligo di firmare la presenza di mattina e di sera), non lo fa perché impossibilitato a spostarsi e raggiungere una città e un qualsiasi lavoro a giornata.
È dunque realtà la campagna di deportazione di 37mila richiedenti asilo africani: dopo l’approvazione dell’emendamento alla «Legge contro l’infiltrazione» (creatura dei primi anni ’50 per impedire il ritorno ai rifugiati palestinesi) e l’aggiramento della sentenza della Corte Suprema che vieta la deportazione in paesi ostili, i primi sette eritrei sono finiti in prigione mercoledì.
Delle due «opzioni» date dalle autorità, alla deportazione in Ruanda hanno scelto la galera a tempo indeterminato. E tanti altri potrebbero seguire: in pochi giorni gli ordini di deportazione sono già saliti da 200 a oltre 600 e saranno processati entro marzo dalle autorità per l’immigrazione e la popolazione.
Con la quota-target che resta fissa a 37mila. Tutti loro dovranno scegliere: andarsene con in tasca 3.500 dollari e un futuro uguale al passato da cui sono fuggiti (abusi, altre deportazioni, trafficanti) o il carcere.
Con un «ma», racchiuso nelle parole di Talib, sudanese intervistato da Al Jazeera: «In Darfur la situazione è impossibile, ho visto mio padre morire sotto i miei occhi. Non c’è modo che io ritorni lì». Se al pari di Talib la maggior parte di loro – come annunciano – sceglierà la cella, Israele si troverà di fronte a un problema serio. Di celle a sufficienza non ce ne sono, dovrebbero essere costruite nuove carceri. Un boomerang per il governo Netanyahu.
Accanto ai rifugiati protestano anche le organizzazioni per i diritti umani: «È il primo passo verso un’operazione di deportazione senza precedenti a livello globale – hanno scritto in un comunicato le israeliane Assaf e Hotline for refugees and migrants – Una mossa intrisa di razzismo e di completo disprezzo per la vita e la dignità dei richiedenti asilo».
E aggiungono: almeno due dei sette arrestati hanno subito torture, ma non hanno mai ricevuto l’asilo. Di quasi 14mila richieste di asilo accettate, Israele ha riconosciuto solo 10 status di rifugiato, lo 0,07%.

il manifesto 23.2.18
È crisi umanitaria a Gaza stretta nel blocco di Israele ed Egitto
Territori occupati. Il Cairo ha nuovamente chiuso il valico di Rafah gettando nella disperazione migliaia di palestinesi che attendevano da settimane il passaggio del confine. Ieri l'allarme dell'Oms per il sistema sanitario al collasso
Gaza sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari
di Michele Giorgio


«È stato solo un inganno, gli egiziani dicevano che avrebbero aperto il transito di Rafah per quattro giorni e invece l’hanno chiuso dopo appena 24 ore». Jamil Hammouda, un giornalista che abbiamo raggiunto telefonicamente ieri a Gaza, ci ha riferito della disperazione di migliaia di palestinesi che contavano di poter raggiungere il Cairo. Persone gravemente ammalate, genitori che non vedono i figli da mesi, studenti diretti ad università in altri Paesi arabi. Dovranno aspettare ancora e per quanto non si sa. «E dall’altra parte ad El Arish – ha ricordato Hammouda – ci sono centinaia di persone che attendono da settimane di tornare a casa».
Il valico di Rafah, tra Gaza e il Sinai, è l’unica porta che due milioni di palestinesi hanno sul resto del mondo arabo. L’altro, quello di Erez a nord è accessibile solo a quei pochi che, dopo lunghe attese, riescono ad ottenere un permesso israeliano per superarlo. Il blocco di Gaza, anzi, è più giusto chiamarlo assedio, da parte di Israele ed Egitto è ferreo. E lo pagano oltre 2 milioni di civili e non, come affermano Tel Aviv e il Cairo, il movimento islamico Hamas che dicono di voler colpire. L’Egitto ha motivato la chiusura di Rafah con la mancanza della necessaria sicurezza per i palestinesi in viaggio per il Cairo. «In realtà il valico è stato chiuso non appena sono transitati quei pochi che hanno potuto pagare tremila dollari (alle autorità egiziane, ndr)», ha spiegato Hammouda riferendosi alle “tariffe” che garantiscono il passaggio sicuro del valico.
Congelati gli accordi di riconciliazione tra Hamas e il partito Fatah del presidente dell’Anp Abu Mazen, Gaza sta precipitando in una crisi umanitaria devastante. Gli stessi israeliani nei giorni scorsi hanno lanciato un appello al finanziamento urgente di un loro piano per Gaza: con il blocco strangolano la Striscia e con le donazioni vorrebbero far respirare un territorio che hanno contribuito a trasformare in una enorme prigione. Ben diverso è l’appello che ha lanciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a favore del sistema sanitario di Gaza al collasso e su 1.715 palestinesi che stanno per morire tra cui 113 neonati, 100 pazienti in terapia intensiva e 702 in emodialisi. L’Oms chiede aiuti per 11,2 milioni di dollari necessari a soddisfare i bisogni di salute per i prossimi tre mesi. E solleva il velo dell’indifferenza sugli interventi chirurgici rimandati, sulle culle di terapia intensiva che ospitano talvolta quattro neonati, sui 6.000 operatori sanitari che da mesi ricevono il 40% del loro salario. «Senza finanziamenti nel 2018 – avverte l’Oms – 14 ospedali e 49 strutture di cure primaria dovranno affrontare una chiusura totale o parziale, con un impatto su 1,27 milioni di persone». Tre ospedali e 13 cliniche di assistenza primaria hanno già chiuso per la mancanza di energia elettrica. Scarseggiano i farmaci salvavita. Ad appesantire il quadro c’è lo stato di emergenza proclamato dai municipi di Gaza. Senza più fondi le amministrazioni locali sono state costrette a dimezzare i loro servizi fra cui la nettezza urbana e la gestione del sistema fognario e a vietare, per il forte inquinamento, i bagni in mare. L’erogazione dell’acqua nelle case è stata limitata ad un’ora appena al giorno.
E intanto resta alto il rischio di un nuovo conflitto con Israele che nei giorni scorsi, in risposta ad un attacco a una sua pattuglia lungo il confine, ha lanciato ripetuti raid aerei contro presunte postazioni di Hamas. È stato l’attacco dal cielo più ampio dalla guerra del 2014. Il generale Yoav Mordechai ha avvertito che Israele reagirà con forza a nuove manifestazioni di protesta sul confine. Negli ultimi mesi 15 dimostranti di Gaza sono stati uccisi da fuoco israeliano. Un altro palestinese, Yassin al Saradih, 33 anni, è morto ieri due ore dopo essere stato picchiato e arrestato da soldati a Gerico, in Cisgiordania. Un video mostra i militari che lo colpiscono con forza mentre è a terra.

La Stampa 23.2.18
Assad sfrutta i curdi per restare al potere
di Laura Mirakian


La battaglia di Afrin, incuneata nell’estremo lembo nord-occidentale del territorio curdo-siriano, era già scritta da tempo nella mente dei protagonisti. Nel 2015, l’assedio dell’Isis a Kobane, era finito in un massacro, dopo che la Turchia si era opposta al transito di rinforzi attraverso il proprio territorio. Nel 2016, l’operazione turca «Scudo dell’Eufrate», mirata al contempo contro Isis e combattenti curdi, era terminata su pressione americana in cambio dell’arretramento curdo a Ovest dell’Eufrate e del mantenimento di truppe nell’ area. L’operazione «Ramoscello d’Ulivo» si pone su questa linea di continuità. Assad ha deciso di muovere nonostante il pesante impegno militare su altri fronti: l’assedio di Goutha-Est anzitutto, e poi Homs, Hama, Idlib, Deir-er-Zour. Senza contare le vistose frizioni tra Israele e Iran sul teatro siriano, che nonostante la proverbiale prudenza dei militari israeliani, non prospettano nulla di buono, salvo che il dialogo dell’Europa con l’Iran non riesca a contenerne le ambizioni.
Come mai Assad ha deciso di muovere su Afrin, area periferica, apparentemente non strategica? Una lunga storia lega Damasco a questi curdi. Molti sono confluiti in Siria a fine Anni 80, fuggendo dalle persecuzioni di Saddam Hussein. Intorno a Damasco puoi scorgere miriadi di abitazioni abusive arrampicate sul dorso delle alture circostanti. Gli Assad hanno mostrato tolleranza, nel gioco incrociato di strategie regionali che il popolo curdo ha conosciuto nei decenni. Tolleranza che però non si è mai tradotta nella concessione della cittadinanza siriana. I curdi hanno ricambiato l’ospitalità con una discreta acquiescenza del loro incerto status. Talvolta questi «abitanti provvisori» hanno contattato le ambasciate occidentali a Damasco, ivi inclusa quella italiana, alla ricerca di un sostegno. Non per ottenere l’indipendenza, ma la cittadinanza siriana e un margine di autonomia: sarebbe come riconoscere, dicevano, che la Siria è il Paese di tutti, e che anche la comunità curda vi appartiene. Solo nel 2011, agli albori della crisi, Assad si decise a concedere la cittadinanza. Calcolando che i curdi non rappresentavano un pericolo ma una potenziale garanzia per l’integrità territoriale del Paese sul versante Nord. Ankara incassava il colpo, ma non rinunciava all’idea di allontanarli dalle frontiere, e magari installare una sorta di zona cuscinetto quale «sfera di influenza» turca sottratta ad Assad. Né probabilmente dismetteva l’obiettivo di liberarsi di Assad, nonostante le intese russo-turco-iraniane di Astana, mostratesi peraltro inconcludenti.
Era pressoché inevitabile che Assad finisse per scontrarsi frontalmente con Erdogan. Non sappiamo se il conflitto si estenderà fino al rischio di incrociare la vicina base americana di Manbji, o addirittura oltre l’area curda fino a Idlib. Dipenderà dal numero di morti che Assad ed Erdogan sono disposti a mettere in conto. Dipenderà dalle pressioni che Washington sta discretamente esercitando su Ankara. E dalla mediazione che Mosca starebbe tentando tra le parti. Mosca, aprendo un varco negli spazi aerei siriani, non ha ostacolato l’operazione turca e, pur considerando cruciale l’integrità della Siria, da tempo si interroga sull’asservimento assoluto di Assad: le elezioni presidenziali si avvicinano, i sondaggi rivelano un calo di consensi per questa guerra siriana. Tra Washington e Mosca dovrebbe esserci una convergenza quantomeno per spingere i contendenti nella direzione di un cessate-il-fuoco. In qualche modo, sul destino dei curdi del Rojava grava anche la tenuta dell’ambiguo e travagliato rapporto tra Stati Uniti e Russia.

Corriere 23.2.18
Mary Lou McDonald e il partito erede dell’Ira
Una donna a capo del Sinn Féin «Fra dieci anni l’Irlanda unita»
«Faremo un referendum e lo vinceremo»
di Luigi Ippolito


Good Friday
L’accordo del Venerdì Santo è stato firmato il 10 aprile 1998 dal governo di Londra e da quello di Dublino e dai partiti politici dell’Irlanda del Nord compreso lo Sinn Féin, già braccio politico di quello che fu l’Esercito repubblicano irlandese. È considerato l’asse portante del processo di pace in Irlanda del Nord. La leader del Sinn Féin spiega che è «incompatibile» con la Brexit

Londra Fa impressione soltanto vederle arrivare. Mary Lou McDonald e Michelle O’Neill, una col vestito verde color Irlanda, rossetto acceso, orecchini e collana scintillanti, l’altra coi capelli biondi e le unghie smaltate di rosso. La prima è la leader nazionale del Sinn Féin, il partito irlandese erede dei guerriglieri dell’Ira, la seconda è a capo della stessa formazione nell’Ulster. Sembra passato un secolo (e lo è) dalle immagini lugubri dei militanti repubblicani che sfilano armati e incappucciati nelle vie di Belfast. E appartiene al passato anche il volto di Gerry Adams, il leader storico del Sinn Féin (e capo dell’Ira), di cui Mary Lou ha preso il posto la scorsa settimana.
«Siamo facce nuove, senza barba», scherza lei col Corriere accarezzandosi il viso (e alludendo all’aspetto irsuto di Adams). Ma soprattutto volti di donna, in un movimento nazionalista che è rimasto sempre un affare di uomini ed è stato protagonista di una stagione di sangue in Irlanda del Nord che ha lasciato sul terreno migliaia di morti.
Che effetto fa — chiediamo — una leadership tutta femminile nel Sinn Féin? «È fantastico — esclama Mary Lou abbracciando Michelle —. Abbiamo forte il senso che questo è il momento delle donne nella vita pubblica. Certo, abbiamo bisogno di uomini in politica, ma è necessario un ribilanciamento. Io sono una femminista sfegatata e non potrei essere più lieta che il partito abbia scelto me e Michelle come leader. È il girl power ! Stiamo prendendo il sopravvento!».
McDonald e O’Neill sono venute per la prima volta a Londra a incontrare la premier britannica Theresa May. «È stato un meeting lungo — racconta Mary Lou — è andato avanti per un’ora, c’è stato un franco scambio di vedute, ma ne sono uscita delusa e allarmata. C’è stata una polarizzazione sul terreno, in Irlanda del Nord, negli ultimi mesi».
E il problema, come è facile immaginare, è la Brexit, che ha rimesso in questione i delicati equilibri su cui si fonda la pace attuale. «La realtà — spiega la McDonald — è che la Brexit e gli accordi del Venerdì Santo (quelli che vent’anni fa hanno messo fine alla guerra civile, ndr ) sono incompatibili. La Brexit rappresenta un chiaro e imminente pericolo per il funzionamento dell’economia e della società irlandese nella sua totalità».
Il nodo è il confine tra Ulster britannico a Nord e repubblica di Dublino a Sud: finora una frontiera fluida, adesso rischia di «solidificarsi» nel momento in cui la Gran Bretagna lascerà la Ue, perché diventerebbe la demarcazione esterna d’Europa.
«La Brexit è un problema in particolare per l’Irlanda — continua la McDonald — per la prossimità geografica alla Gran Bretagna, per i nostri legami commerciali e per i legami sociali fra le due Irlande. Non ci può essere un confine sulla nostra isola. Sarebbe catastrofico per il commercio, per l’accesso a servizi e per come la gente conduce la vita quotidiana: c’è chi ha la casa a Sud e la fattoria a Nord!».
Che l’unica soluzione sia forse la riunificazione? «Irlanda unita? Assolutamente sì!», esclamano all’unisono Mary Lou e Michelle. «Vogliamo non solo una riunificazione territoriale — continua la McDonald — ma reimmaginare una Irlanda rigenerata in senso democratico e inclusivo. La Brexit ha portato la questione alla luce: quando vediamo la prospettiva di una hard Brexit , noi diciamo che non è possibile avere un confine fisico in Irlanda. E la riunificazione è l’opzione ovvia sul tavolo».
Ma come è possibile arrivarci senza scosse? «Noi vogliamo un referendum e vogliamo vincerlo — spiega Mary Lou — ma soprattutto vogliamo un processo democratico basato sul massimo consenso, rispettoso delle differenze, del fatto che c’è una popolazione unionista che è britannica e che è fiera di esserlo. Ma noi siamo la generazione in grado di portare la questione a una conclusione democratica. E prevedo che nel corso del prossimo decennio guarderemo a un referendum sull’unificazione. Alcuni potranno dire che è affrettato, ma il nostro punto di vista è che il mondo nel quale viviamo e le sfide che affrontiamo siano meglio servite da una Irlanda unita».

il manifesto 23.2.18
Fantasmi e concetti secondo Thomas Hobbes
Divano. La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
di Alberto Olivetti


Nella prima parte del De corpore (1655), nel terzo capitolo, Thomas Hobbes, come scrive Ernst Cassirer, sostiene che «la verità non inerisce alle cose, ma ai nomi e al rapporto dei nomi, che si compie nella proposizione: ‘veritas in dicto, non in re consistit’».
E nel convincimento espresso da Hobbes, puntualizza Cassirer, la filosofia, rinnegata la connessione coi principi della scienza sperimentale, «deve consistere in null’altro se non nella dottrina dell’esatto collegamento dei segni, creati dal nostro pensiero».
Si presta bene, questa considerazione di Cassirer, a orientare la lettura delle pagine della quarta parte del Leviathan (1651) ove si tratta Del regno delle tenebre.
Tenebre spirituali derivanti da errate interpretazioni della Scrittura, dai residui della religione pagana nonché dal ricorso agli insegnamenti di filosofie «vane» così come dalla recezione passiva di «favolose tradizioni». Oscurità spirituali e ignoranze che, mentre recano danno a molti, portano ad altri considerevoli benefici.
Al vero, o al falso, della parola (dictus) consegue il bene, o il male, della cosa (res). Perché i segni creati dal nostro pensiero conformano la relazione politica, ovvero agiscono il legame civile effettivo.
Argomenta Hobbes: «Il nemico è stato qui nella notte della nostra ignoranza spirituale e ha seminato il loglio degli errori spirituali; e ciò, in primo luogo, abusando e spegnendo la luce delle Scritture, perché noi erriamo per non conoscere le Scritture. In secondo luogo, introducendo la demonologia dei poeti pagani, vale a dire, la loro favolosa dottrina concernente i demoni, i quali non sono che idoli o fantasmi del cervello, senza alcuna natura reale propria, distinta dalla fantasia umana; tali sono gli spettri dei morti, le fate e altra materia da storie di vecchie donne. In terzo luogo, mischiando con la Scrittura diversi resti della religione e molto della vana ed erronea filosofia dei Greci, specialmente di Aristotele. In quarto luogo, mescolando con queste due, tradizioni false e incerte e storie finte o incerte».
Il nemico che diffonde e fa durare tanta inettitudine e ottusità tra gli uomini è il principe del potere dell’aria, come si legge nella lettera di Paolo agli Efesini (II, 2 e VI, 12). Ed è nell’aria che si producono le visioni.
Attraverso l’aria, dice Hobbes, procede una immaginazione dell’oggetto: «tale immaginazione è chiamata vista e non sembra essere una mera immaginazione, ma il corpo stesso fuori di noi».
Si stabilisce, potremmo dire, una dinamica aerea che, una volta avviata in un giuoco di riflessi, rifrazioni e riverberi, permane, resta nell’apparenza intatta allorché i corpi opachi o lucidi o diafani, pur rimossi, continuano tuttavia il loro movimento in noi inducendo, scrive Hobbes, «ciò che chiamiamo immaginazione e memoria e sogno».
E aggiunge: «apparenze che rimangono nel cervello per l’impressione dei corpi esterni sugli organi dei sensi, e che sono chiamate comunemente idee, idoli, fantasmi, concetti, in quanto sono rappresentazioni di quei corpi esterni che le causano e non hanno realtà più di quanto ne abbiano le cose che abbiamo di fronte in un sogno».
Seguendo Hobbes nel suo ragionamento sulle immagini riceviamo più di un insegnamento.
Intanto, che la vacuità, l’illusione, il segno (idee, idoli, fantasmi, concetti) assumono permanenza e consistenza e senso nel mondo degli uomini, costituiscono una essenziale condizione della relazione sociale e civile che va conosciuta. Tanto illusoria quanto perentoria per influenza e rilevanza. Una incidenza sempre nuova per l’opera assidua che il principe dell’aria è in grado di esercitare, possiamo dire, su ogni nostro inconsapevole sguardo.
Nel proponimento di Hobbes c’è, al riguardo delle immagini, una verità che richiede d’esser rivelata, da pronunciare.
Verità che si elabora e si afferma in dicto, affidata ad una perspicua e congrua combinazione di segni –nomi e rapporti tra nomi – creati dal nostro pensiero nella parola delle Scritture.
E per questa via Hobbes invita ad una riflessione sulla caratura fantasmatica che informa idee e concetti.

Corriere 23.2.18
Boris Pahor
«Ho 104 anni ma non penso mai alla vecchiaia
L’ultima volta che ho avuto una donna? A 85»
Candidato più volte al Nobel, è nato quando dominava l’impero asburgico. La sua vita è un romanzo che ha attraversato la storia del Novecento: «Mai smettere di coltivare i propri interessi»
intervista di Marisa Fumagalli


Avere 104 anni e non sentirli. « O meglio — dice — ogni volta che mi prende un malanno per un attimo penso all’età che avanza. Poi passo oltre. L’espressione “sono diventato vecchio” per me non esiste». L’incontro con Boris Pahor nella villetta dove abita, affacciata sul golfo di Trieste, non è il primo. Ma questa volta è speciale. Sorprendente. Occorre persuadere lo scrittore ad affrontare il tema della vecchiaia, distogliendolo dagli argomenti — importanti e drammatici — che hanno segnato la sua lunghissima vita. Spicca l’azzurro del maglioncino che indossa mentre parla seduto di fronte a noi. Gagliardo. «Ti dedico un’ora e non di più — avverte —. Devo cenare in anticipo, poi vengono a prendermi per andare al Teatro Rossetti. Proiettano il film-documentario di Elisabetta Sgarbi, “L’altrove più vicino”. Dentro c’è anche la lettura di brani delle mie opere». Sorseggia acqua da una bottiglietta, di tanto in tanto: «Prescrizione medica, a causa di un’ernia iatale. Sia chiaro, non sono amico dei dottori. Tendenzialmente, mi curo da solo. Il mio ricostituente? Latte e zucchero. Se non c’è fresco, va bene condensato. Questo alimento mi ha aiutato quando non avevo di che nutrirmi». La badante porta il caffè per entrambi. Nelle parole di Pahor lei «è la gentile signora che si occupa di me», 24 ore su 24, soltanto da pochi mesi. «Mi sono deciso a questo passo dopo una caduta in casa», spiega. Il grande vecchio, vedovo dal 2009, in seguito alla morte della moglie Rada («era una donna bella e spumeggiante»), abitava da solo. Si faceva bastare una colf saltuaria per le faccende domestiche.
L’esistenza centenaria di Pahor è un romanzo. Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste quando ancora dominava l’impero asburgico, ha vissuto sulla sua pelle i più grandi orrori del passato: la prima guerra mondiale, la repressione fascista nella Venezia Giulia, la seconda guerra mondiale, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti (aveva collaborato alla resistenza antifascista slovena); infine, l’ostracismo comunista all’epoca della Jugoslavia di Tito. Scrittore prolifico, tradotto in tutto il mondo (più volte candidato al Nobel), la sua opera più famosa è “Necropoli”, viaggio nella memoria dei terribili giorni passati nel lager di Natzweiler-Struthof. Scritta in sloveno nel 1967 (la lingua madre è una precisa scelta di appartenenza, Pahor si laureò a Padova in Letteratura Italiana), in primis fu tradotta e apprezzata in Francia. Nel nostro Paese invece il testo fu pubblicato soltanto nel 2008. Da allora, la notorietà dello scrittore è andata crescendo.
Il grande vecchio sorride: «Non ti vedo bene, ma ascolto le domande». Porta gli occhiali, ma ha perso la vista dell’occhio destro. Gliene rimane uno buono. Così può ancora battere sui tasti della macchina per scrivere. Sentenzia: «Mai smettere di coltivare i propri interessi, se si hanno le forze. Ad ogni età. Viaggiare o collezionare francobolli, non importa; occorre avere cura per ciò che si desidera fare. Io lavoro ancora». Un libro? «Sì, un libro. Complicato. Mi lasciano perplesso alcune opinioni dell’amico Alojz Rebula, che ora sembra aver cambiato orientamento. È una questione complessa. Riguarda il ruolo svolto dai cristiano-sociali durante la seconda guerra mondiale e la loro partecipazione alla lotta di liberazione. Nel suo ultimo saggio ‘Korintski steber’(‘La colonna corinzia’), Rebula ne rivaluta l’azione. Devo raccontare come andarono veramente le cose. L’idea è di costruire il libro in forma di dialogo. Ci sto provando». Quante ore di attività al giorno? «Scrivo dalle 9 alle 12 e dalle 16 alle 18. Nel pomeriggio mi prendo un paio d’ore di riposo. Abitudine recente».
La dieta di un centenario? «Molto semplice. La mattina prendo il caffelatte con pane, burro e marmellata. Per il resto, nei mie pasti ci sono i passati di varie verdure, un po’ di formaggio e un po’ prosciutto, frutta di stagione». Torna sull’ernia iatale: «È un disturbo che interessa stomaco ed esofago. Si è acuito, la diagnosi risale ai tempi del sanatorio di Parigi, dove finii, tubercolotico, dopo il campo di concentramento». Già, dal lager all’ospedale. Tempra forte, riuscì a guarire, lo aiutarono a riprendersi anche le amorevoli attenzioni di un’infermiera francese... Fra i due più che una simpatia. Vero? Sorride, Pahor: «Il nostro fu un grande sentimento; importante, contrastato. Impossibile». (La relazione con Arlette è scolpita nelle pagine di «Una primavera difficile»).
L’amore? «L’amore per le donne ha occupato molto spazio nella mia vita — dice —. Ho scritto molte lettere d’amore. Confesso che sono per l’amore libero e che non sono stato un campione di fedeltà, pur volendo molto bene a mia moglie». «Se fosse stato per me — continua — non mi sarei sposato. Detesto i vincoli, la libertà è tutto. D’altronde, Rada proveniva da una famiglia molto religiosa — uno zio paterno, Stanko Premrl, musicista, era un monsignore — e, alla fine, accettai il matrimonio. Civile, però». Come si ama da vecchi? «Si ama, si ama...I sentimenti non hanno età. Fisicamente è un po’ diverso, ovvio. Oggi ci si può aiutare con farmaci mirati. Io sono favorevole, con prudenza. C’è il rischio di effetti collaterali... meglio consultare il medico». Lei...«Se li ho provati? No, ma posso dire di aver fatto sesso attivo fino a 85 anni». Sorride, sornione. «Nelle case di riposo si parla d’amore, le carezze restano anche da vecchi — osserva — Non ho certo rinunciato ad accarezzare un corpo femminile». L’ultima volta? «È successo un anno fa… una bella signora…». «Lei era d’accordo», precisa. Boris Pahor ha due figli, Maja («abita qui vicino, la vedo spesso»)e Adrian. Due i nipoti. Non è il tipo di nonno che ti aspetti. Un irregolare. «Ormai sono adulti, li incontro volentieri, quando vengono a trovarmi — racconta — Non mi va, però, di perdermi in smancerie affettuose, ho altro da fare. Del resto, non sono stato neppure un padre esemplare. Non andavo a prendere i bambini a scuola, gli dedicavo poco tempo. Mia moglie me lo rimproverava». Ha un’anima panteista, il grande vecchio. Lo dice guardando il mare all’orizzonte. Cita volentieri Spinoza (“Deus sive natura”), il filosofo di riferimento. Religioso ma non credente, la sua forma di ateismo sembra essere frutto dell’esperienza nel campo di concentramento. Paura della morte? «Mi dispiace lasciare la vita», risponde. «Soprattutto non vorrei perdere il ben dell’intelletto», chiude. Orologio alla mano, un’ora esatta di conversazione. Siamo ai saluti. Poco dopo, Pahor telefona: «Grazie, mi scuso se ti ho messo fretta».

La Stampa Turismo.it 23.2.18
Auguste Rodin, monografica, Treviso
Rodin, il Bacio e il Pensatore a Treviso
Al Museo di Santa Caterina vernissage per l'attesa monografica dedicata a Rodin
di Maurizio Amore

qui

Repubblica 23.2.18
Arte trafugata
La bellezza depredata degli ebrei
Due sale del Louvre ospitano una trentina di quadri che i nazisti requisirono nel periodo in cui la Francia era occupata. Viaggio attraverso alcune delle migliaia di opere che attendono di essere restituite agli eredi delle vittime
di Anais Ginori


PARIGI È una postilla che passa inosservata sotto a ogni quadro. «Opera in attesa di essere restituita al legittimo proprietario».
Nell’ala Richelieu, in fondo alla galleria Medici, davanti ai magnifici ritratti di Rubens, sono ancora pochi i visitatori che osano entrare nelle due piccole sale affacciate su rue de Rivoli. I gruppi di turisti non ci fanno caso. Sui muri non c’è ordine cronologico, né unità di luogo o di stile. Si mischiano dipinti del Cinquecento e altri dell’Ottocento, pittori fiamminghi e anonimi veneziani, artisti famosi come Eugène Delacroix, François Boucher, Théodore Rousseau, e nomi molto meno prestigiosi.
«Abbiamo fatto un’eccezione, tralasciando ogni criterio artistico», racconta Sébastien Allard parlando come di un’eresia necessaria. Il direttore del dipartimento Dipinti del Louvre fa visitare con un punta di emozione le nuove sale dedicate alle opere requisite alle famiglie ebree durante il nazismo. Il più grande museo del mondo ha deciso di esporre, in un’apposita area, trentuno dipinti “orfani” dalla fine della guerra. Il Louvre ha quasi 800 dipinti trafugati durante l’occupazione nazista.
«Li abbiamo in custodia ma non ne siamo proprietari», ripete più volte Allard, evocando le varie tappe del contenzioso intorno a questi quadri e disegni. Secondo alcune stime, i nazisti hanno requisito agli ebrei francesi oltre 100mila beni, opere d’arte ma non solo. A partire dal 1945, oltre 60mila beni sono tornati dalla Germania verso la Francia, di cui 45mila restituiti ai legittimi titolari o agli eredi. Un’altra parte è stata venduta dallo Stato che ha però mantenuto 2143 opere iscritte in un registro speciale, quello dei Musées Nationaux Récupération (Mnr), di cui tre quarti sono conservate nelle riserve del Louvre.
Alcuni dei dipinti del Mnr, come la Tête de Lionne di Théodore Géricault, sono già visibili all’interno della collezione permanente del museo. In passato, ci sono state alcune mostre temporanee con questo filo conduttore ma è la prima volta che viene creato uno spazio permanente. L’obiettivo, spiega Allard, non è solo ricordare i rastrellamenti che hanno subito migliaia di famiglie ebree, derubate di tutto, ma anche tentare di rintracciare finalmente le vittime dei trafugamenti o i loro eredi. Una missione tutt’altro che facile.
A lungo la procedura prevedeva che l’onere della prova fosse a carico delle vittime. Per chi aveva perso tutto durante la guerra era complicato ritrovare documenti o foto che potessero convincere lo Stato ad autorizzare la restituzione. La questione è rimasta in sonno. Tra il 1957 e il 1994 sono state riconsegnate solo 4 opere sulle oltre 2 mila in mano allo Stato. «Era un periodo in cui la società francese voleva voltare pagina», dice con pudore Allard.
Secondo molti storici, si trattava di una rimozione collettiva, della volontà di tacere le zone d’ombra e le colpe di chi aveva collaborato con i tedeschi. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac ha riconosciuto la responsabilità della Francia nei rastrellamenti.
Ed è in quegli anni che — non a caso — si sono ricominciate a muovere le autorità a proposito dei trafugamenti. Il governo ha chiamato l’ex partigiano Jean Matteoli per fare un rapporto, nel 1999 è stata creata la Commission d’indemnisation des victimes de spoliations (Civs).
«Stabilire l’identità dell’ultimo proprietario legittimo di questi dipinti resta un rompicapo», commenta Allard. Le ricerche richiedono tempo e mezzi.
Talvolta sono inconcludenti. Lo Stato ha messo online la collezione completa delle opere cosiddette Mnr. La banca dati si chiama Rose Valland, dal nome dell’eroica conservatrice che lavorava al Jeu de Paume, museo usato dai nazisti per smistare le opere sequestrate. Valland ha tenuto un archivio clandestino diventato fondamentale nel dopoguerra per rintracciare centinaia di famiglie derubate.
Secondo la definizione delle autorità francesi, per bene «trafugato» si intende rubato durante un rastrellamento ma anche «venduto sotto costrizione» o comunque a causa delle leggi razziali.
È probabilmente il caso del dipinto Medemoiselles Duval di Jacques Augustin Pajou, esposto all’ingresso delle nuove sale del Louvre. Il ritratto delle sorelle, finito nella collezione privata del gerarca Joachim von Ribbentrop, era stato venduto l’11 febbraio 1942. Consultando la banca dati Rose Valland si nota che molti altri dipinti sono stati acquisiti durante l’occupazione. Le autorità hanno digitalizzato i cataloghi di vendita delle gallerie parigine tra il 1939 e il 1945. È grazie a questi documenti che gli eredi della coppia Hertha ed Henry Bromberg, fuggita prima dalla Germania e poi anche dalla Francia, ha potuto ottenere la restituzione di alcuni quadri, in particolare dagli archivi dell’antiquario Yves Perdoux.
L’ultimo — il trittico di un pittore fiammingo — è stato riconsegnato alla famiglia Bromberg a metà febbraio dalla ministra della Cultura, Françoise Nyssen.
Negli ultimi anni il ritmo delle restituzioni si è accelerato. Il precedente governo ha creato gruppi di lavoro che, anziché lasciare l’iniziativa solo ai parenti delle vittime, hanno avuto una parte attiva nelle ricerche, mobilitando magistrati, conservatori, archivisti. Sono stati chiamati genealogisti per rintracciare gli eredi, ora che i protagonisti dell’epoca non ci sono più. Dopo ottant’anni, le chance di ridare una casa alle opere “orfane” sono sempre meno. «Ci piacerebbe pensare che un giorno questo spazio sarà vuoto», conclude Allard. Il Louvre, e lo Stato francese in generale, sono stati anche criticati per le lungaggini, l’ottusa burocrazia. «Sappiamo che gli sforzi non sono mai abbastanza», risponde il responsabile. Nel lanciare la lodevole iniziativa il museo ha fatto una gaffe non piccola. Nel primo cartello informativo non erano citate le famiglie ebree. Come se le opere fossero state un semplice bottino di guerra e non il frutto di una persecuzione sistematica. Il Louvre ha parlato di “svista”. Il cartello è stato ovviamente corretto. Il peso della Storia continua a farsi sentire.

La Stampa 23.2.18
Fu Mattia Pascal, svelata la cronologia grazie agli archivi della “Stampa”
Due quinte dell’Alberghiero Colombatto di Torino hanno scoperto grazie a confronti incrociati che il romanzo è ambientato nel 1901
di Mario Baudino


Non ci sono solo molti riferimenti autobiografici ma, ben nascoste, anche alcune date cruciali della vita dell’autore. Tanto che non sembra peregrina l’ipotesi secondo cui Mattia Pascal potrebbe avere la stessa età di Luigi Pirandello. Lo hanno scoperto gli studenti dell’Istituto alberghiero Colombatto di Torino, due classi quinte, cui il professore di Lettere, Nicola Adduci, ha fornito una prima chiave per aprire il complesso meccanismo temporale del romanzo, generalmente considerato privo di riferimenti precisi agli anni in cui si svolge la vicenda. Invece non è così, è lo dimostra a sorpresa lo scoop filologico dei ragazzi.
Il fu Mattia Pascal fu scritto e pubblicato nel 1904, quando l’autore subì un improvviso rovescio di fortuna. Così il suo personaggio: nato ricco, perde tutto, ha un matrimonio infelice e progetta di fuggire in America. Capita al Casinò di Montecarlo, dove una enorme vincita gli fa cambiare idea. Ma in viaggio verso casa scopre che al paese hanno trovato il cadavere di un suicida, e lo hanno identificato in lui. Decide così di sfruttare l’equivoco: «muore», sparisce davvero, vagabondando per l’Europa e l’Italia, fino a stabilirsi a Roma. Qui una serie di avventure e di imbarazzi lo convince però che è impossibile – oltre che penoso – vivere come un fantasma, senza un’identità legale; torna allora in famiglia; scopre che la moglie si è risposata ma non fa valere i propri diritti. Lascia le cose come sono e muore, per così dire una seconda volta, chiudendosi in una vecchia biblioteca dove scrive il resoconto della sua incredibile vicenda.
Questo il romanzo, lettura abituale – e non facilissima - nell’ultimo anno della scuola superiore. Ma i ragazzi del Colombatto sono andati molto oltre, fino a scoprire, grazie a un docente appassionato e carismatico - complice l’archivio on line de La Stampa -, qualcosa che la critica ha sempre trascurato. Tutto è partito da una domanda: il giornale che Mattia Pascal, dopo la vincita a Montecarlo, legge in treno sarà mai realmente esistito? La risposta è no. È del tutto immaginario? No, ancora una volta. Mattia Pascal si sofferma su alcuni articoli. Al professor Adducci è venuta la curiosità di sapere se ce n’era traccia sulla stampa del primo Novecento, e sul nostro archivio on line ha trovato quel che cercava: un titolo dell’8 luglio 1901, dove si rendeva conto di una visita diplomatica in Germania.
A questo punto ha lanciato la sfida agli studenti, che si sono messi al setacciare il testo in cerca di riferimenti temporali. Ne sono venuti fuori parecchi, confermando che il viaggio in treno avviene nell’estate di quell’anno, ma non in una data precisa. Un’altra notizia, assente dai giornali, salta fuori – in inglese - grazie a Google libri: è sempre del 1901, ma del 23 giugno. I ragazzi non si fermano più e nel giro di un mese la cronologia è completata; tutto torna, le tessere del mosaico si incastrano perfettamente, a partire dall’età di Oliva – la figlia del fattore amata e sedotta da Mattia Pascal, ma che sposa per interesse l’amministratore ladro - per arrivare al matrimonio, infelicissimo, con Romilda: fino a ipotizzare la possibile concomitanza di età fra protagonista e autore.
Che Mattia Pascal fosse in gran parte Pirandello già lo si sapeva, ma che anche nella scansione dei tempi del racconto – sempre implicita – lo scrittore avesse seguito quelli della propria vita, ebbene è una suggestione critica non da poco. Usare il romanzo come un documento storico «è stata una sfida culturale» ci dice il professor Adduci. Riuscita, anche se non è la prima. Gabriele, Irene, Zoe, Luca, George e i loro compagni – una cinquantina, a diversi livelli di impegno com’è ovvio – hanno imparato un modo nuovo e appassionante di leggere.
Non è nemmeno la prima volta. L’anno scorso avevano realizzato un booktrailer sul Giovane Werther, visibile sul sito dell’Istituto. Ora «correggeranno» Wikipedia, tanto per cominciare, poi chissà. Tra l’altro, l’idea di far conoscere il lavoro tramite La Stampa è venuta proprio a Zoe. Grazie ai giornali in classe, ci hanno preferiti ai social.

La Stampa 23.2.18
Andrea Camilleri
“Fiero di aver raccontato l’altra Sicilia. Mai voluto guadagnare con la mafia”
Lo scrittore a sorpresa alla presentazione del film tv “La mossa del cavallo” tratto dal suo libro
di Michela Tamburrino


E poi, arriva Andrea Camilleri e tutto prende un altro sapore. Il suo romanzo storico, la sua indignazione, la sua tagliente analisi sulle cose semplici. Quanti vedranno La mossa del cavallo lunedì su Rai 1, assisteranno alla rappresentazione di un western siciliano nella Vigata del 1877, con finale tarantiniano e rimandi a Sergio Leone che si estendono allo studio dei costumi e al mantello che evoca C’era una volta il West.
Perché la Sicilia, racconta Camilleri, quella era; «Terra di nessuno, terra di frontiera, violenta, aspra, appassionata e quella ancora è». A dare il volto al protagonista, un intenso Michele Riondino che affronta un romanzo difficile e duro che oltre all’intreccio giallo ci mostra un circo di maschere paradigmatiche e, soprattutto, attacca il malgoverno sabaudo e i troppi errori compiuti nel post Unità, anticipo ai mali attuali.
Western a Vigata
«Quando nel 1868 si chiese ai siciliani di far parte del Regno d’Italia ci fu un consenso plebiscitario - continua Camilleri -. Com’è che dopo meno di quarant’anni si proclamò proprio in quella terra e per tre volte lo stato d’assedio? Com’è che giunse un esercito fucilatore autorizzato a sparare ai contadini? E la leva obbligatoria che portava le famiglie a privarsi di forza lavoro e dunque alla fame? Eppure, nell’esercito, accanto a ragazzi di altre regioni, questi contadini impararono a capire l’italiano compiendo di fatto l'Unità d’Italia. Partendo da un errore».
Passato. Ma è sul presente politico che lo scrittore ha un moto di fastidio: «Non sto assistendo a una campagna elettorale. Impossibile dare un nome a una cosa tanto disgustosa tra false promesse e insulti reciproci da comari. E il divario tra Nord e Sud oggi è spaventoso». Maestro... «No, non chiamatemi così. Sciascia lo permetteva solo perché era stato veramente maestro di scuola. Io no».
Camilleri senza Montalbano che aleggia in qualche modo. «Mi preoccupa affrontare il pubblico dopo gli straordinari consensi che ha avuto il commissario. Una cosa non capisco. Vorrei conoscere uno a uno chi si guarda le repliche per chiedere loro: “Che cosa ci trovate?” Per me resta un enigma». Sottile frecciatina alla Rai che ripropone i gialli di Vigata come fossero ossigeno. E ora si prepara a sfornare un’altra saga, quella dei romanzi storici, peraltro molto belli. Maestro no, ma ambasciatore sì, di un’altra Sicilia: «Questo mi piace, ambasciatore di una realtà diversa da quella mafiosa. Ho ricevuto centinaia di messaggi da stranieri che idolatrano la Sicilia attraverso la dolcezza della memoria che conservo della mia terra. Non ho mai voluto scrivere di mafia, tranne una volta. Con i pizzini di Provenzano feci un libro. Ma tutti i proventi li donai agli orfani di mafia. Non ci volevo guadagnare una lira».
Un romanzo estremo, il nostro in costume, inquietante, che non mette il lettore nella condizione di comodità. Il protagonista è nato a Vigata ma è cresciuto a Genova e all’inizio parla in ligure stretto. La Liguria torna in Camilleri. Anche Livia, fidanzata di Montalbano è ligure: «È vero, amo Genova. E i genovesi. Quando posso la faccio tornare nella mia memoria aiutato dal suono della sua lingua. E poi nella storia vera, Leopoldo Franchetti, ispettore capo dei mulini che arriva in Sicilia e si trova ad affrontare marciume, omicidi e depistaggi che lo riguardano, era milanese. Mi cadevano le braccia per quel dialetto e allora l’ho fatto genovese».
E il western di Trinacria molto deve al linguaggio. Solo quando l’ispettore capisce che il dialetto è mentalità, è la chiave per capire un carattere, è l’humus storico culturale di un territorio, è giocare col nemico allo stesso tavolo (come sosteneva Falcone) allora parlerà solo in Siciliano e si salverà la vita. «Il dialetto diventa un espediente per comunicare in tanta zona ambigua».

Repubblica 23.2.18
Andrea Camilleri 

“Cosa invidio a Montalbano? Le triglie fritte”
intervista di Silvia Fumarola


ROMA Vuoi una camomilla?».
«No, grazie. Non accetto caramelle dalle sconosciute» dice ridacchiando Andrea Camilleri. La sconosciuta è la moglie Rosetta, al suo fianco da 60 anni. «Andrea, ho detto camomilla». «Ah, allora sì. La vuole anche lei?». Posacenere quadrato che contiene una discreta quantità di mozziconi di sigaretta — altri se ne aggiungeranno — sciroppo per la tosse sulla scrivania, un piccolo fax, lo scrittore più amato è seduto in una stanza che è la summa della sicilianitudine. Ceramiche, arazzi, un pupo fatto da Cuticchio a sua immagine e somiglianza, coppola in testa e sigaretta tra le dita. «Me l’ha regalato Antonio Sellerio» racconta. Piccoli scaffali ospitano libri e foto: in una è seduto tra Elvira Sellerio e Antonio, la testa di capelli rossi. «Sono tutti rossi in famiglia, anche i suoi figli. Ha preso dalla nonna russa».
Ha perso la vista e tutto, dice, deve stare al suo posto «perché grazie all’ordine ritrovo le cose. All’inizio ero arrabbiato ora convivo con questa cosa. Per esempio al bagno faccio tutto da solo: mi lavo, mi rado, esco perfetto. Certo, è seccante non essere del tutto indipendente quando sei sempre stato autonomo. Pesa». A 92 anni coltiva l’ironia e quella dote preziosa e vitale che in genere invecchiando sfuma, la curiosità.
«Mi fa piacere essere considerato l’ambasciatore di un’altra Sicilia rispetto a quella mafiosa, alla quale si è data troppa importanza» aveva detto in Rai, tra gli applausi.
«Mi sono sempre rifiutato di scrivere di mafia, tranne il libro sui pizzini di Provenzano, di cui però ho donato i proventi alla mia Fondazione. Diamo borse di studio ai figli di poliziotti vittime dei criminali. Non volevo guadagnare una lira sulla mafia».
Guai a dirgli che sarebbe fantastico se gli affidassero dieci minuti al giorno, in tv, solo per dire come la pensa. «Per carità!».
Le sue presentazioni degli episodi di Montalbano sono seguitissime, la sua riflessione contro i femminicidi è stata rilanciata sui social. Lunedì andrà in onda su Rai1 La mossa del cavallo- C’era una volta Vigata di Gianluca Maria Tavarelli, primo film tv tratto da uno dei suoi romanzi storici (editi da Sellerio), ambientato nel 1877.
Michele Riondino è Giovanni Bovara, l’ispettore capo inviato ai mulini di Montelusa per investigare sull’applicazione dell’imposta sul macinato (l’odiata tassa sul pane come veniva chiamata). Testimone dell’uccisione di un prete, viene arrestato e accusato dell’omicidio. Il rovesciamento dei ruoli lo costringe a una mossa imprevista: recupera il dialetto, parla come i suoi accusatori. «Come verrà accolto?» si chiede Camilleri accendendo l’ennesima sigaretta.
Il romanzo storico è più complesso di Montalbano.
«Bovara è assai più rigido di Montalbano, che qualche digressione ovviamente la fa. È un poliziotto di larghe vedute, ed è perfetto così. Allora sarebbe stato impensabile che potesse essere un carabiniere. E dire che oggi s’intrattengono con le americane...».
Perché recuperare il dialetto
gli salva la vita?
«La lingua sono le radici comuni.
Bovara nasce in Sicilia ma cresce come genovese. Nel momento in cui viene messo spalle al muro dai compaesani ritrova il loro linguaggio, il senso delle parole e il “sottotesto” implicito nel dialogo dei siciliani».
Recuperando la lingua però si abbrutisce. Il giudice che lo interroga lo sollecita a parlare in italiano.
«È così, ma solo somigliando a chi lo accusa si salva, entra nella mentalità di chi lo vuole incastrare. Usa la sua “mossa del cavallo”, la più imprevedibile negli scacchi, salta schiere di avversari e agisce alle loro spalle.
Ma bisogna saperla usare».
Oggi cosa consiglierebbe alla politica?
«Di fare un mossa così lunga da andare fuori scacchiera.
Facciamone una nuova e creiamo una politica che rispetti le regole.
Non c’è possibilità d’inganno nel gioco degli scacchi. Invece la politica ha perso la “p” maiuscola.
Questa non è una campagna elettorale, è uno scambio di insulti e false promesse».
Chi la delude di più?
«La parte in cui credevo. Perché gli altri continuano, con estrema coerenza, ad agire come hanno sempre fatto».
Ha detto che la sua più grande emozione è stata votare comunista.
«Essere comunista allora, al mio paese, significava qualcosa. Ero traditore del mio ceto, un reietto.
Lo capii perché una volta sentii mio padre dire a mia madre: “Ma che male ho fatto per avere un figlio comunista?”».
Il 4 marzo andrà a votare?
«Certo. Come ho fatto già per il referendum, seguendo la trafila.
Vado alla Asl dove mi visitano, poi mi danno il certificato per l’accompagno. Seccante però sono gentili. Viene mia figlia Mariolina in cabina, di lei mi fido».
Per chi voterà?
(Ride) «Umiliati e offesi. Poi naturalmente si alzano le braccia davanti alla Bonino e si rimpiange che non l’abbiano fatta Presidente della Repubblica».
Sa che per la Cassazione il saluto romano non è reato se ha intento commemorativo?
«Mi sembra un’imbecillità totale».
Parliamo di Montalbano?
«Parliamo».
Che impressione fa aver creato un personaggio amato da milioni di italiani?
«Mi ha procurato una quantità di affetto che mi commuove. Qui vicino c’è un grande mercato dove mi piaceva fare la spesa, ora non ci posso più andare. Una signora che lavora lì una volta alla settimana mi manda la caponatina siciliana, un’altra il ciambellone. Cose meravigliose, Rosetta viene indicata: è la signora Camilleri, la moglie di Montalbano».
Cosa invidia a Montalbano?
«Il fatto che mangi. Io non riesco a mandare giù le triglie fritte croccanti e soffro. Quando vado in Sicilia, Enzo il trattore me le spina e m’imbocca. Papà andava a pescare con la “traffinera” a sei punte, prendeva le triglie di scoglio. Alle tre del mattino le cucinavamo: chi mi ridarà quel sapore? Il rapporto con la Sicilia non finisce mai, me la porto in tasca».
Ci torna?
«Quest’anno se Dio — o chi ne fa le veci — vorrà, l’11 giugno sarò a Siracusa con uno spettacolo dedicato a Tiresia l’indovino cieco. Quindi sono in parte».

Corriere 23.2.18
«Stregato dalla Terza di Mahler. Ora la riporto alla Filarmonica»
Riccardo Chailly: Abbado la eseguì nel 1982 per il battesimo della neonata orchestra
di Enrico Parola


«Nel novembre del 1960 il grande Dimitri Mitropoulos morì su questo podio mentre provava la Terza di Mahler; e con la stessa sinfonia Claudio Abbado tenne a battesimo, nel 1982, la neonata Filarmonica».
Dirigendola stasera, Riccardo Chailly si inserisce direttamente nella storia della Scala, deciso a scriverne un nuovo, importante capitolo: la trionfali tournée in estate con Shostakovich e a gennaio con Ciajkovskij hanno certificato che sotto la guida del maestro milanese la Filarmonica ha definitivamente raggiunto un livello d’eccellenza internazionale. En passant ci sarebbe anche il suo 65º compleanno, che ha festeggiato martedì provando la Terza; Chailly però non indugia su bilanci e ricordi, cita la sua storia personale solo in relazione a questa sinfonia immensa: «La prima volta che l’ho ascoltata dal vivo fu proprio qui alla Scala, negli anni Settanta e ne rimasi folgorato: Abbado stava realizzando l’integrale mahleriana. Lavorando ad Amsterdam (è stato direttore principale del Concertgebouw dal 1988 al 2004, ndr ) ho potuto consultare la partitura con le annotazioni autografe di Mengelberg, che la diresse nel 1903 discutendone con lo stesso autore: sono riportati vari elementi non presenti nello spartito ma che Mahler evidentemente approvava; io li ho ricevuti succedendo a una dinastia illustre che da Mengelberg è arrivata a me passando per van Beinum e Haitink, e a mia volta li ho trasmessi in questi giorni ai professori scaligeri». Con i quali riprende un percorso su Mahler che in queste stagioni ha toccato prima, quarta, settima e nona sinfonia (proprio con quest’ultima debuttò con la Filarmonica) «e l’anno prossimo porteremo in tournée la sesta. Ma la terza, come l’ottava, è di una tale enormità che prima di riaffrontarla lascio passare un lungo periodo, mi do tutto il tempo necessario per pensare e approfondire».
Già il primo movimento offre significativi spunti di riflessione: «È di grandi dimensioni e per Mahler rappresentava la prima metà dell’opera: quando la diresse decise di fare un vero e proprio intervallo tra questo e gli altri cinque movimenti che unitamente formano la seconda parte. Ci vuole un silenzio non breve prima di attaccare l’assolo dell’oboe con cui inizia il secondo movimento, che ci trasporta in un mondo sonoro nuovo, più poetico e rarefatto». Oltre a rimarcarne le dimensioni, che ne fanno forse il movimento più ampio dell’intera storia della sinfonia, i musicologi hanno evidenziato la complessità e la varietà degli elementi di cui si compone; Chailly sottolinea «i tre importanti a soli di trombone: rimandano a qualcosa che sovrasta, che va oltre l’umano». Nel terzo movimento riecheggia il corno di postiglione, «strumento raro che dà l’impressione di una voce da lontano; e sappiamo quanto Mahler fosse attento ai suoni di natura e al timbro degli strumenti storici». Nel quarto Gerhild Romberger intonerà i versi da Così parlò Zaratustra di Nietzsche «in cui la spiritualità della musica si mostra nella sua infinita profondità», in quello successivo al mezzosoprano si affiancheranno il coro femminile e il coro di voci bianche per i versi tratti dal Corno magico del fanciullo .
Poi il grandioso finale in cui «le più grandi melodie formano un corale che si sviluppa attraverso tutte le sezioni dell’orchestra e si conclude in modo solare, anche se nel mezzo è citata la tempesta dall’ Otello : bisogna ricordare come Mahler amasse Verdi e oltre all’ Otello diresse Falstaff ».

il manifesto 23.2.18
La cultura nel disastro «capitale»
Agitazioni. Aria di tempesta al Teatro di Roma, uno dei sette nazionali, fregio «culturale» residuo della giunta Raggi, dopo la brutta storia del cinema estivo a Trastevere, scippato dall’assessore vicesindaco Bergamo.
di Gianfranco Capitta


Aria di tempesta al Teatro di Roma, uno dei sette nazionali, fregio «culturale» residuo della giunta Raggi, dopo la brutta storia del cinema estivo a Trastevere, scippato dall’assessore vicesindaco Bergamo. Mentre si addensano le voci di una conferma della direzione attuale per qualche astruso calcolo di vertice, scendono in campo i lavoratori dell’Argentina (per una volta uniti Cgil e Cisl) a denunciare la pratica impossibilità di continuare a lavorare. Non solo disordine organizzativo, discutibile divisione dei ruoli, contraddizioni della direzione, mancanza di una linea culturale quale che sia, addirittura intimidazioni ai limiti dell’aggressione, e perfino fuga di unità operative fondamentali che migrano altrove. Un disastro insomma, da rifondare dalle radici, come sa anche lo spettatore davanti alla locandina annuale, simile più che a un cartellone al registro di un b&b, e che non riconosce più neanche le maschere di sala. Una cultura davvero «capitale». Come una condanna.