il manifesto 28.2.18
Roberto Esposito, pubblicato da Einaudi, con Baruch Spinoza: Il negativo è il limite che attraversa la vita
Storia delle idee. «Politica e negazione. Per una filosofia affermativa»
Il filosofo si interroga su un’inarrestabile deriva nichilista e esplora le radici dell'alternativa di un pensiero affermativo. Una riflessione che porta la vita alla sua massima espansione senza sottrarsi a nessun conflitto. La scoperta di Spinoza per il quale la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. Quello del filosofo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita
di Roberto Ciccarelli
In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
ABBIAMO PERSO il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi – il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta – sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
SIAMO IN UN’«INARRESTABILE deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata – scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) – La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’E’ STATO UN TEMPO in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
POLITICA E NEGAZIONE è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
IL NEGATIVO RIGUARDA anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» – ovvero il conflitto, la contraddizione – non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
PER AFFRONTARE questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
OGGI POSSIAMO INTUIRE quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’APPRODO ALLO SPINOZISMO di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
SUL PIANO POLITICO questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
UNA «FILOSOFIA DELL’AFFERMAZIONE» non nega l’esistenza del conflitto – il negativo – né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
NELLA POLITICA novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
LA SOLIDARIETA’ E LA FRATELLANZA vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
Repubblica 28.2.18
Spin-doctor ante litteram
Le elezioni spiegate da Walter Benjamin
Il grande intellettuale tedesco pubblicò nel 1928 un saggio in tredici tesi, “a via del successo”. Un’analisi su come prevalere sugli altri
Scrive: “Il pubblico vuole univocità, un centro, un capo, uno slogan”. Sembra una critica all’attuale legge elettorale
di Stefano Bartezzaghi
Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo. L’inversione del senso comune non è la trovata di qualche spin-doctor odierno e non è contenuta in un manuale di self-help dei nostri tempi, tempi così votati a una cupa furbizia. È la prima delle tredici tesi che il filosofo Walter Benjamin racchiuse in poche pagine scritte (a proposito di cupezza) nel 1928 e intitolate: La via del successo. Dagli esempi che porta, si capisce che aveva in mente soprattutto il successo letterario. Ma della società di massa, allora nascente, aveva capito qualcosa che nemmeno novant’anni dopo si può dare per scontato.
Pensiamo alla politica italiana: se il «successo» è la popolarità e il «risultato» è la vittoria elettorale, il principio di Benjamin risulta meno paradossale. Berlusconi ha cominciato a vincere le sue prime elezioni presentandosi come «vincente», parola che dagli anni Ottanta è diventata più importante come sostantivo che come aggettivo: il vincente non è più colui che ha vinto, ma colui che è destinato a vincere.
Benjamin lo sapeva già e, coerentemente con questo principio, le sue «tesi» non sono polemologiche: non parlano di avere successo sugli altri ma delle condizioni individuali, e quasi spirituali, per «comprendere la lingua nella quale la fortuna ci rivolge la parola». Non conosceva Berlusconi e si può presumere che Berlusconi non conosca Benjamin, ma l’indomito «campaigner» di Forza Italia sembra essere sospinto da intuizioni molto simili. Il suo impiego elettorale dell’appellativo di «presidente» prescinde dall’impossibilità persino di essere candidato ma è utile a confermare un’immagine, perspicua e non ambigua: «La massa distrugge qualunque successo non appena questo le appaia oscuro, senza un suo valore istruttivo, esemplare».
Viene da pensare ai nostri simboli elettorali di un tempo: la croce, la falce e il martello, il sole nascente, persino la fiamma. Come una decorazione per un generale, o per un finanziere, «il suo palazzo» (su cui oggi campeggia l’insegna Trump Building), così l’aura di «presidente» per il prescindente Berlusconi: queste sono immagini univoche e, avverte Benjamin, non hanno nulla a che fare con la «trasparenza», che oggi si predica come valore cultuale.
Si pensa al Movimento 5Stelle, e alla ragione apparentemente oscura per cui la mancanza totale di curriculum dei suoi candidati non pare poterne frenare l’ascesa, quando Benjamin avverte che il successo dipende meno dalla saggezza e dalla preparazione che dalle doti di improvvisazione e che la sua ricerca ha meno a che fare con la volontà che con il gioco d’azzardo. Il candidato annulla la sua personalità come il giocatore si lascia rappresentare dalla fiche che mette sul tavolo verde.
Democrazia interna dei partiti, articolazioni di punti programmatici, coalizioni polifoniche? Benjamin sembra anche criticare il pasticcio pseudo-proporzionale della legge elettorale in vigore quando stabilisce, crudelmente, che il pubblico ha «fame di univocità»: «Un centro, un capo, una parola d’ordine». Forse queste annotazioni di quasi un secolo fa possono aiutare a capire il punto in cui si è esaurito il «momentum» di Matteo Renzi, fra la rottamazione degli esordi, l’accantonamento dell’articolo 18 e la mancata abolizione del Senato. Immagini negative, di cancellazione, da cui non ne è sortita, a contrasto, una positiva: una formula in cui identificarsi, un’immagine delineata e univoca a cui votarsi, e quindi per cui votare. Bene fanno i politici che non riservano le proprie energie alle occasioni maggiori. «Molto è innato, ma molto viene dal training» e quindi occorre esercitare il proprio carisma a ogni momento, affrontare anche le discussioni minori, non apparire sempre con gli occhi affissi alla meta ed essere amabili, soprattutto con i sottoposti. Stare in mezzo al proprio pubblico per amabilmente padroneggiare «la lingua del comando» che, assieme alla «formula della fortuna» è l’Apriti Sesamo del successo. Sia ben chiaro che, prosegue Benjamin con divertente disinvoltura, «imbrogliare è sempre possibile», ma solo per chi non si senta un imbroglione. Fa esattamente l’esempio del «cavaliere d’industria», il cui nome, le cui proprietà e pertinenze emanano una luce gradevole: quella della «buona fede», che non illumina invece il «povero diavolo».
Leggere oggi queste tesi, visionarie e quasi misteriche, costituisce una lezione durissima per ogni idea che si vorrebbe «razionale» della politica. Pensare alla posterità è vano, il successo ha il presente come unico orizzonte.
Pensare che esista qualcosa come una «giustizia» nella gloria è addirittura «farisaico» ed è «uno dei maggiori ostacoli a qualunque riuscita»: il successo arride a chi ne sa gioire indipendentemente dal merito. Un principio tanto beffardo dovrebbe peraltro indurci a interpretare correttamente l’ingannevole mito della «meritocrazia»: la si vende come il potere ottenuto con il merito, ma in realtà è il merito che si ottiene con il potere. La «gloria», che è la dimensione assoluta del successo, non è infatti un «sovrappiù», come fu in passato: «in un’epoca in cui qualunque misera scribacchiatura viene diffusa in centomila esemplari» (e allora non c’erano i social network) la gloria è necessaria, come una condizione di esistenza. Chi non ne ha, non esiste.
Giustizia, competenza, lungimiranza, trasparenza, verità, cultura: si stenta a credere che a farne strame sia stato un filosofo che (sia pure a modo suo) era comunista e scriveva in un’epoca politica che incubava totalitarismi e sterminî. Ma di fronte al «capriccio del gioco stesso del mondo» la dimensione etica a cui quei valori si richiamano ha l’efficacia predittiva e prescrittiva di un oroscopo. Quel che serve è proiettare un’immagine, non farsi sorprendere dal caso, esibire risultati già ottenuti, perché generino ulteriore successo.
Oppure lavorare perché la società di massa diventi diversa da come cominciava a essere all’epoca di Benjamin e come è finita per essere oggi. Che è proprio ciò che un giorno Charles de Gaulle dichiarò: «Vaste programme».
La Stampa 28.2.18
Dai Neanderthal all’Intelligenza Artificiale
L’odissea del pensiero non è affatto finita
Il filosofo Bostrom e il paleoantropologo D’Errico “Ecco le sorprese dal futuro e dal passato”
di Gabriele Beccaria
«Non c’è nulla di inevitabile per la nostra specie e per la nostra sopravvivenza. Anche gli ominidi intelligenti si estinguono, come è successo a tanti. I Neanderthal sono solo l’esempio più noto». Nick Bostrom è nel suo ufficio alla Oxford University e, parlando del presente iper-tecnologico e di un possibile futuro dagli esiti parossistici, si lascia provocare sul cuore di tenebra che l’ha reso celebre: noi umani un po’ distratti di fronte alle minacce epocali della Superintelligenza, l’insieme dei super-poteri cognitivi generati dagli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale.
È un pomeriggio di fine febbraio, a Oxford, e qualche giorno prima, a Torino, nella lezione di GiovedìScienza, Francesco D’Errico si era detto convinto che il 22 febbraio 2018 sarà una data da ricordare, anche se molti - preda della distrazione - la ignoreranno. «Un articolo su “Science” rivela che l’arte rupestre non è solo un nostro retaggio. Si è scoperto in tre grotte della Spagna che è stata propria anche dei Neanderthal - dice, elencando una cascata di messaggi provenienti da 65 mila anni fa -. Impronte in negativo di mani, motivi astratti e una stalagmite dipinta di ocra». E suggerisce un altro cuore di tenebra: noi umani un po’ presuntuosi e la fine dell’ineffabile senso di superiorità che finora ci suggeriva un termine tanto impegnativo come Sapiens.
Nick Bostrom e Francesco D’Errico sono studiosi accomunati dall’interesse per declinazioni diverse ma complementari dell’intelligenza. Uno è un filosofo, professore di etica applicata, l’altro è un paleoantropologo, professore all’Università di Bordeaux. Il primo porta sulla scena gli universi inattesi dell’Intelligenza Artificiale, il secondo gli universi del pensiero delle origini. E a sorpresa i Neanderthal, la specie scomparsa 35 mila anni fa dall’Europa dopo una convivenza forzata con noi Sapiens, stabiliscono un sottile filo rosso tra l’erratica evoluzione dei neuroni e le cangianti prospettive dei software. Se un cervello sofisticato non bastò ai Neanderthal per competere con noi Sapiens, il nostro, che ha imboccato altre strade cognitive, potrebbe non bastare per competere con le reti pensanti di prossima generazione. Forse i Neanderthal ci sottovalutarono con disastrosa leggerezza così come oggi si tende a sottovalutare l’impatto rivoluzionario delle tecniche automatiche di apprendimento che vanno sotto il nome di «machine learning» e «deep learning». Eguagliati dai cugini ominidi, che con l’arte raggiunsero quello che consideriamo il vertice dell’immaginario, e pressati dalle menti sintetiche, che potrebbero eliminarci come si fa con gli insetti infestanti, dobbiamo riconoscere che è il momento di rivedere i concetti di intelligenza e creatività a cui siamo tanto affezionati?
Mentre intravede possibili parallelismi tra storia profonda e presente del XXI secolo, Bostrom sottolinea le differenze, scatenate - sottolinea - anche dal suo lavoro di previsione e provocazione, sintetizzato nel saggio «Superintelligenza», pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Da allora le paure suscitate da super-computer autonomi, androidi pensanti e cyborg chimerici hanno preso forme definite. E hanno trovato casa negli istituti multidisciplinari creati dallo stesso Bostrom, solennemente chiamati «The Future of Humanity Institute» e The Strategic Artificial Intelligence Research Center». «Uno rappresenta la madre di tutto, il secondo una sorta di modulo: è un passaggio transizionale verso quella che definiamo la “governance” dell’Intelligenza Artificiale - spiega -. Ci focalizziamo sui suoi impatti, sociale, politico e strategico, e in contemporanea studiamo altri aspetti, come la biosicurezza e quello più tecnico delle trasformazioni delle architetture dei computer, vale a dire la loro “scalabilità”». Capire, interpretare, prevedere. Al di là degli allarmi apocalittici che si conquistano titoloni sui giornali e catalizzano gruppi di discussione sui social, Bostrom propone così una ricetta cognitiva di analisi e profezie. E di coinvolgimento collettivo, dagli specialisti che assemblano gli algoritmi ai governi che dovranno regolarli.
È questa intelligenza condivisa e mutevole che D’Errico indaga nel passato primordiale e di cui individua le tracce persistenti che approdano fino all’era di Internet e dei saperi «crowdsourcing», autoalimentati da contributi spontanei e non regolati. «Probabilmente - racconta - noi Sapiens raggiungemmo un livello sociale più elevato dei Neanderthal. Eravamo non solo più numerosi, ma più organizzati». Il che significa scambi strutturati di oggetti e utensili a lunghe distanze, in una sorprendente anticipazione cavernicola della società globalizzata dei pronipoti.
È alla base di questi commerci di punte di freccia e arpioni, di perle decorative e, con loro, di valori simbolici e storie tribali oggi perdute, che ipotizza un intermittente rapporto di contaminazione tra l’intelligenza e un florilegio intellettuale ancora più impalpabile che è la creatività. «Questa, non sempre, è stata apprezzata: diventa un valore a partire dal Rinascimento e in particolare in Occidente, mentre le società tradizionali dei cacciatori-raccoglitori tendono a essere rigide». Di rado accolgono l’innovazione individuale e quindi le idee ribelli: succede - spiega D’Errico - sotto la spinta di esigenze improvvise e di vere emergenze, scatenate dalle mutazioni degli habitat e dalle oscillazioni del clima.
Emergenze ambientali all’epoca dell’ultima glaciazione ed emergenze tecnologiche nell’era dell’Intelligenza Artificiale. Prima di intervenire con regole che impediscano un’incontrollabile deriva dell’high-tech, Bostrom suggerisce più ricerca e contributi creativi per ideare possibili soluzioni del problema dei problemi: come affrontare l’intreccio dei vantaggi e dei rischi della Superintelligenza? «L’Onu discute di un trattato contro i robot-killer e molti governi si interrogano su come diffondere le applicazioni benefiche dei software, dalla sanità alle auto a guida autonoma, fino alla condivisione dei dati sensibili. Senza dimenticare la gestione di temi come la sorveglianza, la privacy e la “discriminazione algoritmica”, che si verifica quando le forze di polizia vengono concentrate in specifiche aree, basandosi su modelli preordinati di eventi criminali». Un decennio fa - aggiunge - una sensibilità simile era impensabile, mentre oggi «molti studenti scelgono l’Intelligenza Artificiale invece della fisica e nelle università si organizzano corsi dedicati».
Bostrom considera questa svolta come un «upgrade» intellettuale, causa ed effetto dell’accelerazione della ricerca teorica e applicata. «I progressi sono stati più rapidi del previsto, con pietre miliari come AlphaGo e il riconoscimento delle immagini, passando per la rivoluzione del “deep learning”». Dal 2014, data della prima edizione di «Superintelligenza», ulteriori frontiere si sono aperte, manifestandosi con nomi esotici: macchine neurali di Turing, «reinforcement learning» o «Bayesian hyperparameter optimization».
I neuroni artificiali, instancabili, non fanno che migliorarsi, sebbene non tutte le loro prestazioni siano pienamente decifrabili, come avviene con le logiche di alcune associazioni: relegate nelle «black box», queste scatole nere funzionano in modo autonomo e iperveloce. Impenetrabile, appunto. A differenza dei neuroni biologici, che sotto l’attacco di neuroscienze e archeologia cedono i loro segreti. La nostra storia cognitiva - sintetizza D’Errico - si dipana su tre elementi: «L’esattazione culturale, cioè la capacità di riutilizzare una precedente innovazione per un nuovo scopo, i mezzi di trasmissione e, quindi, lo scambio dei simboli e, terzo, la plasticità mentale, vale a dire la capacità del cervello di trasformarsi in tempi rapidi».
Non si tratta più del meccanismo darwiniano classico. Invece che l’emersione, una volta per tutte, di un’intelligenza superiore, la nostra, «si afferma un diverso paradigma»: la mente si rivela plurale e disegna un cammino di conquiste e sconfitte, di acquisizioni e perdite, come una successione di onde, implacabili da 300 mila anni. Noi, i Neanderthal, le Super-macchine. Il ciclo è destinato a proseguire.
Repubblica 28.2.18
Elementi per una matematica della fede
di Piergiorgio Odifreddi
Benché apparentemente lontane, matematica e fede sono legate da una gran quantità di numeri: l’1 nel monoteismo, il 2 nella dualità tra il bene e il male, il 3 nella Trinità, il 4 nei Vangeli, il 5 nelle ferite di Cristo in croce, il 6 nei giorni della creazione del mondo, il 7 nei peccati capitali, l’8 nelle beatitudini, il 9 nelle novene, il 10 nel Decalogo, il 12 negli apostoli, eccetera. Il campione della numerologia teologica è stato Agostino, che arrivò a dire: “Togli i numeri alle cose, e tutte periranno”.
I numeri ci aiutano anche a misurare la fede e a monitorarne i cambiamenti, come nella recente indagine condotta dalla Community Media Research del sociologo Daniele Marini. Nel 2000, ad esempio, in Italia si dichiarava formalmente cattolico il 79,2% della popolazione, mentre nel 2017 la percentuale è scesa al 60,2%. E mentre nel 2000 il 49,6% dei cattolici dichiarati praticava assiduamente i riti e le funzioni religiose, oggi solo il 25,6% lo fa.
Viceversa, coloro che dichiarano di non aderire ad alcuna religione sono saliti dal 18,8% al 33,4%. E coloro che si definiscono materialisti sono il 49,6%, a fronte di un 34,5% che si definisce religioso e/o spirituale. A conferma del fatto che anche in Italia, come nel resto del mondo occidentale, la società si sta sempre più secolarizzando e despiritualizzando, anche a causa del diffondersi della cultura tecnologica e scientifica, e nonostante la scarsa attenzione che questa cultura spesso riceve nelle scuole e nei media.
Il Fatto 28.2.18
I comitati del No: “Non votate chi voleva stravolgere la Carta”
Il coordinamento per la democrazia costituzionale, cioè i Comitati per il No dei “professori” al referendum de 2016, ha diffuso un appello agli elettori perché non scelgano l’astensione, ma nemmeno chi ha tentato di manomettere la Carta: ritorna, dicono, “in molti programmi elettorali la volontà di non tenere in considerazione la volontà popolare espressa col voto del 4 dicembre. Per questo, pur comprendendo la sfiducia ed il disagio di fronte alla crisi di una politica e di una classe dirigente, non è tempo di stare alla finestra: il colpo di mano realizzato nel 2012 con la riforma dell’art. 81 potrebbe ripetersi se non ci sarà in Parlamento il massimo numero possibile di parlamentari fedeli alla Costituzione”. L’invito, in sostanza, è “a non votare i partiti e i parlamentari che hanno tentato di manomettere la Costituzione e approvato questa legge elettorale. Chi ha voluto questa legge elettorale si è reso responsabile di una grave ferita democratica, mentre oggi è prioritario superare l’abisso di sfiducia tra rappresentanti e rappresentati, che rischia di diventare una vera e propria delegittimazione dell’istituto parlamentare, centrale nella nostra Costituzione”.
Il Fatto 28.2.18
Il berlusconismo ha già vinto
di Eugenio Ripepe
La stampa ha dato maggior rilievo alla dichiarazione di Scalfari di preferire Berlusconi a Di Maio, che non a quella di ritenere lo stesso Berlusconi “adatto alla cosa pubblica”, che era invece ben più impegnativa. Perché ognuno è libero di preferire qualcuno a qualcun altro, come pure di credere a uno invece che a un altro – per esempio a quello che di Berlusconi dice Berlusconi, invece che a quello che di Berlusconi dice Travaglio – ma da chi all’improvviso dice il contrario di quello che ha detto per vent’anni e forse più, uno straccio di motivazione si dovrebbe pur pretendere.
Cosa è cambiato, per giustificare un revirement così clamoroso? Scalfari lo spiegherà se e quando, ispirandosi a Rousseau – che in Rousseau giudice di Jean-Jacques volle dimostrare la coerenza nascosta dietro le sue contraddizioni – metterà mano a un suo Scalfari giudice di Eugenio. Per noi, e per ora, delle due l’una, come amano dire i causidici: o è cambiato Berlusconi o è cambiato Scalfari. Il primo, se è cambiato, certo non è cambiato in meglio, visto che ha continuato a combinarne di tutti i colori con ritmo crescente. Ma che altro dovrebbe fare di più un pover’uomo – o ricco che sia – per essere dichiarato “inadatto alla cosa pubblica”? A tacer d’altro, come pure amano dire i causidici, basti pensare che lui e gli altri del trio, anzi della triade inizialmente al vertice di F. I. non possono più neanche essere definiti personaggi spregiudicati dai loro detrattori per il semplice motivo che sono ormai tutt’e tre pregiudicati a pieno titolo. A cambiare deve essere stato quindi Scalfari, il quale dovrebbe spiegare al se stesso di prima come si possa ritenere “adatto alla cosa pubblica” un signore inibito per legge a ricoprire cariche pubbliche, se non dando per scontato che l’illegalismo di Berlusconi sia davvero una mostruosa invenzione della magistratura per eliminarlo, in combutta con gli autori dei 5 o 6 (il conto preciso si è perso) colpi di stato orditi a suo danno. Il dubbio allora è: sarebbe possibile trovare normale il fatto che Scalfari trovi normale dire quello che dice, se la Weltanschauung berlusconiana non avesse ormai conquistato l’Italia? Un dubbio avvalorato dalla vicenda delle firme occorrenti alla lista Bonino per prendere parte alle elezioni. La Bonino pretendeva di essere esentata da questo adempimento assumendo che l’esistenza del partito radicale non ha bisogno di essere comprovata raccogliendo firme. Solo che la sua non era una lista del partito radicale, il quale anzi, come si sa, invita a non votare per nessuno, quindi neanche per lei (che coi suoi ex compagni, oltre all’invidiabile certezza di avere sempre ragione, e alla meno invidiabile convinzione che non si parli mai abbastanza o abbastanza bene di loro per una qualche congiura cosmico-storica, sembra ormai avere in comune solo certi vezzi linguistici: “quest’oggi”, “quant’altro”, “fare i tavoli” ecc.).
L’altra tesi della Bonino era che la legge da lei contestata non dovesse essere applicata perché altrimenti la sua lista si sarebbe trovata in difficoltà, e quanto meno a essa si dovesse concedere una deroga con una norma ad hoc; soluzione caldeggiata anche da alcuni critici della legislazione ad personam berlusconiana, senza avvedersi che la norma ad hoc, sarebbe stata anche una norma ad personam (o, per così dire, ad listam).
Nemmeno questo argomento ebbe il successo sperato; ma, come nelle fiabe, ecco infine arrivare un principe azzurro nelle vesti di un deputato disposto a testimoniare che nell’ultima legislatura la lista della Bonino era stata rappresentata in parlamento da lui, all’insaputa di entrambi, oltre che del resto del mondo. “E tutti risero”, come nel film di Bogdanovich: non perché la cosa apparisse ridicola, ma per la soddisfazione di vedere gabbata l’iniqua legge: urrà! bene! bravi! bis!
In prima fila, tra i plauditores, tanti (ex?) anti-berlusconiani entusiasti di fronte a una furbesca umiliazione del diritto che prima li avrebbe fatto indignare. Il che non può non rafforzare il timore che il berlusconismo abbia ormai conquistato l’Italia. Qualche scettico blu diceva però che la soluzione sapeva di contratto in frode alla legge, e che si era assistito a un volgare matrimonio d’interesse. Ma come, non lodavano tutti il principe azzurro per il suo beau geste? “Eh, ci avrà avuto la sua bella convenienza anche lui” non avrebbero mancato di dirsi le sagge azdore romagnole di una volta. E a ragione, perché se la beneficata aveva ottenuto di partecipare alle elezioni aggirando la legge, al beneficante ne era derivata la possibilità di rientrare nei giochi (e anche nel parlamento) dai quali sembrava ormai tagliato fuori. A proposito della Bonino, comunque, sia consentito darle atto en passant di non aver nascosto, né prima né dopo, la sua disponibilità a collaborare sia col Pd. sia con FI pur di perseguire gli obiettivi che le interessano. Come dire che Renzi e Berlusconi per lei pari sono. E magari ha pure ragione.
Il Fatto 28.2.18
Matteo, ovvero lo smemorato del Nazareno
di Silvia Truzzi
La paura, si sa, tende a fare brutti scherzi. Senza dire che, caso mai uno fosse superstizioso, bisogna fare i conti pure con un’angosciante coincidenza di date (4 dicembre-4 marzo). Sarà per questo che il nostro coriaceo Matteo Renzi si mostra, in questi ultimi scampoli di campagna elettorale, assai confuso. Anzi, proprio smemorato.
Lunedì mattina,durante un’intervista a Sky, ha spiegato che anche in caso di sconfitta lui non farà passi indietro. E qui, si badi bene, per sconfitta non s’intende che i Cinque Stelle saranno il primo partito o il centrodestra la prima coalizione, ma che il Pd scenderà sotto la soglia di sopravvivenza del segretario, che si è abbassata dal 25% di qualche tempo fa (la cosiddetta “soglia Bersani”) al più recente 20. Gli ultimi sondaggi davano il Pd al 22%: sono solo sondaggi, vero, ma del resto lo erano anche quelli che davano il No in netto vantaggio, nonostante la propaganda del Nazareno facesse trapelare notizie trionfali sul successo del Sì. Sorti personali a parte (saranno poi fatti del Partito democratico e dei suoi militanti), Renzi è tornato a parlare proprio del referendum: “Se il 5 marzo non ci sarà maggioranza è anche perché si è voluto dire di no a una riforma costituzionale che semplificava il sistema elettorale”. Oibò. E pensare che noi eravamo proprio convinti di aver votato contro l’abolizione del Senato eletto dai cittadini e lo stravolgimento di un terzo della Costituzione, riscritta così male che manco il libretto d’istruzioni della lavatrice. In realtà Renzi stesso era convinto che il quesito riguardasse, come in effetti era, la riforma costituzionale. Guardate cosa diceva il 9 giugno 2016, ancora premier, mentre si trovava al summit Nato di Varsavia: “Edi Rama, il premier albanese che ogni mattina legge tre giornali italiani, mi dice: dai Matteo e cambiala questa legge elettorale se vuoi vincere il referendum. Ho dovuto faticare non poco per fargli capire che il referendum non è sulla legge elettorale, è su altro, sulla riduzione del numero dei parlamentari, sulla fine del bicameralismo, chi vota Sì è per cambiare le cose, chi vota No le lascia come sono oggi con il Parlamento più costoso e con le procedure più contorte fra tutti i Paesi Nato”. E aggiungeva: “Non essendo oggetto del referendum non capisco perché si colleghi la legge elettorale con il referendum”.
In effetti quella legge elettorale, l’Italicum, era stata approvata a colpi di fiducia nel 2015 con un’entrata in vigore differita a luglio 2016. Al di là di tutto, bisognerebbe dotare lo smemorato del Nazareno di qualche post-it: l’Italicum (disegnato con un premio di maggioranza che scattava al superamento del 40%, cioè sulla base della vittoria del Pd alle Europee 2014) valeva comunque solo per la Camera. E in ogni caso la legge che “mezza Europa” ci avrebbe copiato (dichiarazioni di Renzi e Boschi, marzo 2015) è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta un anno fa, motivo per cui è stata partorita – in fretta e furia e sempre a colpi di fiducie parlamentari – questa meravigliosa nuova legge detta Rosatellum con cui ci apprestiamo a votare domenica. Ma, ancora prima di venire battezzata, già si parla apertamente di cambiarla perché “produce ingovernabilità”. Addirittura si dice che potrebbe essere l’oggetto sociale di un eventuale governo di scopo: rifare la legge elettorale e poi tornare al volo alle urne. Domanda ai cosiddetti leader: ma voi, oltre a prenderci in giro con dichiarazioni che stravolgono la realtà dei fatti, esattamente che lavoro fate?
Il Fatto 28.2.18
Giornali liberi. La “fu” Unità e il Fatto uniti dal senso di comunità con i lettori
di Daniela Serroni
Oggi guardando The Post ho spesso pensato a voi. Mi sono commossa per un film che nessuno definirebbe strappalacrime; sarà stata l’età, o sarà stata la sensazione di come certi valori che ritenevo universali si vadano pian piano spegnendo. Nell’estate 2002 per non voler acquistare lo stesso quotidiano che mi obbligava a comprarci anche qualcos’altro, presi l’Unità che avevo abbandonato per protesta da più di dieci anni, da quando cioè decisero di togliere “Organo del Partito Comunista Italiano” dalla testata.
Oggi non mi interesserebbe più un quotidiano che si definisca “organo di partito”, eppure a pensarci bene forse in quel contesto era proprio quella l’affermazione meno ipocrita possibile.
Mi piacque così tanto quell’Unità di Furio Colombo, così aperta a tutte le sfumature della sinistra e così genuina, che per la prima volta in vita mia ci feci l’abbonamento.
Ero orgogliosa di leggere L’Unità e di mostrarla bella spalancata mentre la leggevo. Un amore consolidato con la direzione di Padellaro e che vedevo ricambiato.
Un giornale ricambia l’amore e la fedeltà dei propri lettori offrendo loro le notizie senza censure. Così quando il cambio di proprietà spinse i miei giornalisti preferiti a fondare Il Fatto Quotidiano li ho seguiti e li ho visti crescere. Il meglio di quell’Unità ho continuato a trovarlo sul Fatto Quotidiano. Condivido al cento percento la linea politica del Fatto, che è la Costituzione. E mi piace continuare a trovare sul Fatto anche altri punti di vista che mi aiutano a riflettere. Avevo già letto su questo giornale, e apprezzato, il commento di Padellaro sul film di Spielberg. Soprattutto trovo deprimente considerare che mentre il Post rivendicava il proprio diritto di fronte al governo degli Stati Uniti, oggi in Italia paradossalmente abbiamo giornalisti pronti a rinunciare, più o meno liberamente, alla libertà di stampa.
Daniela Serroni
Cara signora Serroni,la sua lettera è davvero un colpo basso, perché chi le risponde ha iniziato a lavorare a L’Unità, quando ancora era “organo del Pci”. Sì, eravamo, e dichiaratamente, un giornale che era parte di una comunità. “C’è il compagno de l’Unità”, sentivi dire quando arrivavi davanti a una fabbrica in crisi, o in un paese del Sud dove si lottava (senza Facebook, social e tv) contro un boss di mafia o di camorra. Le assicuro che è stata una esperienza di vita enorme. Colombo e Padellaro, con la loro direzione, puntarono proprio su questo aspetto del giornale comunità. Un solo ricordo: la grande manifestazione di San Giovanni contro il governo Berlusconi e il giornale agitato da migliaia di persone come una bandiera. La prima inchiesta contro il sistema De Luca (Crozza non c’era ancora) la pubblicò Padellaro. Quel giornale non piaceva ai “realisti” (ricordo alcune deprimenti riunioni con Fassino) e venne combattuto in tutti i modi dai dirigenti del Pds e soprattutto dei Ds. Lo stesso spirito ho ritrovato al Fatto, la stessa connessione con i lettori. Non ho parlato del film e lo spazio è finito, però abbiamo parlato tanto di giornali e di libertà.
Enrico Fierro
il manifesto 28.2.18
Lo sciopero dei Patriarchi
Gerusalemme. Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Barkat costretti a fare marcia indietro di fronte alle proteste dei leader religiosi cristiani contro l'imposizione delle tasse sulle proprietà delle Chiese nella città santa
Oggi riapre il Santo Sepolcro chiuso nei giorni scorsi in segno di protesta.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME La notizia della retromarcia del governo di Benyamin Netanyahu e del sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, decisi ad imporre tasse sulle proprietà delle Chiese, è giunta ieri intorno alle 17 mentre Abuna Simon stava recitando assieme a centinaia di fedeli le preghiere davanti al pesante e antico portone di legno del Santo Sepolcro. «Abbiamo vinto» ha urlato in arabo una palestinese cristiana di mezza età facendosi il segno della croce. «Gli israeliani hanno ceduto, sapevamo che non avrebbero potuto commettere questo crimine», ha aggiunto un altro fedele. Ha festeggiato anche la musulmana Miral, con l’hijab, rimasta tutto il giorno seduta davanti all’ingresso del Santo Sepolcro stringendo tra le mani una copia del Vangelo e una del Corano. «Sono felice per i nostri fratelli cristiani», ha detto «quando musulmani e cristiani sono uniti possono difendersi e vincere». Se lo scorso luglio il governo Netanyahu fu costretto, dopo un lungo braccio di ferro, a cedere alla pressione di decine di migliaia di palestinesi musulmani che per giorni avevano occupato le strade di Gerusalemme chiedendo la revoca delle misure di controllo israeliane sulla Spianata delle Moschee, il passo indietro di ieri è considerato nel quartiere cristiano della città vecchia di Gerusalemme una «vittoria per i palestinesi cristiani». L’analista Wadie Abu Nassar, in passato portavoce del Patriarcato Latino in Terra Santa, ci dice che «è più giusto parlare di vittoria della giustizia che evita un’altra crisi nella città, in aggiunta a quella causata dal riconoscimento fatto da Donald Trump di Gerusalemme come capitale d’Israele».
Le autorità israeliane provano a chiudere il conflitto con le Chiese cristiane che rischiava di provocare gravi tensioni e incidere sul turismo religioso ad un mese dalla Pasqua. A spaventare Netanyahu e Barkat è stata la decisione di chiudere il Santo Sepolcro annunciata domenica dalle Chiese cattolica, greco ortodossa e armena. Una misura senza precedenti. Un documento congiunto diffuso nei giorni scorsi dal Custode della Terrasanta Francesco Patton, il Patriarca greco ortodosso Teofilo III e il Patriarca armeno Nourhan Manougian, denuncia la «flagrante violazione dello status quo» religioso di Gerusalemm, la «rottura degli accordi esistenti e gli obblighi internazionali» e la «campagna sistematica di abusi contro le Chiese e i Cristiani». Per tanti palestinesi cristiani il passo delle autorità israeliane di far riemergere, in questo momento, la questione delle tasse non sarebbe altro che una «rappresaglia» per la condanna della dichiarazione di Trump giunta dalle Chiese più importanti.
Ora Israele cercherà una soluzione, ha annunciato l’ufficio del primo ministro, aggiungendo che il comune di Gerusalemme ha sospeso la richiesta delle tasse e che è congelata la proposta di legge in discussione alla Knesset sulle proprietà delle Chiese. Il negoziato è affidato ad una commissione presieduta dal ministro Tzachi Hanegbi di cui fanno parte rappresentanti dei ministeri delle finanze, degli esteri, dell’interno e del comune di Gerusalemme che parla di tasse “arretrate” e debiti per circa 150 milioni di euro. In questi ultimi tempi il comune ha anche intensificato avvisi e ordini di sequestro delle proprietà delle Chiese e di conti bancari. La legge congelata (per ora) invece autorizza il governo ad espropriare terreni di Gerusalemme venduti dalle chiese a società immobiliari a partire dal 2010, quindi in modo retroattivo su contratti finalizzati anni prima. «Tutto questo», ha commentato il Patriarca greco ortodosso Teofilo III «ci riporta alla mente leggi di simile natura che furono emesse contro gli ebrei durante periodi oscuri in Europa».
Qualcuno ha paragonato il contenzioso tra Israele e cristiani a quello tra Italia e la Santa Sede sulle proprietà immobiliari e commerciali oltre il territorio vaticano. E ha sottolineato che il sindaco di Gerusalemme non vuole tassare i luoghi di culto ma le attività commerciali legate alle istituzioni religiose cristiane. Il paragone è improponibile. Gerusalemme non è Roma. Gerusalemme ha uno status di città internazionale per le Nazioni Unite, non è la capitale d’Israele ha ribadito la recente risoluzione approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu dopo la dichiarazione fatta da Trump. Status che ha ribadito ieri da Amman l’Alta rappresentante della politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini: «Gerusalemme è una città santa per le tre religioni monoteiste e questo status speciale e il carattere della città devono essere preservati e rispettati da tutti».
«Dopo il comunicato del governo israeliano dobbiamo concordare una risposta comune con le altre Chiese, che arriverà nelle prossime ore», ha annunciato ieri sera padre Francesco Patton, Custode francescano di Terra Santa, commentando la decisione del governo Netanyahu. Patton ha previsto la riapertura del Santo Sepolcro, particolarmente affollato nel periodo quaresimale, con ogni probabilità già da oggi. In questi giorni fedeli e pellegrini giunti da tutto il mondo non potendo accedere al Sepolcro hanno pregato appoggiati al portone o ai battenti della chiesa. Su un muro del luogo santo, un manifesto ha invocato la fine «della persecuzione delle Chiese». Patton si è detto «dispiaciuto per il disagio causato ai pellegrini» ma, ha spiegato, «la nostra azione è stata una extrema ratio».
L’analista Wadie Abu Nassar da parte sua invita i palestinesi cristiani e le Chiese a non farsi illusioni. «C’è la Pasqua e questa crisi avrebbe avuto forte un impatto sul turismo, uno dei pilastri dell’economia (israeliana). Governo e comune di Gerusalemme ci riproveranno».
Il Fatto 28.2.17
Tasse, “persecuzione” cristiana
Il Comune chiede milioni di dollari di arretrati e i custodi della Terrasanta sbarrano il Santo Sepolcro. Netanyahu fa un passo indietro
di Fabio Scuto
Con una strategica ritirata ieri il premier Benjamin Netanyahu ha messo fine a una difficile contrapposizione fra la municipalità di Gerusalemme, il ministero delle Finanze israeliano e i massimi rappresentanti della Cristianità in Terrasanta.
Da domenica, con una decisione senza precedenti, per protesta contro le politiche fiscali del comune di Gerusalemme che chiede milioni di dollari di tasse arretrate dagli istituti religiosi, sono sbarrate le pesanti porte di quercia della Basilica del Santo Sepolcro alle migliaia di pellegrini e turisti che vi si affollano ogni giorno – specie in questo periodo di Quaresima -. Capendo che il grande manifesto sulle mura della Basilica nel cuore della Città Vecchia con la scritta “Stop The Persecution of Churches” non era una buona pubblicità per Israele, Netanyahu ha fatto annunciare ieri pomeriggio che il comune di Gerusalemme rinvierà la riscossione delle imposte dalle proprietà della Chiesa, mentre verrà congelato un discutibile disegno di legge alla Knesset sulle vendite dei terreni degli enti ecclesiastici.
La controversia sui Luoghi religiosi fra le Comunità cristiane e lo Stato d’Israele è da decenni materia molto aggrovigliata e difficile da dipanare anche per le commissioni bilaterali da anni al lavoro. Riguarda conventi, chiese, monasteri investiti dalla guerra, altri come il Cenacolo oggetto di controversia sul suo utilizzo (ai cattolici è permessa una sola funzione l’anno), cambio di uso e destinazione degli immobili, usucapione. Per tutta questa materia, l’annuncio di ieri pomeriggio: Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno istituito una squadra guidata dal ministro della Cooperazione regionale, Tzachi Hanegbi per tentare di formulare una soluzione condivisa. Nel frattempo ogni provvedimento sulla materia è da considerarsi archiviato mentre Hanegbi esaminerà la questione. “Israele – conclude il comunicato dell’ufficio del premier – è orgoglioso di essere l’unico Paese in Medio Oriente dove i cristiani e i seguaci di tutte le fedi hanno piena espressione di religione e fede”. Le autorità israeliane cercano di chiudere una vicenda che rischiava di provocare gravi tensioni e incidere negativamente sul fiorente turismo religioso ad un mese dalla Pasqua. Il ministero del turismo israeliano ha dichiarato a gennaio che 3,6 milioni di visitatori stimati in Israele nel 2017, circa 900.000 erano pellegrini cristiani.
La chiusura indefinita del Santo Sepolcro, una misura senza precedenti, era stata annunciata domenica dalla Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica. Nel loro documento congiunto, il Custode della Terrasanta Francesco Patton, il Patriarca greco ortodosso Teofilo III e il Patriarca armeno Nourhan Manougian, parlavano di “flagrante violazione dello status quo” di Gerusalemme e di “rottura degli accordi esistenti e gli obblighi internazionali”, denunciando una “campagna sistematica di abusi contro le Chiese e i Cristiani”. L’esenzione fiscale per i Luoghi santi in Terrasanta è un corollario di quello status quo che, a partire dalle capitolazioni del 1740, consolidò nel 1757 la gestione degli edifici appartenenti alle fedi cristiane di Terrasanta. Le esenzioni ancora oggi in atto trovano la loro “giustificazione” nelle centinaia di scuole cattoliche gestite dagli Istituti religiosi, nelle mense per bisognosi, nelle attività agricole per dare lavoro, nel sostegno in solido alle famiglie cristiane disagiate.
La Basilica del Santo Sepolcro nella Città Vecchia di Gerusalemme è un luogo che corre al ritmo del Medioevo, secondo una serie di regole senza compromessi ambientate a metà del XVIII secolo che generano una disputa continua tra le chiese che la gestiscono: cattolica, greco-ortodossa e armena, copto-egiziana, copto-etiope, siriaca. Le comunità cristiane controllano il Santo Sepolcro in una maniera che sembra sconcertante per gli estranei.
In Terrasanta i luoghi sacri nei secoli si sono trasformati in un litigioso condominio regolato da un intreccio di norme scritte, orali e sovrapposte, dove ciascuna delle confessioni si muove con sospettosa diffidenza nei confronti delle altre, e il Santo Sepolcro non fa differenza. Spesso nella Basilica è un susseguirsi di messe, processioni, e prassi più disparate. Basta la semplice sosta di un religioso “dove non è di sua competenza” o per un tempo superiore al codificato per scatenare anche lo scontro fisico, come ai tempi del Vecchio Testamento.
Corriere 28.2.18
Siria, fallisce anche il «corridoio umanitario» L’attacco continua e non arrivano gli aiuti
Civili intrappolati a Ghouta. Le Nazioni Unite: la Corea del Nord ha fornito armi chimiche a Assad
di L. Cr.
ERBIL (Iraq) Niente da fare. Niente tregua, niente «corridoi umanitari» e nessun tipo di evacuazione di feriti o invio di cibo per i 400 mila civili disperati di Ghouta. Già da lunedì era evidente che la risoluzione per i trenta giorni di cessate il fuoco, votata sabato scorso dal Consiglio di Sicurezza, non avrebbe funzionato. Ma anche la sua reinterpretazione minimalista imposta arbitrariamente da Putin per cinque ore di tregua quotidiane (nonostante l’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro avesse appoggiato la risoluzione Onu) si è sfasciata nelle bombe, sangue, feriti senza medicine, la fame, la paura e le accuse reciproche ancora prima di cominciare.
Risultato: nessuna pacificazione, bensì ancora morti e terrore per Ghouta, il quartiere alle porte di Damasco che dal 2011 è stato motore delle rivolte anti Assad e dal 2013 è sotto assedio da parte del regime appoggiato dagli alleati russo, iraniano e le milizie sciite dell’Hezbollah libanese. Bombardamenti che negli ultimi 9 giorni hanno provocato oltre 500 morti e più di un migliaio di feriti. E bombardamenti che potrebbero aver visto l’utilizzo da parte del regime anche di ogive chimiche al cloro. L’accusa arriva dai medici locali schierati con i ribelli (non è la prima volta). E viene rafforzata da un rapporto Onu citato dal New York Times , in cui si segnalano almeno una quarantina di invii segreti di agenti chimici da parte della Corea del Nord dal 2012 al 2017, che potrebbero aver contribuito al rafforzamento degli arsenali non convenzionali di Assad, nonostante questi ancora nel 2013 ne avesse annunciato lo smantellamento «totale».
Nella ridda di versioni reciprocamente contraddittorie che giungono dal campo, è possibile ricostruire che gli spari sono continuati dalla notte sino alle nove della mattina, quando avrebbe dovuto iniziare la tregua in versione russa e protrarsi sino alle due del pomeriggio. Ma, secondo le formazioni islamiche ribelli e tanti testimoni tra i civili, Assad avrebbe lanciato alcuni raid letali, che hanno impedito qualsiasi movimento per chiunque avesse cercato di evacuare verso il posto di blocco di al-Wafideen, tenuto dai soldati del regime. Per contro, sia i portavoce di Mosca che a Damasco chiariscono come gli stessi ribelli avrebbero sparato nella zona del «corridoio umanitario» da cui avrebbero dovuto arrivare anche gli aiuti Onu e venire evacuati un migliaio tra civili malati o feriti. Emerge evidente che i gruppi dell’estremismo islamico temono il ripetersi delle dinamiche di Aleppo alla fine del 2016, quando il regime e i suoi alleati manovrarono la tregua per catturare o eliminare il massimo numero di ribelli armati separandoli dai civili.
Corriere 28.2.18
Sesso con i cooperanti per un pezzo di sapone Ora l’Onu è sotto accusa
di Lorenzo Cremonesi
ERBIL (Iraq) Sesso in cambio di aiuti umanitari in Siria. Donne e ragazze, specie le più deboli, come orfane, vedove, sfollate con i bambini piccoli, costrette a «concedere favori personali» per ottenere cibo, una tenda, vestiti, un pezzo di sapone. E tutto ciò da personale locale impiegato dalle agenzie Onu. Difficile pensare a un crimine più odioso: quelle stesse organizzazioni che dovrebbero dare un briciolo di speranza a popolazioni disperate, prive di tutto, hanno loro rappresentanti che ricattano, abusano, violano le donne grazie alla loro posizione di forza e privilegio. La denuncia arriva scandalosa e ben documentata dalla Bbc per ironia della sorte nella giornata mondiale delle associazioni non profit e mentre cresce lo scandalo degli abusi che sta interessando alcune tra le organizzazioni non governative più importanti, come la britannica Oxfam.
Il pericolo è però quello di criminalizzare l’intero sistema degli aiuti umanitari, che resta fondamentale e vitale per aiutare le popolazioni investite dai conflitti e dalle crisi in tutto il mondo. Non a caso sono proprio le agenzie Onu e le organizzazioni di aiuto operanti in Siria a svolgere in questi giorni un ruolo cruciale per farci conoscere il dramma di Ghouta alle porte di Damasco. Come ripetono spesso i veterani Onu sul campo: «L’universo umanitario è fatto di santi, ma anche di cinici e persino criminali».
Ciò detto, le accuse della Bbc sono estremamente gravi. Si cita un rapporto interno del «United Nations Population Fund» (Unfpa) intitolato «Voci dalla Siria 2018» che parla di «donne e ragazze costrette a concludere matrimoni temporanei con ufficiali operanti per l’Onu con l’obbiettivo di ricevere razioni di cibo. Gli ufficiali chiedevano i loro numeri telefonici, si facevano portare nelle loro case per ottenere favori e spendere la notte con loro». Un fenomeno che pare fosse particolarmente diffuso nelle città di Daraa e Quneitra, nel sud della Siria. Le più esposte erano donne senza «protezione maschile». La cosa grave è che se ne parla da anni, almeno dal 2015. L’emittente inglese cita Danielle Spencer, operatrice umanitaria, la quale afferma di averne sentito sussurrare ripetutamente tra i profughi siriani in Giordania. A suo dire, particolarmente aggressivi erano i membri dei consigli locali delle due città siriane, che «non fornivano alcun tipo di assistenza se prima non avessero ricevuto favori sessuali». E il fenomeno era talmente diffuso che alcune donne decisero di non chiedere più alcun aiuto. La ragione? Quelle che lo ricevevano venivano stigmatizzate tra le loro comunità come «consenzienti» agli abusi dei funzionari corrotti. Nel giugno 2015 un rapporto interno dell’International Rescue Committee (Irc) effettuò un sondaggio dagli esiti sorprendenti: su 190 donne provenienti da quelle zone il 40% aveva subito una qualche forma di violenza sessuale. E, quando l’agenzia «Care» chiese di poter investigare, le agenzie Onu per i profughi (specie Unhcr e Cocha) lo vietarono, argomentando che era prioritario utilizzare il personale locale nei luoghi dove gli internazionali non potevano accedere.
«Si tratta di un problema antico e noto», spiega al Corriere un alto funzionario Onu in Iraq. «Sappiamo da anni che il ricorso ad agenzie locali in zone ad alto rischio per i funzionari stranieri comporta problemi di abusi e violazioni dei nostri codici di comportamento. Ma in certi casi non abbiamo scelta. In Siria è una costante, come del resto in Libia e in certe zone dell’Africa. Senza i locali gli aiuti non arrivano del tutto». Se ne parlava in Ciad tra il 2008 e 2011. Ma non occorre andare tra i disperati nelle zone di guerra per trovare fenomeni simili. La «Green Zone» di Bagdad nel 2012-13 fu scossa da gravi scandali interni quando venne alla luce che alcuni responsabili Unami (la missione Onu in Iraq) e del World Food Program ricattavano le funzionarie locali: il rinnovo dei contratti in cambio di sesso. Il fenomeno è amplificato in certi casi per le agenzie non governative internazionali, specie le minori, dove può capitare che il personale non sia stato selezionato con l’attenzione dovuta. A Kabul il giro di prostitute cinesi alimentato dai volontari internazionali, assieme alla diffusione dell’alcol nei locali degli stranieri, fu tra le cause delle violente rivolte popolari del 2006.
La Stampa 28.2.18
Il Pentagono lancia l’allarme
“La Russia può usare l’atomica”
Il sottosegretario alla Difesa: “L’esercito si addestra al nucleare” Cambia la strategia Usa, testati piccoli ordigni “per deterrenza”
di Paolo Mastrolilli
La Russia si prepara all’uso limitato delle armi atomiche in caso di conflitto, e gli Stati Uniti hanno cambiato la loro strategia nucleare proprio per prevenire questo rischio. A lanciare l’allarme è stato il vice sottosegretario alla Difesa David Trachtenberg, incaricato di gestire le scelte di policy del Pentagono, durante un convegno organizzato lunedì dalla Heritage Foundation, una delle think tank conservatrici più vicine all’amministrazione Trump.
Cambia la dottrina
«Noi - ha spiegato Trachtenberg - siamo estremamente preoccupati per quella che abbiamo visto come l’evoluzione della politica militare russa, riguardo al potenziale uso delle armi atomiche». Quindi ha chiarito i dettagli dell’allarme: «La dottrina nucleare di Mosca sembra considerare attivamente la possibilità di un uso limitato di queste armi. In certi casi, le recenti esercitazioni militari russe hanno incluso un livello di attività che coinvolgeva le forze nucleari, come non lo avevamo visto dall’epoca più intensa della Guerra Fredda. Alcune operazioni hanno compreso l’uso simulato di armi atomiche, come parte di quella che viene definita una “escalate to deescalate strategy”», ossia la strategia di accelerare lo scontro per fermarlo.
La rivelazione del dirigente del Pentagono è sorprendentemente esplicita: i russi considerano realistica la possibilità di usare il loro arsenale nucleare, e si sono preparati a farlo, simulandone l’impiego nel teatro di guerra. Questo ha spinto gli Stati Uniti a cambiare la loro strategia, attraverso la revisione della «Nuclear Posture Review», appena pubblicata dal Pentagono. Il documento rilancia il ruolo delle armi atomiche, sollecitando in particolare lo sviluppo di quelle definite a «low intensity«, cioè piccoli ordigni tattici più facili da usare. Quando era uscito, gli osservatori lo avevano interpretato come una pericolosa accelerazione verso potenziali conflitti nucleari, ma Trachtenberg ha spiegato che in realtà il processo della sua elaborazione è stato l’inverso: «L’obiettivo delle nostre raccomandazioni è impedire una guerra, non combatterla. Se le armi nucleari vengono impiegate in un conflitto, è perché la deterrenza ha fallito. Lo scopo della Nuclear Posture Review del 2018 è proprio garantire che la deterrenza non fallisca».
La Guerra Fredda
In sostanza un ritorno alla strategia della Guerra Fredda, generata dal timore che Mosca sia pronta ad usare gli ordigni atomici, nella nuova versione a potenza limitata. E non soltanto Mosca: «Il nostro proposito ora è eliminare dal pensiero non solo della leadership russa, ma di qualunque potenziale avversario, la nozione che possa esistere un qualche livello di conflitto o di escalation da intraprendere, senza esporsi al rischio di una risposta commisurata». In altre parole, Washington ha osservato le esercitazioni in cui Mosca si è preparata ad usare le armi nucleari a bassa intensità, e ha reagito rilanciando lo sviluppo delle proprie, per chiarire che l’eventuale impiego di questi ordigni sarebbe seguito da una rappresaglia analoga. Una linea molto simile a quella della deterrenza, scelta durante la Guerra Fredda per scoraggiare l’uso di bombe e missili assai più potenti. «Le nostre raccomandazioni - ha concluso Trachtenberg - sono basate su una realistica valutazione del clima strategico attuale», in cui Russia, Cina e Corea del Nord stanno sviluppando gli arsenali nucleari.
Corriere 28.2.18
I social minano la democrazia? Obama lancia l’allarme
di Massimo Gaggi
L a radicalizzazione del confronto politico esacerbata dal ruolo di reti sociali come Facebook e Google sta «segregando gli americani in due realtà completamente differenti. Luoghi nei quali non solo le opinioni ma anche i fatti più elementari vengono contestati e rimessi in discussione. È molto difficile immaginare come una democrazia possa continuare a funzionare nel lungo periodo in condizioni simili».
Allarmi sui rischi per la democrazia, Barack Obama ne aveva lanciati anche in passato, ma mai in modo così crudo. Nel discorso pronunciato venerdì scorso al Mit di Boston davanti a una platea accademica e di professionisti dello sport e dell’industria l’ex presidente americano si è, invece, lasciato andare. Aggiungendo anche inedite considerazioni critiche sui giganti della tecnologia. Comprese aziende «amiche» come Google e Facebook con esponenti (il presidente della prima e il confondatore della seconda) che lavorarono per lui ai tempi della prima elezione, nel 2008. Oggi Obama le avverte: «Rappresentano un bene comune, oltre a essere imprese commerciali» e dovrebbero domandarsi «se stanno contribuendo in qualche modo a corrodere la democrazia».
Parole dure, anche se poi il leader democratico ha cambiato tono riconoscendo che «è anche vero che queste piattaforme sociali sono solo uno strumento»: può fare molto di buono, ma viene anche sfruttato da forze del male come l’Isis o i neonazisti. Forse Obama è stato più franco del solito perché il discorso, pronunciato a porte chiuse, doveva essere off the record : niente tweet nè foto, telefonini spenti. Ma alla fine una registrazione è arrivata alla rivista Reason . Rimbalzando, poi, su altri siti come Business Insider.
Obama, che in 8 anni non ha mai imposto vincoli alla Silicon Valley, ora sembra invocare qualche intervento di regolamentazione. Non accusa, come fanno altri, i «monopoli digitali», ma aggiunge che «giganti mediatici come Google e Facebook dovrebbero tenere ben presente che il governo degli Stati Uniti ha un ruolo da svolgere nell’assicurare il rispetto di alcune regole di base per far sì che tutti coloro che operano nell’informazione lo facciano su un terreno livellato»: un riferimento alla necessità di estendere alle imprese digitali regole e responsabilità per i contenuti messi in rete che oggi gravano solo sugli editori tradizionali.
La Stampa 28.2.18
Malatesta e l’azione anarchica
di Massimiliano Panarari
Anche nel panorama del pensiero anarchico otto-novecentesco c’è stata una specificità nazionale. L’Italia è stata una piazza fondamentale dell’anarchismo, ma rispetto ai suoi big filosofici (come il francese Pierre-Joseph Proudhon e i russi Michail Bakunin e Petr Kropotkin) a prevalere qui fu la dimensione dell’attivismo (a partire da quello rivoluzionario); e, quindi, i teorici della Penisola furono anch’essi tutti presi e assorbiti dall’azione diretta, e non produssero mai opere sistematiche.
Un approccio che contraddistinse in particolare Errico Malatesta (1853-1932), protagonista di primo piano del movimento anarchico e operaio internazionale, il quale, tra un processo e una fuga, tra una detenzione e un moto sovversivo, si dedicò intensamente all’attività editoriale e giornalistica – dal settimanale L’Agitazione al periodico Volontà, dalla direzione nei primi anni Venti del quotidiano Umanità nova (che arrivò alla tiratura di 50mila copie, sopravanzando L’Avanti, e venne poi chiuso dal regime fascista), fino al quindicinale Pensiero e volontà.
La casa editrice Elèuthera pubblica un’antologia di suoi saggi e scritti giornalistici col titolo di Buon senso e utopia (pp. 272, euro 15; a cura di Giampietro N. Berti). Dai quali emerge con nettezza come la preoccupazione principale di Malatesta non fosse la ricerca di un fondamento teoretico per l’anarchia, ma la traduzione della dottrina in prassi.
La sua, dunque, era fondamentalmente una teoria dell’azione, che distingueva il fine (l’anarchia) dal mezzo (l’anarchismo), e si proponeva di illustrare la validità universale dell’idea. Da intendersi quale aspirazione che trascende le contingenze e i contesti particolari, e si sostanzia nella libertà quale fine ultimo della storia. Il fondamento della visione anarchica non voleva essere così razionale o deterministico – e Malatesta puntava a differenziarla dal socialismo, dal comunismo e dalle altre ideologie rivoluzionarie presenti sul mercato politico dell’epoca – ma morale ed etico. Con tutto il conseguente spazio per il volontarismo sociale e lo spontaneismo insurrezionale.
Repubblica 28.2.18
Il vero Byron? Un uomo senza qualità
Indeciso, refrattario al matrimonio, ma poi marito infedele, viaggiatore inconcludente a caccia di una morte da eroe. Dai “Diari” emerge il ritratto più autentico del poeta romantico che volle essere leggenda
di Pietro Citati
George Gordon Byron nacque a Londra, il 22 gennaio 1788: quattro anni prima di Shelley, dieci anni prima di Leopardi. Era zoppo: ciò venne subito interpretato da lui e dai suoi nemici come un segno di inferiorità e maledizione. Da giovane era pallidissimo e grasso; e cercò con tutte le forze di dimagrire a costo di fare la fame. Maledetto come lui, Alexander Pope era gobbo. Il padre di Byron, ricco e dissoluto, lo educò con indifferenza e freddezza. Egli evitò la madre: non la considerava madre; e il giorno della sua morte tirò di boxe con l’allenatore. Aveva molti servi.
Correva selvaggiamente a cavallo in tutti i paesi della terra.
Nuotava con grande leggerezza attraverso l’Ellesponto e la foce del Tago.
Era violento e rabbioso. Molti dicevano che era pazzo, non di testa ma di cuore. Ora si sentiva una nullità: ora si esaltava in modo parossistico; ora cercava di distruggere. Come disse la moglie: «il suo carattere era un labirinto, ma non esisteva filo d’Arianna per guidarci fino al suo cuore». Tranne Lord Clare non aveva amicizie maschili. Voleva sfuggire e sottrarsi a se stesso: una fuga senza fine. Era come Mitridate: il quale si abituò ai veleni più terribili, finendo per rendere inattivi tutti gli altri quando volle usarli quale rimedi.
Come diceva il don Giovanni di Mozart, amava sopratutto divertirsi, scatenando all’estremo le proprie sensazioni. Poi cadde in un tedio più profondo di quello di Leopardi: «ma sono troppo infingardo per spararmi».
Leggeva moltissimo: Shakespeare, Pope: la Justine di Sade: il Tristram Shandy di Sterne. Avrebbe voluto con sé un Leporello, che raccontasse le sue avventure erotiche. Era amatissimo dalle donne che svenivano davanti a lui: detestava le dame intellettuali; preferiva le donne mature o le serve che violentava negli alberghi. Qualche volta immaginò di essere il re Salomone della Bibbia, o il sultano di Turchia, con immensi harem ai propri ordini.
Dai Turchi apprese la sodomia sistematica: ma già a diciotto anni ebbe una passione per un giovane del Trinity College di Cambridge, e poi un’altra per un giovane greco, col quale attraversò a cavallo il Peloponneso e poi un’altra, poi un’altra ancora e ancora un’altra.
La grande, tremenda colpa della sua vita, l’incesto con la sorellastra Augusta. Per lei scrisse questi versi: “troppo breve per la nostra passione — troppo lunga per la nostra pace — fu quell’ora — può la sua memoria cessare? Ci pentiamo — abiuriamo — per strapparci dalla nostra catena: dobbiamo fuggirci — per unirci di nuovo!” E: “il tuo è un amore al quale non rinuncerei /dovesse questo cuore pagarlo col dolore dell’Eternità”.
Voleva l’incesto: in primo luogo perché sapeva che era una tremenda colpa, e lui voleva vivere nell’abisso della colpa. Abitò per un mese chiuso con la sorella, senza vedere nessuno.
Come poi avrebbe detto Barbey d’Aurevilly, trovò la felicità nel delitto. Quando sposò Annabelle Milbanke, continuò ad abitare insieme alla sorella, in una terribile e beata vita a tre.
Il 28 maggio 1811, a ventitré anni, incominciò a scrivere i Diari ( Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno, Adelphi, a cura di Ottavio Fatica, pagine 302, euro 14): da anni scriveva lettere meravigliose — più belle dei Diari ( Vita attraverso le lettere, a cura di Masolino d’Amico, Einaudi); aveva bisogno di comunicare e chiacchierare con un complice o molti complici. Quando era giovane, sembrò voler percorrere la strada di un normale nobile signore inglese: con rabbia e violenza parlò alla Camera dei Lord; ma, dopo sedici mesi, si ritirò dalla Camera, disgustato dalle “pagliacciate” parlamentari.
Alla fine del 1809, scrisse: «non vivrò mai in Inghilterra, il perché deve restare segreto»; chiamò il suo Paese quella “stretta isoletta”, e il 25 aprile 1816 la lasciò per sempre.
Amava moltissimo viaggiare. In tutti i modi: per mare: o su una carrozza monumentale, con una camera da letto, una biblioteca, e tutti gli attrezzi necessari e possibili, e un medico personale, e quattordici servi, e un bulldog e un ermellino.
La sua meta era la Grecia, dove arrivò per la prima volta il 26 settembre 1809. Raggiunse Maratona — molto più bella, disse poi, di Waterloo.
Fu a Costantinopoli, a Itaca (dove restò sei mesi), nelle Cicladi, e ad Atene, ai piedi dell’Acropoli. Vide il Parnaso, sopra il quale volavano dodici aquile.
Dovunque fosse, era incerto: non sapeva quello che voleva; «sono sconvolto dalla totale ignoranza delle mie intenzioni».
Così restava a guardare, senza desiderare e senza volere. A volte fingeva: o gli sembrava di non avere mai vissuto; o veniva posseduto da terribili incubi. Non aveva voglia di sposarsi: «una moglie è una totale tristezza». Poi, subito dopo, pensò che una moglie sarebbe stata la sua salvezza; e il 2 gennaio 1815 sposò Annabelle Milbanke; ma pochi giorni dopo disse che la sua era stata “una luna di melassa”. Ebbe due figlie: la seconda, Allegra, morì a cinque anni; e venne sepolta in Inghilterra senza che nemmeno un’iscrizione la ricordasse. Non vide quasi mai l’altra figlia, Ada. Per tutta la vita ripeté: «credo veramente»: «non sono ateo»; e si chiese: «c’è qualcuno al di là? Chi lo sa?». Come Melville, credeva negli angeli: «gli angeli — ripeté — sono gli unici che io non abbia in uggia».
In quindici anni, Byron compì un’opera immensa. Ma nessuno, più di lui, detestò la scrittura: disse che chi agisce è molto meglio di chi scrive; e aggiunse che «l’unico, il totale, il sicuro motivo che avevo di scribacchiare era quello di sottrarmi a me stesso».
Mi riesce difficile giudicare le opere di Byron. Amava sopratutto l’immenso Don Giovanni: «non ho alcun piano — non avevo alcun piano… perché l’aria di tali scritti è il loro eccesso: per lo meno la libertà di quell’eccesso».
Il suo libro discendeva dal Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte e di Mozart, eseguito a Praga il 29 ottobre 1787. Aveva cominciato a lavorare in modo leggero, con una bottiglietta di tocai, una scatola di tabacco di Siviglia e una bella ragazza di sedici anni davanti agli occhi: come Byron avrebbe amato.
Ma il Don Giovanni di Da Ponte-Mozart è una creazione incomparabile, rispetto all’ingegnosa chiacchiera di Byron.
Come forse aveva desiderato, morì in Grecia: solo in Grecia — pensava — muoiono i grandi eroi.
Voleva liberare i greci dal dominio turco, sebbene sapesse che erano «forse il popolo più depravato e degradato della terra».
Noleggiò una flotta: il 5 gennaio 1824 sbarcò a Missolungi, nel Peloponneso, con un’uniforme scarlatta, salutato dai greci come l’Angelo Liberatore.
Il 9 aprile venne sorpreso da un acquazzone, che lo bagnò completamente. Aveva brividi e convulsioni: fu salassato, salassato e salassato, contro ogni buon senso.
La domenica di Pasqua, il 19 aprile 1824, alle cinque pomeridiane, disse al servo Fletcher, che da tanti anni lo seguiva: «ormai è quasi la fine, devo dirti tutto, senza perdere un solo istante. Oh, mia povera cara bambina!
Mia cara Ada! Mio Dio! Se solo avessi potuto vederla! Datele la mia benedizione, e anche alla mia cara sorella Augusta».
La voce gli venne meno: il servo poteva afferrare le sue parole solo a lunghi intervalli: Byron continuò a mormorare: «Fletcher, ricordati che se non eseguite ciascuno degli ordini che vi ho impartito, vi tormenterò dall’aldilà... Oh mio Dio, allora tutto è perduto, perché ormai è troppo tardi!». Malgrado gli sforzi, ripeteva frasi mozze, come: «Moglie mia! Figlia mia! Sorella mia! Voi sapete tutto.
Bisogna che diciate tutto».
Il resto fu incomprensibile.
Quando il servo tornò in Europa, la moglie di Byron lo pregò di ricordarsi le parole che il marito non aveva mai finito di dire.
Così finisce la vita di Byron: nell’incomprensibile.
Repubblica 28.2.18
L’anniversario
“Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora” Il ’68 anticipato dai Doors
Con l’urlo disperato di “When the music’s over” la band preannunciò la rivoluzione culturale che sarebbe esplosa l’anno successivo
“Quella rabbia Jim Morrison la portò sul palco” ricorda il chitarrista Robby Krieger
di Ernesto Assante
ROMA Sono passati 50 anni da quando i Doors, nel 1968, divennero una band di successo, conquistando la cima delle classifiche con Hello, I love you, un brano lontanissimo dalle tensioni e dalle passioni di quell’anno.
Secondo Robby Krieger, il chitarrista della band, «in realtà quella canzone era una sorta di antidoto. Il mondo era in fiamme, Jim aveva scritto quella poesia, quella canzone, molto tempo prima, ci sembrava il modo giusto per ricordare che l’amore restava il centro di tutto». Il 1968 per i Doors era in realtà cominciato l’anno precedente, quando Morrison e i suoi compagni avevano dato voce alla gioventù che si era messa in movimento in tutto il mondo con un brano, When the music’s over il cui climax era una frase che Jim Morrison urlava in un momento di vuoto musicale, una sorta di dichiarazione di guerra, un desiderio che sembrava poesia ma era realtà: “Noi vogliamo il mondo e lo vogliamo ora”. Era la perfetta introduzione a un anno terribile che avrebbe visto i Doors toccare i vertici massimi del loro successo e Jim Morrison entrare in una spirale di alcol e delirio che lo avrebbe portato alla morte nel giro di soli tre anni.
Morrison, assieme a Jimi Hendrix, incarnava il 1968, con la sua straordinaria mescolanza di poesia, ribellione, elettricità e arte, meglio di molti altri artisti rock, metteva in scena senza filtri la febbre che aveva colpito una intera generazione che non voleva altro che bruciare i ponti dietro se stessa e affrontare il futuro conquistandolo, cambiando le regole del gioco.
«Non era facile stargli dietro», ricorda Robby Krieger, «anzi, era spesso impossibile. Jim era irregolare e imprevedibile, così come creativo e esplosivo.
Quell’anno fu per noi un’altalena incredibile di emozioni, successi, disastri, aperture, crolli, che ci portò dalla gioia alla disperazione». Il successo fu chiarissimo: la band registrò all’inizio dell’anno, non senza clamorose difficoltà proprio per l’erratico comportamento di Morrison, Waiting for the sun e l’album, spinto dalla potenza di un singolo come Hello, I love you, che arrivò al primo posto delle classifiche di vendita, spinse i Doors, che già erano nell’Olimpo del rock, nel pieno della stardom popolare.
Il 1968 dei Doors, celebrato negli anni da diversi dvd e in particolare dal film Feast of friends realizzato durante il tour di quel turbolento anno, fu nelle parole di Krieger «un anno davvero strabiliante.
L’atmosfera era incendiaria ovunque e in moltissimi concerti il pubblico, stimolato dall’atteggiamento di Jim in scena, si lasciava andare, saliva sul palco, scatenava disordini.
Jim era incontrollabile e proprio all’inizio dell’anno fu arrestato.
Per noi era molto chiaro che sia in America che in Europa la situazione stava esplodendo.
E per molti versi Jim lo rappresentava sul palco.
C’era la guerra in Vietnam e noi incidemmo, proprio nel 1968, Unknown soldier, una canzone diretta e forte contro la guerra, che scatenò grandi polemiche, molte radio si rifiutarono di trasmetterla. Dal vivo avevamo costruito una piccola scena quando la suonavamo: io puntavo la mia chitarra contro Jim come se fosse un fucile, John Densmore colpiva la sua batteria con un colpo secco e Jim cadeva sul palco come se fosse morto: la gente impazziva». Il tour del 1968 fu il primo che la band di Morrison portò in Europa, «quasi ovunque c’erano ragazzi arrabbiati, era diverso dagli Stati Uniti dove c’erano moltissimi hippie. E vedevano Jim come un nuovo messia, in grado di parlare di poesia e di rivoluzione, e i Doors come una band che lavorava per cambiare il mondo».
Tra le registrazioni del 1968 per Waiting for the sun ce n’è una che è entrata nella leggenda, quella di Celebration of the lizard, forse il brano che meglio rappresenta la rivoluzione poetica di Jim Morrison all’epoca. Il brano, estremamente complesso in termini testuali e musicali doveva occupare un’intera facciata dell’album. «Provammo a registrarlo molte volte, ma il fatto che fosse composto da sette diverse sezioni, di avere lunghe parti recitate, di essere diverso da tutto quello che nel rock era stato fatto fino ad allora, ci metteva in difficoltà e ogni volta qualcuno di noi era scontento, soprattutto Jim.
E alla fine non lo mettemmo sull’album». In realtà non lo misero su nessun album, venne proposto dal vivo e divenne il centro non solo delle performance dei Doors ma anche del pensiero di Morrison, che iniziò a vestire i panni del “Re lucertola”. Il brano uscì per la prima volta in Absolutely live nel 1970, una versione registrata nel 1968 fu pubblicata per la prima volta nel 2003 in un’antologia.
Da quel momento, dal 1968 e dalla mancata registrazione di Celebration of the lizard inizia il percorso verso l’inferno di Jim Morrison, fatto di alcol, poesia, delirio, eccessi, arresti e alla fine della musica. In questi giorni viene pubblicato per la prima volta il video completo dell’esibizione dei Doors al festival di Wight nel 1970, l’ultima esibizione dei Doors della quale ci sono immagini filmate. E il cuore di quella esibizione è proprio la “fine della musica”, l’addio di Morrison, una magnifica versione, di oltre 11 minuti, di When the music’s over, dove l’urlo “Noi vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso” è solo sussurrato. Di lì a poco sarebbe davvero finito tutto.
Il Sole 27.2.18
Elisabetta I, grande sovrana e poliglotta
Regina innamorata dell’italiano
È appena uscito negli Stati Uniti un libro, Elizabeth I’s Italian Letters, a cura di Carlo M. Bajetta
di Luigi Sampietro
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Il Sole 27.2.18
Nelson Mandela (1918 - 2013)
Madiba: dalla liberazione alla libertà
di Lara Ricci
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Il Sole 27.2.18
Medioevo e astrologia
Re e imperatori appesi al cielo
di Tullio Gregory
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Il Sole 27.2.18
Leggere le immagini
Stemmi senza dilemmi: come conoscere la storia attraverso i loghi
di Marco Carminati
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il manifesto 28.2.18
Un giorno tutto questo. Il Salone del Libro si presenta
Editoria. L'edizione numero 31, diretta da Nicola Lagioia, si terrà dal 10 al 14 maggio, puntando sulle visioni del futuro. Paese ospite, la Francia
Dal 10 maggio al 14 maggio si terrà la trentunesima edizione del Salone del libro di Torino, affidata al direttore editoriale Nicola Lagioia, al presidente della (nuova) Cabina di regia Massimo Bray – che presentando le novità ci tengono a sottolineare che la spaccatura nel mondo dell’editoria, avvenuta l’anno scorso, può considerarsi ricucita – e per la sua immagine all’illustratore Manuel Fior. La fiera dell’editoria ha scelto di ragionare intorno agli scenari del futuro: Un giorno tutto questo è il titolo aperto per una invenzione del tempo che verrà. Le ipotesi possibili ruoteranno intorno a cinque domande (inviate a diversi intellettuali, scrittori e scrittrici): Chi voglio essere? Perché mi serve un nemico? A chi appartiene il mondo? Dove mi portano spiritualità e scienza? Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione? Questioni che non rimarranno senza risposta, ma avranno un luogo vivo del dibattito: le Ogr, Officine Grandi Riparazioni dirette da Nicola Ricciardi (un’anteprima degli eventi ci sarà il 3 marzo con il concerto di John Cale, fondatore dei Velvet Underground).
Ad aprire i giochi ci sarà lo spagnolo Javier Cercas, il 10 maggio con la sua lectio magistralis.
Paese ospite sarà, invece, la Francia (fra gli autori presenti anche Antoine Volodine e Edgar Morin, nel cinquantenario dal 1968). Altri nomi che già circolano sono Herta Müller (in dialogo con Andrea Bajani), Alice Sebold, Guillermo Arriaga (sceneggiatore per Inarritu e autore di romanzi come Il Selvaggio), Fernando Aramburu, Alicia Gimenez Bartlett, Joël Dicker, registi come Bernardo Bertolucci e Luca Guadagnino e un personaggio «fuori pagina» quale Limonov, il dissidente russo protagonista del libro di Carrère.
Come progetto tematico, per il terzo anno ci saranno le Anime arabe, a quarant’anni dalla pubblicazione di Orientalismo di Edward Said, mentre alcuni omaggi interesseranno le figure di Simone Weil, Anna Maria Ortese, David Foster Wallace, Roman Gary.
E Solo Noi Stesse sarà la sezione tematica sul pensiero femminile (curata da Loredana Lipperini e Valeria Parrella). Infine, un focus anche sulla tv: Niccolò Ammaniti ha scritto e diretto una serie – Il miracolo – che presenterà al Salone. E poi, tornerà Festa mobile, letture di brani scelti in giro per la città, a cura di Giuseppe Culicchia.
Il Fatto 28.2.18
Torino, tutti al Salone con il buco intorno
Pesano i debiti, le indagini per falso e i licenziamenti
Torino, tutti al Salone con il buco intorno
di Massimo Novelli
Sul Salone del Libro di Torino, sia pure sulla vecchia gestione che sta per essere liquidata, gravano circa tre milioni di euro di debiti, con i fornitori di beni e servizi. E secondo fonti autorevoli, peraltro, il passivo potrebbe essere ancora più pesante. Anche sul piano giudiziario, quello delle indagini della Procura subalpina su presunti falsi in bilancio della defunta Fondazione per il Libro, vale la regola del tre, ovvero del trenta: tanti sono, infatti, gli indagati, tra i quali ci sono l’ex sindaco Piero Fassino e l’assessora regionale alla Cultura in carica, cioè Antonella Parigi. Tuttavia l’ottimismo, come si sa, è il sale della vita.
Così ieri mattina, durante la presentazione a Torino, alla Mole Antonelliana, sede del Museo del Cinema, della nuova edizione di Librolandia, giunta al trentunesimo capitolo (dal 10 al 14 maggio, al Lingotto), il direttore culturale Nicola Lagioia e Massimo Bray, presidente della “cabina di regia” della fiera 2018, hanno venduto la proverbiale pelle dell’orso, come si diceva, prima ancora di averlo cacciato.
“Anche quest’anno”, ha sostenuto Bray, ex ministro dei Beni Culturali nel governo Letta ed ex direttore editoriale della Treccani, “la qualità del Salone vincerà”. E poi: “Torino è il salone nazionale dell’editoria italiana”. Affermazioni rese possibili dal fatto che, come ha rammentato Lagioia, la spaccatura con gli editori che, nel 2017, avevano dato vita al milanese Tempo di Libri, voluto dalle major del settore e dall’Associazione Italiana Editori (Aie), “è stata ricomposta”. Ci saranno, ha continuato lo scrittore, “gli editori indipendenti e ci saranno i grandi gruppi. Immaginare l’editoria del nostro Paese senza gli uni o senza gli altri è impossibile. Abbiamo lavorato tutti insieme per la ricucitura che c’è stata tra tutti gli editori italiani, indipendenti e non. Siamo orgogliosi che gli editori italiani abbiano scelto Torino per ritrovarsi qui tutti insieme, l’anno scorso non sarebbe stato possibile”.
Ritorneranno al Lingotto, pertanto, big come Mondadori e Gems (Gruppo editoriale Mauri-Spagnol). Però proprio da Segrate, qualche settimana fa, hanno fatto sapere che Tempo di Libri, che è imminente, ovvero di scena a Milano dall’8 al 12 marzo, resta “il grande progetto dell’Aie, nasce dalla legittima aspirazione di un’associazione confindustriale di avere una fiera sua, di respiro internazionale, governata in autonomia”. La serenità dei torinesi, poi, che pure annunciano la Francia e la Buchmesse di Francoforte in veste di ospiti per l’edizione di maggio, rischia di essere offuscata dai travagli della passata Fondazione per il Libro, di cui Bray, tra l’altro, è stato presidente fino alla sua messa in liquidazione.
Pesano, dunque, i tre milioni e rotti di debiti, e gli interrogativi a essi legati: chi li verserà per pagare i creditori? Tra chi deve essere pagato, inoltre, si annoverano i francesi della GL Events, la società proprietaria del Lingotto Fiere, con 900 mila euro, e persino le scrittrici e gli scrittori per ragazzi che avevano dato vita ad alcune iniziative nei precedenti saloni. Incombono, per giunta, le inchieste della magistratura, come del resto i posti di lavoro in pericolo di dodici dipendenti della vecchia Fondazione, anche perchè, a quanto sembra, la nuova struttura societaria del Salone, in via di costituzione, non li riassumerà.
Ombre non indifferenti, che si aggiungono al definitivo tramonto dell’idea di fare di Torino, con il Salone come epicentro, una vera capitale del libro; un progetto caro ai timonieri di Librolandia del passato come Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero. Ma può essere capitale del libro una città, Torino, che ha perduto la proprietà dei suoi celeberrimi marchi editoriali come Einaudi e Bollati Boringhieri, finiti sotto il controllo azionario milanese? E che ha consentito che si frantumasse la storia e l’identità della Utet, la gloriosa casa editrice del benemerito Giuseppe Pomba, già presidente, nel corso dell’Ottocento, nel 1869, dell’Associzione Libraria Italiana?
La Stampa 28.2.18
Libri, a Torino un Salone per tutti i gusti
di Maurizio Assalto
C’è tutto, di più - come sempre, più di sempre - nel 31° Salone del Libro di Torino presentato ieri al Museo del Cinema. Un cartellone ricchissimo, per tutti i gusti, e ancora in divenire. Ma c’era anche un convitato di pietra, una parola di tre sillabe che non è mai stata pronunciata in pubblico, e che anzi in privato suscitava reazioni un poco infastidite: Milano.
Gli organizzatori hanno ragione, il Salone tira dritto con i suoi programmi e di questo desidera che si parli; ma, a otto giorni dall’inaugurazione del competitor milanese Tempo di Libri, il retropensiero è inevitabile. E, a ben vedere, è suggerito dalla mole stessa degli eventi sciorinati alla Mole.
Ci sono, innanzitutto, i grandi gruppi editoriali che l’anno scorso avevano disertato il Lingotto, e che ora tornano avendo compreso l’errore. Ci sono Javier Cercas e Herta Müller, Almudena Grandes e Eduard Limonov, Alice Sebold e Bernardo Bertolucci, Fernando Aramburu e il quasi centenario Edgar Morin. Ci sono premi Nobel e premi Oscar, la Francia Paese ospite, il cinquantennale del Sessantotto e il quarantennale di Aldo Moro, Giulio Regeni in attesa di verità e naturalmente MeToo e perfino Topolino che spegne quest’anno le novanta candeline. Un concentrato della cultura alta e pop, del mondo presente, passato e futuro. E poi le collaborazioni: dalla Buchmesse di Francoforte alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, a Lucca Comics, al Premio Strega, al Mondello. Una specie di chiamata a raccolta delle eccellenze culturali italiane e internazionali, per confermare il successo dell’ultima edizione e giocarsi le proprie carte nella difficile partita che si aprirà dopo, a bocce ferme, quando entrambi i saloni concorrenti saranno archiviati e verrà, fatalmente, il momento dei confronti.
Perché se l’anno scorso era stata per Torino l’edizione dell’orgoglio ferito dal maldestro tentativo dei grandi editori di scippare il Salone per portarlo a Milano, risoltosi in uno smacco per gli scissionisti e nel trionfo dei «lealisti», la vera battaglia sarà quella che andrà in scena tra marzo e maggio tra le due capitali del Nord-Ovest. Con Torino forte di una tradizione rodata e di un consenso di pubblico consolidato, ma gravata da problemi finanziari che rischiano di determinarne l’implosione, e Milano che ri-nasce (dopo il colpo a vuoto del 2017) in altra sede e con altra macchina organizzativa, e soprattutto senza buchi di bilancio e senza dipendere da contributi pubblici.
L’anno prossimo avremo ancora due fiere del libro? Oppure i saloni rivali diversificheranno in parte i loro contenuti? O magari, come qualcuno torna a sussurrare, si andrà verso una riunificazione? E se sì, dove? In una sede unica, o articolata su due regioni? O una volta qua e una volta là? Sono interrogativi che per ora vengono respinti, a Torino come a Milano, e però difficilmente si potranno eludere in un prossimo futuro. Il Salone del Libro sa fare benissimo i suoi programmi, ma perché possa continuare a farli è necessario che il sistema-città nel suo complesso - politica, forze culturali e imprenditoriali - facciano la loro parte.
Repubblica 28.2.18
La Francia Paese ospite dell’edizione 2018
“Siamo noi l’unico Salone del libro” Torino ricompatta gli editori
di Diego Longhin e Sara Strippoli
TORINO È il karma di Torino correre in salita. Lo scorso anno era la spaccatura degli editori e la nascita dell’antagonista milanese Tempo di Libri. Quest’anno i ritardi causati dalla liquidazione della Fondazione per il libro che ha sempre organizzato il Salone e che rinascerà, è la promessa, in altra forma prima che inizi l’edizione numero 31 in programma dal 10 al 14 maggio.
Ma il sipario alzato ieri sulle prime anticipazioni rafforza la sensazione che le rincorse sollecitino l’orgoglio sabaudo e che anche quest’anno il Salone del Lingotto abbia tutte le intenzioni di farsi notare. Il programma è ricchissimo e la conduzione di Nicola Lagioia scoppiettante.
Il Paese ospite è la Francia e una “grande onda” è attesa al Lingotto, con un focus sul Maggio francese nel cinquantenario del ’68. Ci sarà Antoine Volodine, parlerà Edgar Morin. Il tema quest’anno si compone in itinere: “Un giorno tutto questo…”, un’apertura sul futuro che potrà essere bellissimo, oppure funesto, il migliore o il peggiore dei mondi possibili. A completare l’incipit, e non importa se con immagini o parole scritte o registrate in un video, saranno scrittori e intellettuali. «Ne abbiamo contattati un centinaio e a tutti abbiamo fatto cinque domande: “chi voglio essere”, “perché mi serve un nemico”, “a chi appartiene il mondo”, “dove mi portano spiritualità e scienza”, “che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione?”», racconta Lagioia.
A Torino ci saranno grandi nomi come il Nobel Herta Müller e Eduard Limonov, Alice Sebold e l’autore di Patria Fernando Aramburu. Bernardo Bertolucci proietta The Dreamers alla Mole Antonelliana e Niccolò Ammaniti farà vedere il suo Il miracolo, ultima nata fra le serie tv d’autore. Al mattino al Lingotto si può ascoltare il duo del cinema, tanto inedito quanto trasversale alle generazioni, Bernardo Bertolucci-Luca Guadagnino.
Mentre Paolo Giordano presenta il suo nuovo romanzo e duetta con Manuel Agnelli. I genitori di Giulio Regeni saranno al Salone e Festa
mobile firmata Giuseppe Culicchia comincerà il suo viaggio per l’Italia in anticipo per portare i reading anche a Scampia e ad Amatrice. Per approdare a metà maggio a Torino. Un evento sarà la lectio magistralis sull’Europa di Javier Cercas e c’è persino Topolino con un numero speciale: «Quando hai Topolino dalla tua parte nulla può andare storto», se la ride Lagioia. E sotto la voce “follie da Salone”, da una idea di Loredana Lipperini, quattro scrittori si chiuderanno in una villa collinare torinese per scrivere romanzi gotici. «Premi Nobel, premi Pulitzer, premi Goncourt», gigioneggia l’ipercinetico direttore. E i finalisti del Premio Strega europeo presenteranno i loro libri e il vincitore sarà annunciato al Lingotto.
«Questo è il Salone nazionale dell’editoria italiana. E avere gli editori indipendenti e il ritorno dei grandi editori sarà il primo successo della nuova edizione», dice Massimo Bray, il presidente della defunta Fondazione del libro che attende un nuovo inizio. Inutile rilanciare il tema di un MiTo del libro ipotizzato qualche settimana fa dal sindaco di Milano Giuseppe Sala. Torino per ora dice di avere obiettivi a lungo termine: «Abbiamo un percorso che dovrà gestire le prossime edizioni, A partire da quella del 2019».