il manifesto 1.2.18
La maternità surrogata è l’apoteosi del patriarcato
di Ginevra Bompiani
Qualche
giorno fa, alla Casa delle Donne di Roma, ho assistito a un confronto
fra psicanaliste, una italiana, Manuela Fraire, e una francese,
Elisabeth Roudinesco, sul tema della maternità surrogata.
Roudinesco
spiegava le sottigliezze di una legislazione. Ovvero di una
legislazione che regoli puntigliosamente il contratto fra una coppia
desiderosa di figli e la donna che fornisce l’utero. E Manuela Fraire
vedeva in questa pratica il possibile superamento del patriarcato.
Ahimè, temo che il superamento del patriarcato non verrà da questa pratica, che, a mio vedere, ne è piuttosto l’apogeo.
In
realtà, da quando il patriarcato si è imposto su gran parte del mondo,
circa 5000 anni fa, il suo proposito è stato quello di spostare il
possesso di diritti e di beni dalle donne agli uomini.
E il primo
obiettivo, che giustificava e imponeva tutti gli altri era di
assicurarsi la proprietà dei figli che, secondo il diritto matrilineare,
erano di pertinenza della casa materna.
Il principale diritto
rivendicato e difeso dal patriarcato è dunque il diritto di proprietà,
per accedere al quale la via più diretta è l’esproprio.
E proprio
di questo si tratta nella maternità surrogata: dell’esproprio di un
utero e della rivendicazione di proprietà del figlio partorito.
Tutto
il resto è secondario e le questioni giuridiche, che dovrebbero
regolare il ‘contratto di locazione’ dell’utero e il possesso del suo
prodotto, sono semplicemente quelle che il patriarcato – e il capitale,
che è la sua più recente ed efficace rappresentazione -, si pongono nei
confronti di un organo vitale.
La questione si è posta per la prima volta per la ‘donazione’ degli organi.
Poiché
questi non potevano essere espropriati da organismi senza vita, si è
cambiata la denominazione della morte, dividendola in ‘morte clinica’
(adatta all’espunzione degli organi) e morte reale.
E’
significativo che la stessa parola ‘dono’ venga usata nel caso di un
‘donatore di organi’ privo di coscienza e di volontà, e delle donne che
danno in uso il proprio utero.
Ed è sorprendente che nessuno si
ponga la domanda del perché una donna sana di corpo e di mente sia
disposta a un sacrificio di nove mesi, con rischio della vita, quando si
escluda la ragione economica.
L’opinione corrente fra i
sostenitori è che sebbene, nella maggior parte dei casi, l’accordo
preveda un compenso in denaro, almeno sotto forma di ‘rimborso spese’,
‘mantenimento’ o semplice ‘gratitudine’, questo non entri in alcun modo
nelle ragioni del consenso, che restano puramente altruistiche.
E
poiché si tratta di un ‘dono’, non può che venire da uno slancio
generoso, anche nei confronti di sconosciuti, incontrati attraverso gli
uffici di Stati compiacenti.
E non ci può sorprendere che un
simile disinteresse provenga dalla componente femminile della razza
umana, che non ha equivalenti nella componente maschile (se non si vuole
paragonare il ‘dono’ dello sperma, che dopo tutto richiede pochi minuti
di un’attività non spiacevole).
Questo è l’ultimo, in ordine di
tempo, esproprio che la donna subisce, e al quale si sottopone
‘volontariamente’, come si è sottoposta a tutti gli altri in questi 5000
anni.
E da parte di chi ne usufruisce, è l’ultima confusione fra desiderio, privilegio e diritto.