il manifesto 17.2.18
Ingmar Bergman: “Passeggio ancora per le strade di Uppsala”
Maestri
del cinema. Suggestioni e riflessioni in occasione della rassegna
dedicata al regista al Palazzo delle Esposizioni di Roma
di Orio Caldiron
Non
c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e
storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con
altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Spettatore
d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate
astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli
propri, altrettanti momenti della storia della sua vita. La scoperta del
cinema risale al paesaggio incantato dell’infanzia in cui il piccolo
Ingmar cresce circondato da «fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e
senza dimora», un mondo perduto e sempre ritrovato dove continua a
aggirarsi per tutta la vita, rivivendo «luci, odori, persone, fatti,
momenti, gesti, toni di voce e oggetti».
Nel cinema degli inizi
l’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri
del cinema svedese: «Sjöström era uno dei più grandi registi del suo
tempo. Certamente Stiller era un grande regista, ma Sjöström era un
genio, un maestro. Il rapporto con Sjöström è stato per me molto
importante». Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui
resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio
degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è
uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha
influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». La
figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole
(1957) dopo che era stato il consigliere artistico all’epoca del suo
esordio di regista – richiama l’attenzione sul ruolo del primo piano:
«Sono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto
stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere
la più straordinaria scena di teatro: il volto umano». Non potrebbe
essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di
Giovanna d’Arco (1928), il film in cui il primo piano è fondamentale:
«Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di
posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto
sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette
della poesia».
L’amore per il cinema francese tra le due guerre è
per lui una passione clandestina e contrastata: «In quegli anni 1937,
1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia li
detestava. I film di Marcel Carné, Il porto delle nebbie, Alba tragica,
sono dei veri capolavori. Devo aver visto il Il bandito della Casbah di
Julien Duvivier almeno venticinque volte. Il mio era un amore segreto.
Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le
storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». Il maestro
svedese si è sempre divertito a descrivere il dipartimento sceneggiature
della Svensk Filmindustrie, in cui avviene il suo primo apprendistato
professionale, come una galera in cui Stina Bergman suona il tamburo e
una mezza dozzina di schiavi cerca di trarre sceneggiature da romanzi,
novelle e soggetti originali. L’energica direttrice del dipartimento è
la vedova dello scrittore Hjalmar Bergman. Con il marito aveva seguito
Sjöström nell’avventura americana, imparando a conoscere i meccanismi
della drammaturgia hollywoodiana. «Era una drammaturgia cinematografica
estremamente didascalica, quasi rigida: il pubblico non avrebbe mai
dovuto avere dubbi su dove uno si trovava. Non doveva esserci alcuna
incertezza a proposito dei personaggi, e i momenti di passaggio del
racconto dovevano essere trattati e sistemati con molta cura. Le fasi
culminanti dovevano essere divise e sistemate in punti ben stabiliti
della sceneggiatura. L’apogeo doveva essere riservato per la fine. Le
battute dovevano essere brevi. Le formulazioni letterarie erano
proibite». Certo, quei film francesi erano così diversi da quelli
americani. «E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se
qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo
ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei
film in stile francese, anche se senza molto successo». Lorens Marmstedt
– il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso flop dei primi
film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli
francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e
soprattutto che tu non sei Marcel Carné». Negli stessi anni del
dopoguerra, il cinema americano sembra ripendersi la rivincita nelle
predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come
il noir, destinato a rinnovare la drammargia del cinema classico
americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista
che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che
con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film
di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di
seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare
una storia dall’inizio alla fine in maniera semplice, chiara e ordinata,
esattamente come Raoul Walsh».
Negli anni successivi non viene
meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che
gli sembra incarnare perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo
cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli
sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e
molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le
grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché
ha saputo sperimentare molto, all’interno di un’industria interamente
commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e
rivederlo – Psyco, quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile.
Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una
tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità
cinematografica. Ammiro molto Psyco. E anche Nodo alla gola,
tecnicamente parlando non è del tutto riuscito, ma l’idea è
assolutamente geniale».
Negli anni settanta, il regista non
approva l’atteggiamento polemico che molti assumono nei confronti del
cinema hollywoodiano, contestato soprattutto sul piano politico. Il
cinema americano gli sembra tuttora incarnare la gioia infantile dello
spettacolo, l’esperienza tonificante dell’evasione. «Bisogna stare in
guardia soprattutto quando si ha a che fare con cose che vorrebbero
essere altro da quelle che sono realmente. Ma John Ford non fa mai
niente di tutto ciò, ed è per questo che nella storia del cinema è un
grande e onesto figlio di puttana. Si può anche dire che dopo tutto il
cinema non è poi così importante, è un bene di consumo, qualcosa che si
produce, e alcune pentole vengono bene e altre meno. Ma ripeto: bisogna
condannare solo le false pretese, il sedicente patetico, la tragedia
simulata – è questo che mi fa vomitare. Perché è veramente un veleno».
Nelle
varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della
propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il
processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri
film: «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per
le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad
ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di
secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto
faccio una visita alla realtà».
Non sorprende che per il maestro
svedese il punto d’arrivo del cinema contemporaneo sia Andrej
Tarkovskij. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo
Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza
nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe
spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni
facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta
di Tarkovskij è considerata uno stimolo in grado di indicare un
traguardo possibile, di marcare una soglia dell’espressione
cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me
un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui
allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto
penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi
incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che
io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è
per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che
gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno».
La
linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono
nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma
cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il
rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei
più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi
sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che
Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini.
Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai
piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità
che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità
buñueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre
ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi
tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo
veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».
La
simpatia che ha sempre dimostrato per il cinema francese trova una
conferma solo parziale nella Nouvelle Vague, di cui apprezza i primi
lavori di Jean-Luc Godard e Jules e Jim (1961) di François Truffaut, ma
viene messa poi a dura prova da film come Una storia americana (1966),
Due o tre cose che so di lei (1967), La cinese (1967), che considera
irritanti. Il giudizio sul New American Cinema è particolarmente
caloroso: «Mi piace molto il New American Cinema. Davvero lo apprezzo. È
talmente vitale. Se ne fregano loro delle apparenze e del risultato.
Sono assolutamente privi del manierismo dei francesi, di tutto ciò che è
spumeggiante e fuori dell’ordinario, un po’ ostentato e sterile. Fanno
scoppiare freneticamente tutto, altroché. E trovo bella l’irrequietezza,
la vitalità e la gioia».
Nei confronti del cinema italiano del
dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento generico, di
circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film «sotto il
forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano». Cita
più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei
suoi film preferiti se non il preferito, ma poi sottolinea pesantemente
l’inadeguatezza della recitazione dell’attore non professionista.
L’eccezione è, come si sa, Federico Fellini, con cui il maestro svedese
ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla
visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato al
Lido di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una
saletta del Palazzo del Cinema. «Ho una grande ammirazione per Fellini,
sento una specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente
perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo
amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa
che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo
comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia
affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi».
Sarebbe
sviante ricondurre gli interessi e le scelte dello spettatore Bergman a
una precisa influenza stilistica di un cineasta su un altro cineasta:
«Non ho subito influenze stilistiche da nessun altro regista. Ma le
influenze non sono tanto quelle che derivano dalle implicazioni
professionali. La vita tutta intera ci influenza. I cineasti, meno di
tutto il resto. Perché io non vedo il mondo come loro. Beninteso,
rimango influenzato largamente dai nuovi modi di fare il cinema dove non
si bada agli effetti d’illuminazione e dove si possono ottenere
efficaci risultati con il minimo d’attrezzatura. In un certo modo si
ritorna, così, al cinema delle origini, quando tutto era semplice». Il
problema è tutt’altro che marginale se è in grado di ricondurci al
centro incandescente dell’opera bergmaniana, alle sue ragioni profonde,
radicate nella soggettività dell’autore: «Nessun’altra arte come il
cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare
nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza
diurna. Un nulla nel nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro
quadratini illuminati al secondo, e tra di essi il buio. Quando al
tavolo di montaggio esamino la pellicola quadratino per quadratino, la
sensazione di magia della mia infanzia mi dà ancora i brividi: là
nell’oscurità del guardaroba, girando lentamente la manovella, facevo
succedere un quadratino all’altro, osservavo i cambiamenti quasi
impercettibili; giravo più veloce un movimento. Le ombre, mute o
parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete del mio
animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante,
scintillante, il fruscio della croce di Malta, la mano sulla manovella».
Se
qualcuno teme le contraddizioni – che possono essere numerose non solo
nella propria opera, ma anche nell’intreccio di percorsi e di
atteggiamenti con cui ogni cineasta si incontra con le opere degli altri
– l’invito di Bergman a avere fiducia nelle proprie emozioni sottolinea
ancora una volta la forza del sogno, il richiamo alle ragioni più
segrete dell’io. «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto
importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici,
la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle
proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla.
Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai
suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha
ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o
quelli che il Filminstitutet gli presta, ritrovando il «piacere eterno»
della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La
sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante
immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza
piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si
girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino.
Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».