il manifesto 13.2.18
Il classismo delle scuole non paga
Il
caso. Nonostante i proclami di alcuni dirigenti scolastici, un'indagine
Ocse, e anche il volume «Excellence and equity in education», dimostrano
come l'apprendimento migliore si ottenga in scuole socialmente e
culturalmente miste
di Andrea Capocci
Le
presentazioni delle scuole dei quartieri buoni, come quella del liceo
Visconti di Roma in cui si vanta l’assenza di stranieri, poveri e
disabili, non meritano moralismi e sensazionalismi. Che si impari più e
meglio in una scuola di ragazzi italiani, sani e di buona famiglia è
un’opinione molto diffusa. Puntare il dito contro qualche preside
chiedendo sanzioni esemplari non deve servire a nascondere il malessere
vero che questi episodi segnalano e che non ha un solo responsabile.
Onestà intellettuale richiede di partire dai dati, rassicuranti o
sgradevoli che siano: è vero che licei socialmente omogenei come il
Visconti siano ambienti di apprendimento migliori? In realtà, si tratta
di un luogo comune in gran parte smentito dai risultati dell’indagine
«Programme for International Student Assessment» (Pisa) svolta
dall’Ocse, la più accurata ricerca comparata sui sistemi di istruzione.
Il volume Excellence and equity in education (l’ultima edizione è uscita
a fine 2016) è dedicato appositamente a questo tema.
LA
CORRELAZIONE tra aumento degli alunni stranieri e calo della qualità è
solo apparente. Quando si tiene conto dello status socio-economico degli
immigrati si osserva che, a parità di condizioni sociali, le scuole con
più stranieri ottengono mediamente risultati migliori. Avviene in
Italia ma anche in Scandinavia, Inghilterra, Nordamerica, Spagna.
Inoltre l’Italia, insieme alla Spagna, è il paese in cui le differenze
scolastiche tra stranieri e autoctoni si sono più assottigliate tra il
2006 e il 2015, nonostante il livello di scolarizzazione delle famiglie
straniere di origine sia peggiorato.
DUNQUE, l’assenza o la
presenza di alunni stranieri, di per sé, non garantisce un bel nulla. È
vero, invece, che nelle scuole frequentate dagli studenti di status
sociale superiore (italiani o stranieri che siano) il livello di
apprendimento medio è migliore, anche se rispetto alla media Ocse le
nostre scuole forniscono ambienti educativi mediamente più omogenei. La
percezione dell’impatto negativo degli stranieri in classe, dunque, non
ha ragioni culturali: nasce dal fatto che l’alunno migrante e quello
povero spesso coincidono. Confrontare sistemi educativi diversi è molto
difficile, ma la lezione che traggono i ricercatori Ocse è chiara:
permettendo a studenti di diverso status socio-economico di frequentare
le stesse scuole, si migliora l’apprendimento degli alunni svantaggiati
senza peggiorare quello dei più abbienti.
LE POLITICHE scolastiche
nazionali dovrebbero dunque andare in questa direzione, favorendo un
accesso equo a tutte le scuole. I vari attori del sistema scolastico
italiano hanno colpevolmente ignorato questa lezione, nonostante
provenga da una fonte autorevole e non certo sovversiva come l’Ocse. Le
riforme ministeriali negli ultimi venti anni sono andate nella direzione
opposta: «autonomia scolastica» è stata interpretata in gran parte come
«concorrenza», nell’idea (falsa, come si è visto) che la competizione
tra le singole scuole generi un miglioramento complessivo del sistema.
Le
famiglie, anch’esse poco informate, inseguono le scuole delle classi
sociali più abbienti invece che pretendere istituti scolastici
efficienti anche nelle periferie disagiate.
INFINE, dirigenti
scolastici e docenti (i Rapporti di autovalutazione incriminati sono
scritti anche da loro) assecondano la domanda sempre più insistente
delle famiglie, visto che dalla politica non provengono impulsi in
direzione dell’equità e dell’efficienza.
Possiamo puntare il dito contro qualche dirigente scolastico, ma il classismo della scuola italiana riguarda tutti.