il manifesto 13.2.18
Lo scandalo Oxfam e il nodo ineludibile della degenerazione dell’«umanitario»
di Raffaele K. Salinari
Penny
Mordaunt, ministra britannica per la Cooperazione Internazionale,
definisce un «fallimento morale» lo scandalo sessuale che ha investito
l’organizzazione non governativa Oxfam. Le notizia parlano di fatti
avvenuti nel 2010 dopo il terremoto di Haiti.
E già denunciati
all’epoca dalla stessa organizzazione, rispetto ad incontri dei suoi
cooperanti con prostitute, forse anche minorenni.
Nei giornali
britannici lo scandalo si allarga anche ad altre Ong con base in Gran
Bretagna, sino a lambire la stessa Croce Rossa internazionale. Quali che
siano le evoluzioni, i fatti di Haiti pongono a tutto il mondo della
cooperazione e dell’aiuto umanitario un problema che non può essere
eluso.
Si tratta, in sintesi, di tornare ad interrogarsi sulle
relazioni di potere tra beneficiari e donatori, da sempre evidentemente
squilibrate a favore dei secondi. La temperie geopolitica in cui è nata
la cooperazione internazionale allo sviluppo, negli anni Sessanta del
secolo scorso, aveva già strutturato queste relazioni in modo
decisamente asimmetrico.
Fu il Presidente Truman che diede avvio
alle politiche di cooperazione allo sviluppo, dichiarando esplicitamente
che il resto del mondo avrebbe dovuto seguire il modello statunitense
se voleva giungere, finalmente, ad eguagliare il livello di vita
dell’americano medio. Era l’ideologia dell’american dream; oggi sappiamo
bene cosa significa in concreto, un vero incubo.
Anche oltre la
cortina di ferro la cooperazione allo sviluppo venne utilizzato come
strumento della Guerra fredda, come carota verso i Paesi di nuova
indipendenza. Ma, sia da est che da ovest, ciò che realmente faceva la
differenza, al di la della retorica sviluppista, era il nodoso bastone
della dittature che via via sostituivano i tentativi democratici. Un
esempio per tutti: il Congo di Lumumba barbaramente ucciso per aver
affermato che le risorse del suo Paese erano dei congolesi. Dopo
sessanta anni quella guerra civile miete ancora milioni di vittime, e
per gli stessi interessi.
Ecco allora, come lucidamente già
chiariva Frantz Fanon, che nelle pieghe dello «sviluppo» si nascondono
portati affatto contrari.
L’idea che esiste una leadership alla
quale il resto del mondo si deve di fatto adeguare, sottende
naturalmente il disprezzo, più o meno manifesto, per le culture che,
secondo questa visione, sono «sottosviluppate» a cagione della loro
storia.
Ecco allora che a forme di sfruttamento palese, attraverso
la presenza coloniale, si sostituiscono modalità più sottili, ma non
meno invadenti, di colonizzazione del simbolico. Kwame Nkrumah, leader
panafricanista del Ghana indipendente, evidenziava senza mezzi termini
la necessità di «decolonizzare il simbolico» dei popoli africani.
Fanon
dedica a questi temi i Dannati della terra e Pelle nera maschere
bianche. Oggi vediamo chiaramente come queste dinamiche di potere
giocano pesantemente anche nel campo dell’accoglienza e dei migranti
trasformandosi in razzismo e xenofobia, in revisionismo storico e
sovranismo.
La degenerazione dell’umanitario, però, risulta molto
più estesa se consideriamo che oramai le Ong internazionali sono sotto
il fuoco incrociato anche di Governi sedicenti democratici, a partire
dai divieti di salvataggio in mare dei migranti sino alla loro
sostituzione con gli eserciti, costituzionalmente alieni alle regole
della neutralità ed indipendenza. Se si dovessero ricordare gli scandali
legati agli interventi umanitari militari la lista attraverserebbe
ognuno di essi.
Ma, proprio partendo da queste evidenze, le Ong
hanno cominciato, sin dagli anni Ottanta, ad introdurre codici di
condotta sempre più stringenti, sia per quello che concerne i criteri di
reclutamento sia per la vigilanza interna. Altro dato significativo,
come nel caso di Oxfam appunto, la presenza delle donne ai vertici delle
Ong, divenuto strutturale per introdurre forti correttivi alle
dinamiche di genere.
Certo molto resta ancora da fare ma la
capacità delle Ong di far pulizia al loro interno e di dotarsi di
strumenti di prevenzione di questi fenomeni va letta come lo sforzo di
superare quel portato ancora oscuramente sviluppista che rappresenta la
peggor negazione degli ideali contenuti nella Carta dei Diritti
dell’Uomo.