il manifesto 10.2.18
Oltre il mito della rivoluzione luterana
Percorsi.
Un sentiero di letture per indagare meglio cosa significò l'atto
fondativo della Controriforma, alla luce delle tradizioni precedenti del
Medioevo
di Marina Montesano
Si è appena chiuso
l’anno nel quale convegni e pubblicazioni hanno ricordato
l’anniversario dell’affissione delle 95 tesi di Lutero sul portone della
chiesa di Ognissanti del castello di Wittenberg, il 31 ottobre 1517.
Senonché, come già ricordava Adriano Prosperi (Lutero. Gli anni della
fede, Mondadori), in base a un dibattito sulla vicenda già acceso da
tempo, è probabile che questo atto fondatore non sia nemmeno mai
avvenuto.
Le tesi avrebbero avuto una circolazione inizialmente
meno spettacolare, all’insegna della ricerca di un accordo, cosa
peraltro in linea con la personalità di Martin Lutero. Una nuova,
corposa biografia del riformatore tedesco, scritta da Silvana Nitti
(Lutero, Salerno, pp. 528, euro 29), ripercorre la vicenda, affermando:
«Non è da escludere la possibilità che le tesi siano state
effettivamente affisse al portale della chiesa che era, in quanto chiesa
della residenza ufficiale dell’Elettore, fondatore e patrono
dell’università, normalmente usata per gli avvisi o per il materiale
didattico; una specie di bacheca dell’ateneo, insomma. Ma è certo che la
critica al mito del 31 ottobre 1517 (…) resta pienamente valida proprio
in quanto si tratta di un gesto niente affatto sconvolgente».
È
DA TEMPO, peraltro, che la rivoluzione del luteranesimo viene
riconsiderata alla luce del contesto e del fatto che la cultura del
fondatore fosse in realtà ancorata nella tradizione precedente, quella
che siamo soliti chiamare «medievale». Ed è quanto fa anche Silvana
Nitti ripercorrendo con ordine la vicenda del teologo agostiniano
sassone. La causa immediata della rivolta fu la stanchezza per la
riscossione delle tasse ecclesiastiche («decime»).
MARTIN LUTERO
insorse contro la corrotta Chiesa di Roma nel nome della libertà di
coscienza, dell’annullamento della separazione tra chierici e laici
(«sacerdozio universale»), del libero esame delle Scritture contro
l’autorità gerarchica ecclesiale, del valore simbolico (e non reale)
dell’eucarestia.
La «fede riformata» di Lutero si precisò nel 1530
alla dieta di Augusta, nella quale, su richiesta di Carlo V, che voleva
aver chiari i limiti della Riforma, il teologo Filippo Melantone
presentò un documento, la Confessio Augustana, in 28 punti. Il
disaccordo tra l’imperatore e i principi che avevano aderito alla
Riforma si precisò nella dieta di Smalcalda, nella quale essi
presentarono una loro «protesta» formale contro il sovrano. Dopo un
periodo di scontri militari e di trattative, si giunse alla pace di
Augusta del 1555, nella quale si stabilì il principio cuius regio, eius
religio: i territori avrebbero dovuto seguire la religione del loro
rispettivo principe.
ALCUNI PRINCIPI TEDESCHI accettarono infatti
la Riforma proposta da Lutero, almeno in parte per incamerare i beni
della Chiesa. Ma repressero con durezza i movimenti religioso-popolari e
contadini (come gli anabattisti di Thomas Müntzer) che avrebbero voluto
«l’avvento del Regno dei Cieli sulla terra», cioè inaugurando un nuovo
ordine evangelico ed egalitario.
Riformare la Chiesa in modo da
ricondurla alla purezza dell’età apostolica era stato in effetti un
vecchio sogno dei cristiani. L’adagio reformare reformata («conferire di
nuovo la forma corretta a quanto si è deformato») era molto popolare
nel medioevo almeno fin dall’XI secolo: e molte erano state le riforme
tentate, sia dalla gerarchia sia dai fedeli, nel corso dei secoli XI-XV.
Ma la situazione di mondanità della Chiesa nel Quattrocento era
divenuta insostenibile. I movimenti popolari e anche dottrinali del
Quattrocento, soprattutto quelli guidati da John Wycliff in Inghilterra e
da Jan Hus in Boemia, erano stati determinati dal disagio dello
spettacolo d’una Chiesa corrotta da parte di intellettuali e fedeli che
l’avrebbero invece voluta vedere povera, lontana dall’esercizio del
potere mondano e della ricchezza, aderente allo spirito del Vangelo. Ma
l’Inquisizione li aveva sempre repressi. La differenza, nel XVI secolo,
fu data dal fatto che le condizioni generali erano ormai cambiate.
LA
RIFORMA di Martin Lutero si sviluppò dunque, rispetto ai tentativi del
passato, appoggiandosi agli stati e ai poteri costituiti, ma essa
inaugurava anche un periodo per l’Europa fatto di guerre e crisi
profonde, come mostra la lettura di Mark Greengrass, La Cristianità in
frantumi, Europa 1517-1648 (Laterza, pp. 820, euro 38). In Inghilterra,
Enrico VIII aveva accettato la Riforma sotto il profilo disciplinare,
che gli consentiva di staccare la Chiesa d’Inghilterra dall’obbedienza
al papato romano e di porla sotto il suo diretto controllo: per il
resto, però, teologia e liturgia restavano quelle cattoliche.
Sotto
i suoi successori Giacomo I ed Elisabetta I, la Chiesa anglicana andò
progressivamente accettando influenze protestanti. Il calvinismo,
fondato da Giovanni Calvino, si andò affermando in parte della Svizzera,
in Scozia (dove nel 1560 il parlamento abolì il cattolicesimo per
abbracciare il «presbiterianesimo» di John Knox) e in Olanda.
In
Svizzera, insieme a cantoni che restavano cattolici o luterani, Ginevra
fu calvinista mentre altrove si affermarono le dottrine zwingliane e
quelle di Guillaume Farel. Le comunità valdesi aderirono alla Riforma.
Germania, Boemia, Moravia e Ungheria si divisero tra cattolici e
luterani. I gruppi riformati in Italia e in Spagna furono duramente
repressi e non incontrarono appoggio a livello popolare.
Tra la
metà del XVI secolo e quella del XVII l’Europa fu dilaniata da vere e
proprie «guerre di religione», che si sommarono a conflitti politici e
sociali. In Francia, nel 1559 un sinodo nazionale calvinista definì
quella confessione (gli aderenti alla quale assunsero il nome di
«ugonotti»), ch’era forte soprattutto nell’aristocrazia ed era vicina
anche alla corte. Dopo alterne vicende (famosa la «Notte di San
Bartolomeo», 24 agosto 1572) una vera e propria guerra civile si
concluse con l’ascesa al trono di Enrico di Borbone, capo degli
ugonotti, che – col nome di Enrico IV – si convertì al cattolicesimo
assicurando ai suoi ex-correligionari le libertà essenziali.
LA
GUERRA «dei Trent’anni» (1618-1648), nata come conflitto religioso, ma
complicata dall’alleanza tra la Francia e i protestanti tedeschi, si
chiuse nel 1648 con le paci di Westfalia che modellarono la mappa
religiosa europea definitiva. A parte Scozia e Irlanda, dove fra Sei e
Settecento le persecuzioni protestanti si dettero a massacri
indiscriminati contro i cattolici, eliminandoli o quasi dalla Scozia e
dall’Irlanda settentrionale. In tempi come i nostri, nei quali si prova a
ricucire il rapporto fra comunità, confessioni e Chiese che sono state
separate anche nel sangue, ricostruire questa storia è più importante
che celebrare anniversari.