Il Fatto 26.2.18
La “ribelle” fotogenica che divide i palestinesi
Ha
schiaffeggiato un soldato israeliano, ma è un’eroina quasi solo in
Occidente. Tra i giovani arabi, traditi anche dalla loro Autorità,
prevale la disillusione
di Francesca Borri
Per
gli attivisti internazionali, mobilitati in tutta Europa, è la nuova
Mandela. La nuova Malala. Per gli israeliani, invece, che da un mese
ormai non parlano d’altro, è un’attrice. La Knesset ha commissionato
un’indagine per capire se davvero Ahed Tamimi, 17 anni, capelli biondi e
occhi chiari, e nessun hijab, sia palestinese. O non sia forse pagata,
insieme a tutta la sua famiglia, per animare le manifestazioni del
venerdì di Nabi Saleh, un agglomerato di case vicino Ramallah che dal
2010 si oppone all’espansione dell’insediamento di Halamish; dei suoi
600 abitanti, 350 sono stati feriti. E 50, ora, inclusa la madre di
Ahed, hanno disabilità permanenti.
Il 18 dicembre Mohammed Tamimi,
14 anni, finisce in coma per un proiettile alla testa. Si salverà, ma
con mezzo cranio in meno. Un’ora dopo, sua cugina Ahed nota un soldato
all’ingresso di casa. Gli dice di andare via, comincia a strattonarlo: e
gli tira uno schiaffo. Il video diventa virale. E il 19 dicembre, in
piena notte, l’esercito torna ad arrestarla.
Da allora, Ahed è in
carcere per assalto alle forze di sicurezza. Solo un paio di settimane
prima, Trump aveva deciso di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata Usa
in Israele. E si erano avuti scontri e morti un po’ ovunque. Ma alla
fine, l’Intifada che tanti si attendevano non è mai iniziata. Ma se per
gli attivisti internazionali è un’eroina e per gli israeliani “una che
andrebbe punita al buio, senza testimoni né telecamere”, come ha scritto
il noto editorialista Ben Caspit, chi è Ahed Tamimi per i palestinesi?
Ehab Ewedat, 23 anni, Hebron
“Ma
che senso ha uno schiaffo? Cosa cambia? I miei, se mi avessero visto
discutere con un soldato, si sarebbero precipitati a tirarmi via: non
sarebbero certo stati lì a filmare come la madre di Ahed. Genitori così
istigano i figli. E consapevolmente o meno, finiscono per usarli e
strumentalizzarli, privandoli del diritto di essere bambini. Esattamente
quello che fa Israele. Vivo a Hebron, che non è molto diversa da Nabi
Saleh, perché è l’unica città in cui i coloni non vivono in
insediamenti, ma in mezzo a noi, casa per casa: e quindi gli scontri
sono quotidiani. Gli attivisti sono molti, fondamentali, certo. Ma
diciamo la verità: sono anche uno contro l’altro, tutti in competizione
tra caccia a fama e finanziamenti. Da quando sono arrivati gli
internazionali, è diventato tutto una specie di sceneggiata. Di
attrazione turistica. Sembra che la resistenza consista nello sfidare i
soldati ai checkpoint. Nell’intossicarsi un po’ di gas. Ma è tutto molto
più complesso. Perché non siamo contrapposti: siamo interconnessi
economicamente e amministrativamente. E il mondo invece pretende di
congelarci nell’immagine del ragazzo con la kefiah e la fionda, e da noi
si aspetta solo il sacrificio in nome della terra, speculare a quello
dei coloni, che per stare inchiodati alla terra, abitano in luoghi
assurdi, colline di sassi in cui a stento sopravvivono le capre.
Resistere è restare qui, ma vivendo una vita vera. E invece adesso Ahed
sarà rilasciata, e inizierà a girare per conferenze in tutto il mondo”.
Mariam Barghouti, 24 anni, Ramallah
“Una
nuova Intifada? L’unica vera battaglia dei palestinesi, in questi mesi,
è stata per il 3G. Gli scontri sono quotidiani, sì. Ma ormai tirare
pietre non è che uno sfogo. Non abbiamo più nè leadership nè strategia.
Fatah e Hamas sono reti clientelari al servizio degli israeliani. Oslo
ha cambiato tutto. L’idea era rinviare la discussione sulle questioni
più difficili, come gli insediamenti, o i rifugiati, e iniziare intanto a
costruire questo famoso stato palestinese: nella convinzione che lo
sviluppo economico avrebbe allentato le tensioni, e semplificato i
negoziati. Ma non c’è sviluppo possibile se non controlli le frontiere,
le importazioni e le esportazioni. Né le infrastrutture, se non
controlli risorse come l’acqua e persino le tasse vengono riscosse da
Israele. La ricchezza che vedi è un’illusione. Qui tutto è fondato sui
debiti, prestiti e mutui. Se lavori trenta ore al giorno, non hai tempo
per un’Intifada, il settore privato è minimo, le sole opportunità di
lavoro sono Israele o la pubblica amministrazione. E, in entrambi i
casi, sei prima sottoposto a uno screening di sicurezza. Prima di
assumerti, si assicurano che tu non sia politicamente impegnato. Però,
onestamente, con tutte le nostre responsabilità, è anche vero che tra
gli attori di questo conflitto, siamo quelli nella posizione più
difficile. State sempre a chiederci perché non iniziamo una nuova
intifada. E la mia risposta è: Oslo e tutto quello che ha generato. Ma
voi eravate i garanti di Oslo. E allora? Voi che avete molta più forza,
molto più potere, molte più opzioni di noi, perché non tirate uno
schiaffo a Israele?”.
Khadija Khweis, 40 anni, Gerusalemme
“Io
vivo a Gerusalemme, e il mio obiettivo è non essere arrestata. È quello
che Israele cerca: un pretesto per cacciarmi da qui. Ora si parla tanto
dello stato unico. Con tutti questi insediamenti, si dice, non c’è più
spazio per due Stati, il processo di Oslo ormai è fallito. Ma
Gerusalemme è il laboratorio di questo famoso stato unico da cui siete
tanto affascinati, per gli israeliani è la città che più di ogni altra è
indivisibile. E il risultato è che mi è vietato anche solo avvicinarmi
alla moschea di al-Aqsa. Gerusalemme è come Hebron. La nostra vita è
segnata da mille incidenti, mille logoranti soprusi quotidiani che non
finiscono sulla stampa internazionale. E la polizia non interviene mai.
In questo stato non siamo cittadini. Nel 1980 Israele si è annesso
Gerusalemme, ma non ci ha esteso la cittadinanza. Non abbiamo diritto di
voto. abbiamo solo un permesso di residenza permanente revocabile se
non stai qui per più di 7 anni o se Gerusalemme non è più il centro
della tua vita. Per esempio se lavori nella West Bank. Paghiamo tutti le
stesse tasse, ma solo il 52% delle nostre case è allacciato
all’acquedotto. Questo è lo stato unico. Neppure la resistenza è più una
sola. Ahed ha scelto quello che era giusto per il contesto di Nabi
Saleh. Ma qui saresti arrestato e basta. Arrestato e cacciato via. E
comunque abbiamo bisogno di molto più che un’Intifada. Finora solo
Hezbollah ha tenuto testa a Israele. Ma con una guerra, non con uno
schiaffo”.
Yahia Rabee, 21 anni, Birzeit Student Council
“La
storia di Ahed per un palestinese non è niente di speciale. Ahed è
perfetta per voi, più che per noi: è bionda, senza hijab, con quell’aria
così europea, così poco araba. Ma distrae da quella che è la priorità:
l’Autorità palestinese. L’occupazione non è cambiata. Israele è sempre
lo stesso, e anche noi siamo sempre gli stessi, nessuno si è arreso. Ma
ora tra noi e Israele c’è una barriera in più, quella dell’Autorità
palestinese, che spende un terzo del suo bilancio in sicurezza. Fa
questo, di mestiere. Reprime. E abbiamo tutti paura. Ci arrestano e ci
consegnano a Israele. In cambio, e ormai non è un segreto, di monopoli e
rendite di posizione nei settori più vari dell’economia, dall’edilizia
al commercio, dalle telecomunicazioni alle banche. I figli di Mahmoud
Abbas, Yasser e Tareq, sono a capo di un impero che fattura milioni di
dollari. E le loro aziende hanno infinite connessioni con l’Autorità
palestinese. Ma se ti azzardi a scrivere di questo anche solo su
Facebook finisci in carcere o ucciso. Questo è un regime autoritario. Il
Consiglio legislativo non si riunisce dal 2007. Mahmoud Abbas governa
per decreti: e il suo mandato è scaduto nel 2010. Non esistono più spazi
di espressione e organizzazione. E così è difficile avviare una nuova
Intifada. Sono tutti sfiduciati. Ti dicono: ‘Abbiamo tentato di tutto’. E
non ha funzionato niente. E però non è vero: in cambio di Gilad Shalit,
abbiamo ottenuto il rilascio di 1.027 prigionieri. Perché la violenza è
un linguaggio che Israele comprende bene. Ed è quello con cui ci
intenderemo”.
Sami Hureini, 21 anni, At-Twani
“In
realtà, qui quello preso a schiaffi sono io. Da quando ero piccolo. Da
quando andavo a scuola, e i soldati dovevano scortarci, e difenderci dai
coloni. Dalle pietre e dagli sputi. Hanno fondato prima un
insediamento, e poi anche un avamposto, lì dentro, dentro quel bosco,
sono ovunque. E sono armati. Altro che schiaffo: se mi avvicino, mi
sparano. Anche se onestamente, non è solo questo. Soprattutto per la mia
generazione. Sono cose blasfeme, ma la verità è che vogliono andare
tutti in Israele, funziona tutto molto meglio, è tutto molto più avanti.
E l’unico lavoro possibile non è il commesso o il muratore. E
onestamente, lo stato unico non sarà mai uno stato a maggioranza araba,
come sperano in tanti. Perché se davvero un giorno gli equilibri
demografici dovessero cambiare, a Israele sarebbe sufficiente chiedere
all’Europa di lasciare entrare i palestinesi senza visto. E partirebbero
tutti. Comunque, detto questo, non ho la minima intenzione di tirare
uno schiaffo a un colono. Sono gli israeliani ad avere bisogno della
violenza per restare qui, non io.
Anonimo, 31 anni, Nablus
Immagino
ti abbiano già detto tutto… Che non abbiamo una leadership. E che
comunque abbiamo tutti una sorella, un fratello in carcere, e quindi che
novità è? E poi abbiamo il mutuo da pagare. Anzi, tre mutui. E ti hanno
detto, no? Che se parli, qui, ti arrestano. E che tanto è inutile: tiri
uno schiaffo a un soldato, e allora? Israele ha il nucleare. Non
scriverai il mio nome, vero? Che non voglio guai. Ma al fondo, la verità
è che Ahed ha coraggio, e noi no. E stiamo qui a trovare scuse.