Il Fatto 23.2.18
Carceri, la riforma è buona. Ma non c’è
di Giovanni Maria Flick
Nel
2015 gli Stati generali sul carcere e una successiva commissione
ministeriale hanno avviato la riforma dell’ordinamento penitenziario,
giungendo alla legge delega e al decreto legislativo oggi in
fibrillazione con tre anni di lavori. A questi hanno partecipato
numerosi magistrati, operatori, avvocati, studiosi, esponenti della
società civile di diversa estrazione, esperti nei problemi della realtà
drammatica del carcere, con un dibattito trasparente e pubblico. Non ho
partecipato a quei lavori, perciò non ho un conflitto di interessi per
difendere la riforma.
Ho l’esperienza istituzionale di ministro
della giustizia e di giudice costituzionale, ormai molto tempo addietro,
e quella culturale di cittadino e di studioso, per porre a confronto
l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”) con la realtà e la quotidianità del
carcere. È un confronto impietoso: è sintetizzato nella condanna
dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani, per le
condizioni di sovraffollamento; è denunziato, fra i tanti, dalle voci
del Pontefice e del Presidente della Repubblica; è espresso dai 52
suicidi (uno alla settimana!) dello scorso anno in carcere. È un
confronto emblematico del fatto che in molte parti la nostra
Costituzione è attuale per i valori che propone, ma non è attuata per il
modo con cui sono tradotti nella realtà. Contro la riforma è stata
evocata la convinzione di alcuni magistrati (non molti) sul rischio che
l’eccesso di garanzie consenta ai mafiosi di approfittarne per uscire
dal regime del 41 bis (il carcere duro per evitare contatti con
l’esterno). Aggiungerei a quel timore la perplessità di quei magistrati
sulla eliminazione di alcuni automatismi, con i quali la legge vincola
l’intervento del giudice di sorveglianza nel trattamento penitenziario;
nonché la loro perplessità sulla parificazione fra i padri mafiosi e le
madri decedute o impossibilitate, per provvedere ai figli minori di
dieci anni o in condizioni di handicap. La maggioranza dei magistrati
(fra cui giudici di sorveglianza) – alcuni dei quali hanno partecipato
ai lavori – contesta invece quei rischi, perché la legge delega esclude
esplicitamente dalle previsioni della riforma i detenuti condannati per
criminalità organizzata o per terrorismo. L’art. 41 bis non può
diventare un carcere “ancora più duro” – condannato dalla Corte
Costituzionale – al fine di spingere i detenuti esclusi dai benefici
alla collaborazione per ottenerli. Gli automatismi legislativi possono
essere e spesso sono in contrasto con il diritto del detenuto al
trattamento rieducativo (anche e soprattutto attraverso le c.d. misure
alternative); e sono in contrasto con il princìpio della riserva di
giurisdizione, per il rispetto dei “residui” di libertà compatibili con
la reclusione. Infine la parità fra madre e padre è espressione di un
princìpio fondamentale di eguaglianza, affermato dalla Corte
Costituzionale in questo caso. A conferma, alcuni fra i magistrati più
decisi nell’opposizione alla riforma hanno ammesso tardivamente che
l’uscita in massa dei boss forse non vi sarebbe stata; e che la riforma
avrebbe se mai provocato molti ricorsi e contenziosi (che sono un
diritto dei detenuti, per difendere quei “residui”). Essa è stata
giudicata positivamente dal Consiglio Superiore della Magistratura,
dalla magistratura nel suo insieme, dal Garante dei detenuti e da chi
conosce un poco la realtà del carcere e la sua differenza dagli alberghi
a 4 o 5 stelle cui viene troppo spesso paragonato da chi ignora quella
realtà. Il Presidente del Consiglio si era impegnato a portare a
compimento il primo passo della riforma: il decreto legislativo
ritornato ieri al Consiglio dei Ministri dopo i rilievi e i suggerimenti
non vincolanti proposti dalla Camera e in maniera molto più radicale
dal Senato. Tuttavia l’approvazione in articulo mortis non v’è stata.
V’è stato un rinvio al prossimo Consiglio dei ministri – sembra il 7
marzo prossimo, dopo le elezioni – per decidere se e in quale misura
accogliere le raccomandazioni del Parlamento. In cambio (si fa per dire)
sono stati presentati al Consiglio tre schemi di decreti (sui minori,
sul lavoro in carcere, sulla giustizia riparatoria) importanti nel
contenuto, ma appena all’inizio della loro “lunga marcia”. In questa
situazione temo di dover in gran parte condividere il giudizio formulato
da Antonio Padellaro (Senza Rete, Fatto di domenica 18 febbraio
scorso): il rischio di “salvarsi la coscienza con una riforma studiata
male per poi scegliere di lasciare tutto immutato”, attraverso i ritardi
nella presentazione della riforma. Sono ritardi certamente
inaccettabili, ma non imputabili ad essa. Dissento da Padellaro solo in
un punto: la riforma non è stata studiata male, per il modo e il tempo
con cui è stata pensata, elaborata, discussa ed approvata; è stata
presentata male. E mi auguro che tutte le riforme vengano studiate con
l’ampiezza e la profondità che hanno caratterizzato i lavori di quella
del carcere.