Corriere 23.2.18
Boris Pahor
«Ho 104 anni ma non penso mai alla vecchiaia
L’ultima volta che ho avuto una donna? A 85»
Candidato
più volte al Nobel, è nato quando dominava l’impero asburgico. La sua
vita è un romanzo che ha attraversato la storia del Novecento: «Mai
smettere di coltivare i propri interessi»
intervista di Marisa Fumagalli
Avere
104 anni e non sentirli. « O meglio — dice — ogni volta che mi prende
un malanno per un attimo penso all’età che avanza. Poi passo oltre.
L’espressione “sono diventato vecchio” per me non esiste». L’incontro
con Boris Pahor nella villetta dove abita, affacciata sul golfo di
Trieste, non è il primo. Ma questa volta è speciale. Sorprendente.
Occorre persuadere lo scrittore ad affrontare il tema della vecchiaia,
distogliendolo dagli argomenti — importanti e drammatici — che hanno
segnato la sua lunghissima vita. Spicca l’azzurro del maglioncino che
indossa mentre parla seduto di fronte a noi. Gagliardo. «Ti dedico
un’ora e non di più — avverte —. Devo cenare in anticipo, poi vengono a
prendermi per andare al Teatro Rossetti. Proiettano il film-documentario
di Elisabetta Sgarbi, “L’altrove più vicino”. Dentro c’è anche la
lettura di brani delle mie opere». Sorseggia acqua da una bottiglietta,
di tanto in tanto: «Prescrizione medica, a causa di un’ernia iatale. Sia
chiaro, non sono amico dei dottori. Tendenzialmente, mi curo da solo.
Il mio ricostituente? Latte e zucchero. Se non c’è fresco, va bene
condensato. Questo alimento mi ha aiutato quando non avevo di che
nutrirmi». La badante porta il caffè per entrambi. Nelle parole di Pahor
lei «è la gentile signora che si occupa di me», 24 ore su 24, soltanto
da pochi mesi. «Mi sono deciso a questo passo dopo una caduta in casa»,
spiega. Il grande vecchio, vedovo dal 2009, in seguito alla morte della
moglie Rada («era una donna bella e spumeggiante»), abitava da solo. Si
faceva bastare una colf saltuaria per le faccende domestiche.
L’esistenza
centenaria di Pahor è un romanzo. Sloveno di cittadinanza italiana,
nato a Trieste quando ancora dominava l’impero asburgico, ha vissuto
sulla sua pelle i più grandi orrori del passato: la prima guerra
mondiale, la repressione fascista nella Venezia Giulia, la seconda
guerra mondiale, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti (aveva
collaborato alla resistenza antifascista slovena); infine, l’ostracismo
comunista all’epoca della Jugoslavia di Tito. Scrittore prolifico,
tradotto in tutto il mondo (più volte candidato al Nobel), la sua opera
più famosa è “Necropoli”, viaggio nella memoria dei terribili giorni
passati nel lager di Natzweiler-Struthof. Scritta in sloveno nel 1967
(la lingua madre è una precisa scelta di appartenenza, Pahor si laureò a
Padova in Letteratura Italiana), in primis fu tradotta e apprezzata in
Francia. Nel nostro Paese invece il testo fu pubblicato soltanto nel
2008. Da allora, la notorietà dello scrittore è andata crescendo.
Il
grande vecchio sorride: «Non ti vedo bene, ma ascolto le domande».
Porta gli occhiali, ma ha perso la vista dell’occhio destro. Gliene
rimane uno buono. Così può ancora battere sui tasti della macchina per
scrivere. Sentenzia: «Mai smettere di coltivare i propri interessi, se
si hanno le forze. Ad ogni età. Viaggiare o collezionare francobolli,
non importa; occorre avere cura per ciò che si desidera fare. Io lavoro
ancora». Un libro? «Sì, un libro. Complicato. Mi lasciano perplesso
alcune opinioni dell’amico Alojz Rebula, che ora sembra aver cambiato
orientamento. È una questione complessa. Riguarda il ruolo svolto dai
cristiano-sociali durante la seconda guerra mondiale e la loro
partecipazione alla lotta di liberazione. Nel suo ultimo saggio
‘Korintski steber’(‘La colonna corinzia’), Rebula ne rivaluta l’azione.
Devo raccontare come andarono veramente le cose. L’idea è di costruire
il libro in forma di dialogo. Ci sto provando». Quante ore di attività
al giorno? «Scrivo dalle 9 alle 12 e dalle 16 alle 18. Nel pomeriggio mi
prendo un paio d’ore di riposo. Abitudine recente».
La dieta di
un centenario? «Molto semplice. La mattina prendo il caffelatte con
pane, burro e marmellata. Per il resto, nei mie pasti ci sono i passati
di varie verdure, un po’ di formaggio e un po’ prosciutto, frutta di
stagione». Torna sull’ernia iatale: «È un disturbo che interessa stomaco
ed esofago. Si è acuito, la diagnosi risale ai tempi del sanatorio di
Parigi, dove finii, tubercolotico, dopo il campo di concentramento».
Già, dal lager all’ospedale. Tempra forte, riuscì a guarire, lo
aiutarono a riprendersi anche le amorevoli attenzioni di un’infermiera
francese... Fra i due più che una simpatia. Vero? Sorride, Pahor: «Il
nostro fu un grande sentimento; importante, contrastato. Impossibile».
(La relazione con Arlette è scolpita nelle pagine di «Una primavera
difficile»).
L’amore? «L’amore per le donne ha occupato molto
spazio nella mia vita — dice —. Ho scritto molte lettere d’amore.
Confesso che sono per l’amore libero e che non sono stato un campione di
fedeltà, pur volendo molto bene a mia moglie». «Se fosse stato per me —
continua — non mi sarei sposato. Detesto i vincoli, la libertà è tutto.
D’altronde, Rada proveniva da una famiglia molto religiosa — uno zio
paterno, Stanko Premrl, musicista, era un monsignore — e, alla fine,
accettai il matrimonio. Civile, però». Come si ama da vecchi? «Si ama,
si ama...I sentimenti non hanno età. Fisicamente è un po’ diverso,
ovvio. Oggi ci si può aiutare con farmaci mirati. Io sono favorevole,
con prudenza. C’è il rischio di effetti collaterali... meglio consultare
il medico». Lei...«Se li ho provati? No, ma posso dire di aver fatto
sesso attivo fino a 85 anni». Sorride, sornione. «Nelle case di riposo
si parla d’amore, le carezze restano anche da vecchi — osserva — Non ho
certo rinunciato ad accarezzare un corpo femminile». L’ultima volta? «È
successo un anno fa… una bella signora…». «Lei era d’accordo», precisa.
Boris Pahor ha due figli, Maja («abita qui vicino, la vedo spesso»)e
Adrian. Due i nipoti. Non è il tipo di nonno che ti aspetti. Un
irregolare. «Ormai sono adulti, li incontro volentieri, quando vengono a
trovarmi — racconta — Non mi va, però, di perdermi in smancerie
affettuose, ho altro da fare. Del resto, non sono stato neppure un padre
esemplare. Non andavo a prendere i bambini a scuola, gli dedicavo poco
tempo. Mia moglie me lo rimproverava». Ha un’anima panteista, il grande
vecchio. Lo dice guardando il mare all’orizzonte. Cita volentieri
Spinoza (“Deus sive natura”), il filosofo di riferimento. Religioso ma
non credente, la sua forma di ateismo sembra essere frutto
dell’esperienza nel campo di concentramento. Paura della morte? «Mi
dispiace lasciare la vita», risponde. «Soprattutto non vorrei perdere il
ben dell’intelletto», chiude. Orologio alla mano, un’ora esatta di
conversazione. Siamo ai saluti. Poco dopo, Pahor telefona: «Grazie, mi
scuso se ti ho messo fretta».