venerdì 16 febbraio 2018

Corriere 16.2.18
Il rebus Dj Fabo La Consulta e il lasciarsi morire
di Sabino Cassese


La punizione dell’aiuto al suicidio rispetta la libertà costituzionale di decidere quando e come morire, e può essere sanzionata nello stesso modo dell’istigazione al suicidio? Questa è la domanda che la Prima Corte di assise di Milano ha posto alla Corte costituzionale. Il giudice milanese non dubita che determinare altri al suicidio o rafforzarne il proposito debbano esser puniti. Si chiede se il solo fatto di accompagnare in auto in Svizzera Fabiano Antoniani, detto Fabo, perché questi realizzasse il suo proposito di suicidarsi, possa essere considerato un reato, commesso da Cappato. L’istigazione e l’aiuto al suicidio sono puniti dall’articolo 580 del codice penale Rocco (1930). La Corte di Cassazione ha interpretato «aiuto» nel senso più ampio, includendovi qualsiasi contributo materiale al suicidio. La Corte di assise di Milano fonda il suo ragionamento su numerosi articoli della Costituzione italiana e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati rispettivamente dalla Corte costituzionale italiana e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il potere della persona di disporre del proprio corpo — dice la Corte — include la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita. Il diritto di lasciarsi morire deriva dal diritto all’autodeterminazione e dal diritto al rispetto della vita privata — sostengono i giudici milanesi. La Corte costituzionale, ora chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale della legge, ha davanti un problema non facile. La prima difficoltà deriva, paradossalmente, dai progressi fatti dalla medicina. Questa riesce oggi ad assicurare la sopravvivenza delle persone anche in condizioni estreme, mentre una volta la morte sopravveniva in modo naturale. La seconda deriva dalla ardua definizione della nozione stessa di vita: può definirsi tale quella del corpo di un individuo tetraplegico, cieco, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione, nell’evacuazione, con ricorrenti contrazioni e spasmi? Qualche decennio fa, un problema analogo si pose per la definizione di morte. Una commissione medica, negli Stati Uniti, decise che questa si verifica con la morte cerebrale. Tale conclusione venne accettata dovunque e ha dato vita a centinaia di persone, consentendo trapianti di organi che prima non erano possibili, a cominciare dal cuore. La terza deriva dalla contraddittorietà delle norme legislative italiane. L’aiuto al suicidio è punito, non lo è il tentato suicidio. L’aiuto al suicidio è punito, ma al medico, nel caso di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, è consentito di ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. L’ultima difficoltà deriva dalla necessità di delimitare l’aiuto al suicidio, per evitare che una sua decriminalizzazione possa essere intesa come una legittimazione della istigazione al suicidio. Nel luglio 2009, una solenne adunanza dell’Appellate Committee dell’House of Lords inglese decideva un caso simile. Debbie Purdie, una donna colpita da sclerosi multipla, si chiedeva se non fosse una violazione dei diritti umani non sapere, prima della sua prossima morte, se suo marito sarebbe stato punito per accompagnarla in una clinica svizzera per realizzare la sua decisione di suicidarsi. Molti dei presenti, nella austera e fastosa sala delle udienze, erano commossi, sia per la dolorosa richiesta e la prova di affetto che veniva così manifestata, sia perché quello era l’ultimo giorno di vita di una istituzione pluricentenaria, i cosiddetti Law Lords (dopo qualche giorno sarebbe entrata in funzione la Corte Suprema del Regno Unito). La Corte decise che il diritto alla vita privata di quella donna meritava rispetto e che il marito che l’avrebbe accompagnata nell’ultimo viaggio, verso la morte, non poteva esser ritenuto colpevole.

La Stampa 16.2.18
Dall’ex fidanzata all’insegnante eroe
Così Nik ha scelto con cura i bersagli
di Francesco Semprini


Un obiettivo preciso e circoscritto, su bersagli ben identificati. Quello che distingue la strage di Parkland, in Florida, rispetto alle altri azioni di ordinaria follia sembra essere la precisione delle vittime, in particolare degli studenti. Un insegnante eroe, un coach di football e ragazzi, tanti ragazzi, alcuni dei quali al primo anno di liceo. Nikolas Cruz sapeva esattamente dove andare a colpire e chi colpire, forse persone che riteneva vicine a Jaime Guttenberg, studentessa di 17 anni, la prima vittima identificata della strage nella scuola in Florida.
I loro genitori, Fred e Jennifer Guttenberg, speravano disperatamente di trovare la figlia fino a quando ieri è arrivata la tragica notizia. Dopo ore di disperata attesa sono stati avvertiti dopo che avevano aiutato i compagni di classe della ragazza via Facebook rassicurandoli comunque che Jesse, il loro altro figlio che frequentava la scuola, era salvo. L’identità degli altri studenti caduti sotto i colpi della follia omicida dell’ex iscritto al liceo sono solo parzialmente note, ma sembra si frequentassero tutti anche oltre l’orario di scuola. Nikolas Cruz era stato espulso dal liceo per comportamenti violenti specie con la ex ragazza; era ossessionato da lei e il provvedimento disciplinare è scattato perché era arrivato al punto tale da stalkerizzarla.
Nicolas era noto anche ai professori e in particolare ad Aaron Feis l’assistent coach della squadra di football rimasto ucciso mentre tentava di proteggere gli studenti. «È morto da eroe», hanno commentato genitori, insegnanti e studenti, ricordandone «l’animo gentile». Tra le poche identità delle vittime c’è quella della insegnante eroina che ha riparato col suo corpo alcuni studenti, mentre tra i feriti ci sarebbe il figlio del vicesceriffo della contea. E ancora il professore di geografia Scott Biegel morto sotto i colpi incessanti dell’Ar-15 di Cruz dopo aver favorito la fuga di un gruppo di studenti: ha aperto la porta per farli scappare ma non è riuscito a richiuderla e a salvarsi. «Ha sbloccato la porta per farci fuggire. Pensavo che fosse dietro di me, ma non c’era», racconta Kelsley Friend, una della ragazze a cui il professore ha salvato la vita.
Sotto i colpi di Cruz è stato ucciso anche Chris Nixon, il direttore atletico della scuola e coach di wrestling: è morto in ospedale per le ferite riportate. Nulla da fare neanche per la teenager giocatrice di calcio Alyssa Alhadeff. La sua famiglia fra le lacrime si è rivolta agli studenti sopravvissuti: «Fate qualcosa di meraviglioso nella vostra vita per Alyssa. Non rinunciate ad aspirare a qualcosa di grande».
Morto sul colpo anche il nuotatore Nick Dworet, che era stato da poco ammesso all’Università di Indianapolis con una borsa di studio. Soprannominato «swim daddy», Dworet era il capitano della squadra di nuoto della scuola e aveva trascorso l’ultimo anno in duri allenamenti per migliorare la sua velocità. La striscia di sangue prosegue con i quindicenni Peter Wang e Luke Hoyer. I nonni hanno appreso la notizia alla tv: «Abbiamo passato ore senza sapere nulla, abbiamo sperato fino alla fine. Poi ci hanno chiamato all’una del mattino per dirci che Luke era fra le vittime», racconta Janice Stroud, la nonna di Hoyer. Che fosse una strage messa a punto con obiettivi precisi emerge dalle parole di un account in cui il killer scriveva: «Diventerò un professionista di stragi scolastiche». Anatema ignorato come hanno ammesso gli stessi inquirenti.

Repubblica 16.2.18
La strage in Florida
L’ex studente con disagio psichico e un fucile legale

La priorità di Donald Trump sarà «rendere più sicure le scuole americane»: è questo l’obiettivo indicato dal presidente nel messaggio alla nazione dopo la strage alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida. Il leader della Casa Bianca non ha fatto nessun accenno alla possibilità di limitazioni nella vendita o nell’uso delle armi. Nikolas Cruz, autore del massacro, aveva problemi mentali ma questo non gli ha impedito di comprare legalmente il fucile d’assalto AR-15, con cui ha ucciso 17 persone. Il giovane aveva pubblicato sui social network diverse sue foto con le armi, o immagini di animali uccisi violentemente.
Secondo la Anti-Defamation League, organizzazione ebraica per i diritti civili, il 19enne è simpatizzante di un gruppo suprematista bianco, “Republic of Florida”. A confermare i rapporti sarebbe stato lo stesso leader del gruppo.

La Stampa 16.2.18
La finzione della campagna elettorale
di Giovanni Orsina


Sul palcoscenico il tempo cammina a un passo diverso da quello che ha nella vita reale. Sbaglieremmo, allora, se ci stupissimo o irritassimo perché corre troppo in fretta, o al contrario non passa mai. La decisione di Silvio Berlusconi di firmare da Bruno Vespa l’«Impegno con gli italiani» nelle stesse identiche modalità in cui diciassette anni fa presentò il «Contratto con gli italiani» dev’essere interpretata, appunto, come una trovata da palcoscenico: il prevedibilissimo colpo a sorpresa d’un vecchio commediante tanto esperto e scanzonato quanto, da anni ormai, povero d’idee. Un tormentone, insomma. Che, come tutti i tormentoni, sarà giudicato diversamente a seconda che il vecchio attore piaccia ancora o no: chi continua ad apprezzarlo se ne sentirà rassicurato, mentre chi detesta l’uno troverà insopportabile l’altro.
Quest’ultima pièce berlusconiana, tuttavia, è pure la spia d’un problema più generale: quello di una campagna elettorale che dà sempre più l’impressione di essersi ridotta quasi esclusivamente a una rappresentazione.
Collegata alla realtà, tutt’al più, da qualche fragile filo di ragnatela. Abbiamo chiesto a gran voce alle forze politiche di avanzare delle proposte concrete, e quelle l’hanno fatto. I giornali le hanno guardate da vicino, allora, scoprendo in molti casi che tanto concrete poi non erano. Ma anche al di là della loro maggiore o minore plausibilità, i dettagli di quei programmi, in fin dei conti, non paiono interessare proprio a nessuno.
Un po’ perché quelli che li hanno presentati sono considerati personalmente poco credibili. Un po’ perché, data l’attuale distribuzione dei pesi elettorali, e in regime di proporzionale, chissà se saranno mai chiamati a risponderne. E un po’, infine, perché si dubita che la politica nazionale sappia davvero governare i complicatissimi fenomeni globali - le migrazioni, l’euro - che pure incidono sulla vita quotidiana degli italiani. Quel che rimane, gli ultimi fili di ragnatela che ancora tengono la rappresentazione unita alla realtà, sono delle sensazioni vaghe, delle generiche direzioni di marcia. Per chi pensa di poterlo votare, allora, Berlusconi è l’usato sicuro che cercherà di non alzare le tasse e di creare lavoro. E poco importa se recita da vent’anni lo stesso sketch, e se nel dettaglio le sue promesse non sono realizzabili. Ma un discorso non troppo dissimile potrebbe farsi in fondo, dove più, dove meno, anche per gli altri concorrenti in lizza.
Sarà sul filo delle rappresentazioni e delle sensazioni, con ogni probabilità, che si giocherà lo scontro fra la coalizione di destra e il Movimento 5 stelle nei collegi uninominali dell’Italia meridionale. Scontro sul quale si concentra ora l’attenzione degli osservatori, poiché si pensa che possano dipenderne gli equilibri del prossimo parlamento. Da un lato il vecchio commediante: la vocazione governativa, il voto d’ordine, e forse anche il voto utile - lo schieramento di destra essendo l’unico che abbia qualche chance di raggiungere da solo la maggioranza assoluta nelle Camere. Dall’altro lato il nuovismo, il libero sfogo alle frustrazioni a lungo covate, il vaffa a tutti quelli che si ritiene abbiano fallito e tradito. Non sappiamo come andrà a finire - nel mondo delle rappresentazioni e delle sensazioni, profetizzare è sempre un azzardo. Che il futuro politico dell’Italia dipenda per l’appunto da rappresentazioni e sensazioni, per il momento, è la sola certezza, poco confortante, che abbiamo.

Repubblica 16.2.18
M5S sempre in alto, Pd sotto il 22% e il centrodestra può battere tutti
Il movimento di Di Maio tiene quota 28 nonostante il caso rimborsi. I dem giù di un altro punto La coalizione di Berlusconi al 35%. Ma quasi un elettore su due non ha ancora deciso chi votare
di Ilvo Diamanti


A due settimane dal voto prevale ancora l’incertezza.
Come mostra il sondaggio di Demos per Repubblica, gli elettori indecisi sono circa il 45%. Qualche punto meno di un mese fa. Sempre troppi, per formulare ipotesi precise. Ma anche imprecise. Tanto più perché la nuova legge elettorale, il Rosatellum, presenta una combinazione di sistemi di voto diversificata. Tra collegi “uninominali” e “proporzionali”. Difficile proporre scenari attendibili, in assenza di riferimenti storici ai quali affidarsi. D’altronde, i sondaggi non servono a pre-vedere, ma a tracciare il profilo degli orientamenti in una fase specifica. In questo caso, le stime di Demos forniscono indicazioni “incerte”, ma utili a comprendere quali tendenze caratterizzino questa campagna elettorale. Alla vigilia del voto. Anzitutto: “l’incertezza”, come si è detto.
Inoltre: un vento che spira verso destra. Comunque: a Centro-destra. Forza Italia, infatti, supera il 16%. Il dato più alto dopo le europee del 2014.
Anche il suo principale alleato, la Lega di Salvini, cresce, a sua volta, di poco. E torna oltre il 13%. I Fd’I, guidati da Giorgia Meloni, scivolano appena sotto il 5%. Insieme alla “quarta gamba” centrista il Centro-destra raggiunge il 35%.
E potrebbe, forse, conseguire la maggioranza parlamentare. Se la nuova legge elettorale permettesse di tentare stime credibili, circa la distribuzione dei seggi su base territoriale.
Impresa non facile, per le ragioni indicate: la combinazione di logiche diverse, complicata dal contributo dei candidati, su base locale. Difficile da calcolare. Il partito che ottiene maggiori consensi, comunque, resta il M5s. Nonostante le polemiche che lo hanno coinvolto in queste settimane.
Perché le sue “fortune” derivano dai demeriti altrui più che dai meriti propri. In altri termini, il M5s continua a beneficiare della sfiducia verso il sistema politico, in generale, e verso gli altri partiti. Vecchi e nuovi: non importa. Il nuovo sistema elettorale, tuttavia, lo penalizza, per il suo radicamento sul territorio, ancora ridotto. Come dimostrano le difficoltà dei 5 stelle alle amministrative. È probabile, d’altronde, che questa considerazione abbia contribuito all’accordo fra gli altri partiti, in primo luogo Pd e FI, intorno a questo progetto, oggi tradotto in legge elettorale. Il leader più stimato, peraltro, continua ad essere il premier, Paolo Gentiloni. Aiutato, come ho scritto in altre occasioni, dalla sua scelta di restare sullo sfondo. Di non occupare la ribalta. In mezzo a tante grida, parlare a voce bassa: fa rumore… Gli altri protagonisti, infatti, lo seguono, a distanza più o meno ampia. Di Maio al 36%. Salvini, poco sopra il 30%.
Come Matteo Renzi, sempre fermo al 31%. Accanto a Giorgia Meloni e al Presidente del Senato e, oggi, leader di Leu, Pietro Grasso. Il PDR, intanto, continua a perdere punti. Non per caso, vista la sua “dipendenza” dall’immagine del Capo. Oggi è intorno al 22%. Mentre, alla sua sinistra, Leu scavalca di poco il 6%. Qualcosa in meno rispetto a un mese fa.
Cresce, invece, +Europa, il soggetto politico guidato da Emma Bonino (con il sostegno di Bruno Tabacci), che si attesta intorno al 3,5%. Bonino, d’altronde, è l’unica a seguire Gentiloni a distanza non eccessiva, sul piano dei consensi personali. Può sorprendere il limitato appeal personale di Berlusconi, attestato al 28%. Ma si tratta di una figura che, da sempre, “divide”. Anzi, proprio questa debolezza gli permette oggi di recitare la parte del “mediatore”. Non solo nel Centro-destra. Anche oltre. Da “muro” è divenuto, così, un “ponte”, come ho scritto qualche settimana fa.
Insieme, le forze di Centro-sinistra superano a fatica il 30%. E, comunque, Pd e Leu sono “divisi”. Secondo la tradizione della Sinistra.
Difficile, su queste basi, ipotizzare un successo elettorale di questa “parte”.
D’altra parte, se consideriamo il voto espresso alle europee 2014, tra gli elettori del Pd – di allora – oggi si osserva il grado di incertezza più elevato. Sia rispetto a quelli che ieri avevano votato per FI, i Fratelli d’Italia. E, a maggior ragione, per Lega e M5s. Non è, dunque, facile immaginare una maggioranza parlamentare, su queste premesse. L’unica coalizione che vede possibile questo obiettivo è il Centro-destra. In largo vantaggio nell’intero Nord ma anche nel Mezzogiorno. (Come ipotizza, ad esempio, Rosatellum.info, l’Osservatorio curato da Quorum, Youtrend e Reti.) Tuttavia, in caso di impasse, gli italiani non sembrano gradire altri esperimenti di “grande coalizione”. Oltre metà degli elettori preferirebbe, anzi, tornare subito alle urne.
In questo clima incerto, si fanno largo sentimenti inquietanti. Il sondaggio rivela, infatti, un buon grado di comprensione verso il terrorista di Macerata.
Al contempo, si colgono segni di indulgenza verso Mussolini.
L’Uomo Forte, che ha marcato la nostra storia del Novecento.
Si tratta di orientamenti diffusi fra gli elettori di destra. E soprattutto nella base della Lega Nazionale. Di Salvini. Ma presenti, in qualche misura, anche fra gli elettori del M5s.
Naturalmente, queste “nostalgie” non sono nuove. Ma il clima di intolleranza che pervade il Paese rischia di amplificarle. Soprattutto in tempi di campagna elettorale.
Così sorprende un poco – anzi: non poco – il grado di fiducia espresso verso il governo, come verso il premier. Serve a rammentare che, in tempi di “instabilità”, la domanda di “stabilità” resta comunque ampia. E che la domanda di “sicurezza” non si affronta solo alimentando la “paura”. Né inseguendo un passato che non passa.

il manifesto 16.2.18
Walter Benjamin, l’intensità dell’attimo e il tempo discontinuo

«Attraverso la piccola porta», un saggio di Massimiliano Tomba pubblicato per Mimesis
di Mario Pezzella


Si intitola Attraverso la piccola porta (Mimesis, pp. 114, euro 14) il volume che Massimiliano Tomba dedica a Walter Benjamin, presenza cruciale nella filosofia del ’900; il pensiero del filosofo berlinese è l’unica vera alternativa a Heidegger. Partendo da questa chiara posizione, Tomba rilegge i temi decisivi di Benjamin, primo fra tutti l’opposizione fra giustizia e diritto, a partire dal saggio Per la critica della violenza. Nonostante la neutralità che esibisce nelle democrazie rappresentative, il diritto non cancella, ma codifica la violenza fondatrice dello Stato e i rapporti di potere che ne conseguono.
L’uguaglianza statuita dal diritto è solo formale, è una riduzione passiva delle insorgenze egualitarie; riconosciuta come principio, essa non è realizzata. È il caso del lavoro salariato: oggetto di un contratto i cui contraenti sono uguali in astratto e in realtà divisi da un rapporto di sfruttamento.
CONNESSA ALLA CRITICA del diritto è quella alla democrazia parlamentare, in cui il rappresentante agisce in nome di un Popolo-Uno, che è invece diviso in classi e interessi in conflitto ed è un fantasma prodotto dalla rappresentanza stessa, con cui essa cerca di legittimarsi. In effetti la delega si autonomizza, non è più controllata e agisce in nome di una fittizia universalità: «Il popolo, come unità e totalità, è l’assente che viene reso visibile come soggetto politico attraverso il rappresentante che agisce in suo nome». In questo contesto, la violenza della polizia è sempre latente e pronta a emergere, a intervenire in stato di emergenza, al di fuori dei codici stabiliti, con diritto sovrano di vita e di morte. Benjamin pensava agli spartakisti e alla morte di Rosa Luxembourg. La democrazia cela il germe di un regime autoritario, senza che ci sia tra di essi un salto di continuità.
UNO DEI PREGI MAGGIORI del libro è di applicare a Benjamin il suo proprio metodo, creando un corto circuito dialettico tra il testo analizzato e il nostro presente. Così avviene per i termini di violenza mitica e violenza divina. La prima è il «contesto colpevole» in cui il potere chiude la vita: e si riattualizza nella condizione dei migranti oggi, posti di fronte a confini e muri, superando i quali incorrono nella colpa e nella morte: «La violenza mitica emerge ogni qualvolta che viene violato un confine». Tomba attualizza Benjamin alla luce dello stato di emergenza in cui noi stiamo vivendo, collocandolo nel tempo discontinuo delle rivolte e delle brecce di libertà degli oppressi.
La violenza divina si oppone a quella del diritto e dello Stato. La felicità a cui mira ha un aspetto anarchico e nichilista perché – afferma Benjamin nel Frammento teologico-politico- produce il dissolvimento di una legge e di un ordine simbolico divenuti ingiustificabili. Da qui nasce il sentimento di festa e liberazione che accompagna gli inizi di una rivoluzione: questa è un arresto del tempo e non una corsa sfrenata verso il progresso, e solo così spezza il ciclo della violenza mitica e «il continuum violento del diritto». In tale dissolvimento di vincoli giuridici ingiusti, si comprende il rilievo dato da Benjamin allo sciopero generale di Sorel, capace di porre in sospeso le funzioni statali e le relazioni di sfruttamento salariale, fino a produrre una crisi implosiva dell’ordine del capitale: «Per chi è oppresso, felicità può solo essere il passare della presente condizione subalterna».
In effetti il «vero politico» di Benjamin non si limita ai possibili presenti in una situazione ma è «colui che sa indicare l’uscita dalla situazione come possibile». Lo sciopero generale è una desistenza generalizzata dalla prassi del capitale.
IL VERO POLITICO apprezza i «differenziali di tempo», la presenza di possibili non codificati, appartenenti a esperienze «altre» nello spazio e nel tempo, anche non occidentali, che è possibile riattualizzare nel multiversum temporale del presente. C’è una «storia invisibile» che riemerge periodicamente dal suo fondo sotterraneo, e si affida al tempo discontinuo dell’intensità dell’attimo, in cui ogni frammento di tempo è la «piccola porta», da cui potrebbe entrare il Messia: «Ogni singola azione ha il ritmo della natura messianica…Si tratta di agire, in ogni singolo atto, come se il Messia fosse già arrivato».
Questa intensità giustifica il sentimento di fratellanza con coloro che nel passato o nel presente hanno partecipato alla lotta contro il dominio. «La fratellanza è un simbolo che investe le generazioni passate, presenti e future». Certo, non abbiamo soluzioni sicure per evitare che il momento festoso e destituente delle rivoluzioni si irrigidisca in nuovi ordini statuali oppressivi. Tuttavia il concetto di fratellanza, che implica ad un tempo il riconoscimento dell’uguaglianza e della irriducibile differenza dell’altro, può essere una buona unità di misura nella lotta per la libertà.

La Stampa 16.2.18
“Il capitalismo finanziario ha fatto dimenticare gli ultimi”
L’autore di Canale Mussolini: “Ha vinto l’egoismo, non il collettivo Gli imprenditori non hanno più bisogno che gli operai consumino”
di Massimo Vincenzi


Antonio Pennacchi è un fiume in piena, impossibile contenerlo dentro gli argini delle domande. Impastato com’è di politica fa giri strani, prende percorsi alternativi, li miscela con la sua lunga esperienza di militante e il talento letterario: quando sembra prigioniero del labirinto ne trae fuori la via d’uscita vincente, il guizzo rivelatore. Da iscritto al Msi sino alla Cgil, sempre su posizioni ostinate e contrarie rispetto all’ortodossia, non stupisce per il gusto di farlo, ma per la necessità quasi fisica di stare sempre e comunque dalla parte degli ultimi senza etichette e senza idee preconcette. La sua è un’analisi spietata dell’Italia di oggi, ma con una ventata di ottimismo che non cessa mai di soffiare.
Le ultime statistiche sono impietose: descrivono un Paese dove le differenze sociali ed economiche sono sempre più evidenti. Che sta accadendo?
«Non è un fenomeno italiano, siamo passati dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario senza prendere le adeguate contromisure e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Gli industriali di un tempo pensavano anche al benessere dei loro operai, perché li vedevamo come futuri compratori, ora i padroni se ne fregano allegramente: l’equoguadagno, l’equoprofitto sono parole finite in soffitta. Il liberismo ha vinto su tutti i fronti con buona pace di chi è rimasto indietro. Nessuno schieramento politico si occupa più degli ultimi, dei diseredati».
Come giudica l’Italia oggi?
«Ho una pessima opinione. Le ingiustizie non mi sono mai piaciute sin da quando ero bambino. Resto un’idealista, anche se non mitizzo il passato. Da inguaribile marxiano credo però in un futuro migliore. Tutto è iniziato quando siamo scesi dagli alberi in Africa e da lì abbiamo iniziato a migrare e non ci fermeremo. Resto infatti convinto che abbiamo le forze per rialzarci e riprendere il viaggio».
La tesi prevalente è che, finite le ideologie, manchino ricette per il futuro. Cosa ne pensa?
«Tutte cazzate, destra e sinistra continuano ad avere la loro identità precisa: quello che si è perso è la capacità delle ideologie di attrarre le masse. Il problema di oggi è che la gente è sempre più convinta che il bene e il male siano divisibili con l’accetta invece noi siamo un misto di bene e male: bisogna imparare a convivere con questo fattore».
Senza ideologie restano i valori, dunque.
«Esattamente. La divisione sostanziale è il rapporto dialettico con la società: se si mette al centro il singolo o se si pone come elemento più importante la collettività. Quando ero giovane io il collettivo venivo prima di tutto, adesso vince l’egoismo».
Ha l’impressione che gli intellettuali si schierino meno di un tempo?
«Io non me lo pongo il problema, gli altri facciano come gli pare. Quello che è venuto meno è lo schieramento pubblico, i manifesti da firmare tutti assieme, che spesso rappresentavano una sorta di conformismo mentale. Io cerco sempre di distinguermi: come direbbe il mio analista ho un atteggiamento antisociale, creativo e triste. A volte mi sembra che non valga più la pena impegnarsi, anche se io continuo a fare quel che posso».
Segue i dibattiti politici?
«No, perché mi incazzo quando vedo le trasmissioni in tv o le fesserie di Internet dove è impossibile fare un ragionamento. Pensi al web, lì nessuno si guarda negli occhi: è impossibile capire chi dice il vero e chi dice il falso. Bugie, facce impresentabili: non è più la politica nobile che appassionava me. Una volta c’erano i partiti, le sezioni dove si faceva notte a dialogare, anche a litigare ma almeno si capiva qualcosa. Adesso solo slogan, nessun ragionamento complesso: e i problemi più gravi, come la migrazione e la povertà, vengono cacciati sotto il tappeto. L’ignoranza è il male assoluto dei nostri tempi».
Come vede il Paese tra cinque anni?
«Io rimango ottimista. Penso per esempio alle possibilità che ci darà la conquista spaziale, sembra un discorso marginale ma in quel campo l’Italia è all’avanguardia. E così sono molti i campi dove siamo avanti rispetto ad altre nazioni. L’Italia è meglio di chi ci governa. Dobbiamo credere nel progresso e sperare che la politica assecondi i nostri lati migliori, non come ha fatto in questi anni durante i quali ha pensato solo al suo tornaconto».


il manifesto 16.2.18
Jakov Blumkin, la parabola oscura

ntervista con l’autore della biografia del bolscevico, poeta e assassino. «Con questo mio libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero la narrazione di una vita». «Sembrava lui stesso considerarsi un personaggio letterario: un po’ eroe, avventuriero e bandito»
di Guido Caldiron


«Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole». Fin dalla frase con cui Christian Salmon ha spiegato il senso dell’affascinante inchiesta che ha condotto su di una personaggio leggendario, ma altrettanto misterioso, della Rivoluzione d’Ottobre come Jakov Blumkin (Il progetto Blumkin, Laterza, pp. 264, euro 18) si intravede il senso della sfida che accompagna da sempre il lavoro di questo scrittore e intellettuale francese, quello di interrogare le vicende storiche e politiche per coglierne, attraverso le forme narrative che vi hanno preso forma, il significato più profondo e, se possibile, universale.
Per il fondatore, accanto a centinaia di altri autori di ogni parte del mondo, del Parlamento internazionale degli scrittori, membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage di Parigi, e tra i primi a occuparsi da un decennio a questa parte dello sviluppo anche nel mondo politico delle tecniche dello storytelling – l’adozione di precisi canoni narrativi nella costruzione delle figure pubbliche, o di «brand» personali, fenomeno evidente lungo un arco temporale che va da Sarkozy a Trump passando per Renzi -, la figura di Jakov Blumkin non incarna solo una sorta di alter ego per un viaggio a ritroso nella propria biografia di giovane militante trotskista, ma serve per interrogarsi sulle molteplici rappresentazioni ed eredità della Storia a partire da un evento cardine come l’Ottobre bolscevico. Non a caso, Salmon ricostruisce con il rigore dello storico e un timbro deliberatamente letterario, la confusa vicenda biografica di Blumkin che sembra svolgersi nello spazio tra due date, il 6 luglio del 1918 quando uccide l’ambasciatore tedesco a Mosca e la sua morte, avvenuta nel novembre del 1929, tradito da quella stessa rivoluzione trasfigurata nelle mani di Stalin.
La scelta di svolgere questa sorta di inchiesta storico/letteraria sulla figura di Jakov Blumkin sembra in continuità con il suo lavoro sullo storytelling e su quello che si potrebbe definire come il «romanzo della politica». È così?
Con questo libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero il racconto di una vita, la sua narrazione a partire da fonti diverse, talvolta contraddittorie. In questo, credo di aver proseguito la mia indagine iniziata analizzando le forme dello storytelling, il modo in cui i politici, sulla scorta di quanto fanno i grandi marchi commerciali, si «raccontano» oggi. Tutta una serie di leggende circondano la figura di Blumkin, un personaggio dalla vita oscura. E ciò che più mi ha attratto in lui è che è in qualche modo rimasto impigliato nel riflesso della sua leggenda. Non abbiamo a che fare con un individuo la cui biografia ci è nota e chiara fino in fondo, quanto piuttosto, per dirla con Jean Baudrillard, con un esempio di «iperrealtà», vale a dire con «una proliferazione di miti sull’origine e sui segni della realtà» che in questo caso si traducono nel fatto che su Blumkin hanno scritto gli altri e nella sua vicenda hanno preso corpo le proiezioni di quanti volevano piegarne le vicende ai propri interessi. Insomma, quasi un «oggetto cubista» dalle molte e spesso contradditorie sfaccettature.
Ma queste apparenti contraddizioni e i tanti punti oscuri nella vita di Blumkin non hanno a che fare anche con l’epoca tumultuosa in cui visse?
Senza dubbio. Come spiegava Osip Mandel’štam, la cui figura ritorna più volte ne Il progetto Blumkin, in un testo del 1922 intitolato «La fine del romanzo», quella generazione non ha potuto avere una vera biografia. O almeno non una sola. Il debutto del Novecento coincide con un’epoca burrascosa, trasferimenti continui – diciassette cambi di casa, ambiente e scuole nella sola giovinezza del celebre poeta -; la più totale incertezza anche solo su ciò che sarebbe potuto accadere il giorno dopo. In Russia nello spazio di pochi anni accade di tutto: la rivoluzione fallita del 1915, la repressione zarista, la nuova rivoluzione del 1917, la guerra civile… come costruire una propria biografia in mezzo a tali sconvolgimenti? Proprio Mandel’štam ricorreva ad una bella immagine per descrivere questa situazione e scriveva: «le nostre vite sono come le palle del biliardo che schizzano in tutte le direzioni» e aggiungeva come i suoi contemporanei, esattamente come Blumkin e lui stesso, fossero «catapultati fuori dalle loro biografie». Per questo, alla luce di tali difficili itinerari personali parlava di «fine del romanzo». A partire da queste vite si possono comporre collage, costruire sequenze di film, come quelli di Eisenstein o Vertov, ma è difficile costruire una forma narrativa completa.
Forse, proprio perché consapevole di tutto ciò, Blumkin stesso immaginò degli elementi narrativi intorno alle proprie vicende. Fin dall’adolescenza sembrava considerarsi come un personaggio letterario, un po’ eroe, un po’ avventuriero, un po’ bandito. Voleva essere un poeta lirico, imbracciò senza esitazione la violenza politica, diventando uno di quei «terroristi» che caratterizzeranno l’epoca zarista affascinando come eroi romantici molti loro giovani contemporanei, si pensava al fianco di Trotsky, come uno stratega pronto a ridisegnare la carta politica del Medio come dell’Estremo Oriente. Una visione aperta del romanzo della sua vita, ma dove la storia, pur se in modo confuso, sembrava avere ancora la meglio sulla rappresentazione.
Una condizione che, per venire al suo lavoro sullo storytelling, sembra contrapporre la vicenda di Blumkin che ha cercato di ricostruire, con le forme attuali di racconto della politica…
Lo storytelling vuole convincerci che non esiste che un «romanzo», una sola storia. Si presenta come una sorta di religione della narrazione. Come le grandi religioni monoteiste ci dice che non esiste che un unico e solo «libro», non se ne potrebbe perciò scrivere nessun altro, a rischio di subire una fatwa come è accaduto a Salman Rushdie. Al contrario, nella realtà in cui viviamo e in ciascuno di noi, proprio come indica la figura di Blumkin, ci sono diverse storie che si osservano, dialogano, si incontrano o si combattono. Una considerazione che non va però confusa con il contesto con cui ci dobbiamo misurare attualmente.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi rispetto a quando ho iniziato ad occuparmi di questo tema, è che siamo passati da una dimensione verticale in cui l’ufficio comunicazione dell’Eliseo o della Casa Bianca proponevano la «storia del giorno» ad uso e consumo dei cittadini, ad una dimensione orizzontale, ad una sorta di multi-storytelling in cui ciascuno di noi, attraverso la rete e soprattutto i social, diventa un protagonista di questo meccanismo. Lo spazio della comunicazione si è così trasformato in un autentico campo di battaglia dove ha luogo una «guerra delle narrazioni». Basta pensare all’elezione di Trump per essere consapevoli del peso che tutto ciò ha assunto nelle nostre vite.
In questo scenario si è così cominciato a parlare delle cosiddette fake news. In proposito lei ha citato le parole di Hannah Arendt che sosteneva come «il suddito ideale del regno totalitario» non dovesse essere convinto ideologicamente, bensì persuaso che «la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più».
Il primo effetto della guerra dei racconti cui facevo riferimento è il prendere corpo di quello che chiamo «il pianeta del discredito». La continua contrapposizione di «storie», talvolta niente altro che delle autentiche bugie, ha condotto molti cittadini a divenire sempre più agnostici, a non credere più alla parola pubblica, non solo ai politici, ma anche ai media, ai ricercatori, ai medici o agli scienziati, come indicano ad esempio le follie che vengono affermate sul clima. Una situazione che interroga il futuro stesso della democrazia che si basa, o si dovrebbe basare, sul confronto delle idee. Lo spazio mediatico dove hanno luogo queste «guerre narrative» sembra sul punto di rimpiazzare quella «democrazia deliberativa» di cui parla Jürgen Habermas, fondata su un processo discorsivo razionale.

La Stampa 16.2.18
Com’era effervescente l’arte sotto la cappa del Regime
A Milano una mostra racconta la straordinaria creatività nell’Italia tra le due guerre, in contrasto con il rigido ordine imposto dal fascismo
di Francesco Bonami


«Prendete il vostro tempo o voi che entrate» potrebbe essere scritto all’entrata di «Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics, Italia 1918-1943» la gigantesca rassegna che aprirà domenica alla Fondazione Prada, dove resterà fino al 25 giugno. «Una mostra che può sfiancare un toro», dice il curatore Germano Celant: «Mille documenti, 500 opere più i fantasmi». I fantasmi sono le riproduzioni in bianco e nero di opere che facevano parte delle mostre originali ricostruite in una efficacissima scenografia pensata da Michael Rock e dal suo studio 2x4 di New York.
Appunto vecchie foto d’epoca sono ingigantite a grandezza naturale, creando l’effetto che la nostra memoria ha sulla storia e sui ricordi - sfocato, nebbioso, inafferrabile ma presente. Se il bianco e nero sgranato delle immagini rappresenta la distanza temporale, le pareti di iuta grezza naturale danno alla mostra lo sfondo che unifica l’immensa varietà di opere presentate. «In questa mostra», spiega Celant, «si riesce a leggere la vera storia di un periodo, come quello in Italia tra le due guerre, complessissimo, ricchissimo, fatto di compromessi, contraddizioni e salti della quaglia. Un periodo pieno di eccezionali figure minori e oggi sconosciute ma che raccontano la fecondità della nostra cultura e dell’arte italiana».
Siamo davanti a un dipinto di Balla del 1924, Fascisti e antifascisti, che per la sua freschezza e ambiguità potrebbe essere stato dipinto nel 1980. Un giovane millennial davanti a un’opera del genere penserà a Balla come a un fascista o un antifascista? «Se pensiamo alla società di quel tempo», riflette ancora il curatore, «formale, retorica, con la gente che andava in giro con i cappelli a tuba, e guardiamo questo quadro, non si riesce a capire come un’arte del genere potesse esistere…».
Ma è proprio l’eccezionale contrasto tra una società che stava entrando nel rigido ordine fascista e la sua straordinaria creatività a fare di questa mostra uno strumento di riflessione sul nostro presente. Un progetto del genere ha richiesto più di due anni di ricerca, ma sembra essere fatto oggi, in sincronia con un’Italia dove le parole della politica e della società più in generale assomigliano molto allo Zang Tumb Tuuum, le parole in libertà, i suoni e i rumori caotici che amavano tanto Marinetti e i futuristi, esprimendo l’energia di un avvenire che però non sarebbe mai stato come se lo immaginavano.
Il caos della campagna elettorale di questi giorni sembra molto futurista. Ma la vera importanza della mostra sta nelle domande che pone alla cultura e all’arte di oggi. Dove l’arte e la cultura devono tracciare una linea oltre la quale non è possibile andare, oltre la quale è impossibile accettare un compromesso con ideologie e dittature che sfruttano l’arte come il loro miglior strumento di propaganda? Domanda attualissime. Anche oggi artisti, intellettuali, architetti, registi e attori sono disposti a chiudere un occhio davanti a Paesi o poteri economici dove democrazia e giustizia sono spesso opinabili ma che dispongono di mezzi eccezionali capaci di realizzare i sogni creativi più ambiziosi.
«Post Zang Tumb Tuumm» sottolinea con lucidità come le migliori menti del tempo abbiano realizzato le loro opere più importanti - basta pensare alle architetture di Terragni - accettando l’abbraccio megalomane e visionario della dittatura fascista. La sezione che ricostruisce in otto grandi schermi, nel gigantesco deposito della Fondazione Prada, la mostra voluta da Mussolini a Roma nel 1932 al Palazzo delle Esposizioni per celebrare i primi dieci anni della rivoluzione fascista è un perfetto esempio di come propaganda, immaginazione e innovazione potessero sostenersi e inquinarsi a vicenda. Cosa è quindi meglio, il fragore dei suoni futuristi, le contraddizioni politiche e morali di geni come Adolfo Wildt, Arturo Martini, Alberto Savinio, Giorgio de Chirico, Mario Sironi e tantissimi altri artisti e architetti del tempo, oppure il silenzio cupo imposto dalla dittatura fascista?
«Post Zang Tumb Tuuum» è un efficacissimo spaccato di quel cavallo di Troia che fu il compromesso con il regime, che tuttavia consentì all’arte e alla cultura italiane di produrre idee e progetti che avrebbero fecondato la genialità destinata a esplodere nella neonata democrazia del dopoguerra. L’intensa e ricca maratona si conclude con la famosa Crocifissione di Guttuso del Premio Bergamo del 1942 che valse la scomunica a chi andava a vederla, una piccola Guernica italiana, per entrare infine nel drammatico finale dove la benda cade dagli occhi svelando atrocità, ingiustizie e menzogne della dittatura e della guerra.
A far da sfondo, le immagini di una mostra del 1945 a Palazzo Ducale di Genova, dove gli artisti misero in vendita opere a favore delle vittime della guerra appena conclusa e dove, tra foto e slogan sfocati, vien fuori una scritta che celebra sia i corsi e ricorsi della storia sia l’estrema puntualità di tutta la mostra: «Noi donne».

Corriere 16.2.18
Milano, tutto esaurito ai licei classici E decine di studenti restano esclusi
In tre anni iscrizioni cresciute dal 3 all’8%. I presidi: servono spazi, no alle selezioni
di Elisabetta Andreis


Il liceo classico che vorrebbe includere. Accogliere tutti quelli che si iscrivono. E non sempre ci riesce. Mancano gli spazi. Il caso si presenta a Milano, dove in tre anni i candidati a studiare greco e latino al ginnasio sono passati dal 3 per cento all’8 per cento degli studenti, e per la prima volta ci sono famiglie escluse. «Esodate» dal classico.
Proprio quegli istituti che cinque o sei anni fa sembravano svuotarsi irrimediabilmente sono resuscitati e diventati pure «di moda». Fronteggiano la cresta dell’onda come possono. In quelli più gettonati, laboratori e stanze per le riunioni sono stati convertiti in aule. Ma gli edifici, a questo punto, sono saturi.
Il liceo Carducci, che raccoglie il 40 per cento di studenti dall’hinterland, ha dovuto «rifiutare» sessanta aspiranti matricole: una trentina sono state riassorbite, in particolare dal Berchet (che pure è pieno, e l’anno scorso aveva raddoppiato le classi). I rimanenti trenta vengono però rimbalzati ovunque.
Al Beccaria, più 20 per cento di iscritti rispetto all’anno scorso, usciranno sette classi quinte ed entreranno tredici classi con i «primini». Il tutto esaurito si registra al Manzoni e al Parini, che ha accolto 25 ragazzi più del previsto pur di non dire «no». Mentre il Tito Livio porterà a nove (da sette) il numero delle nuove classi. «L’anno prossimo non potremo certo aumentarle così, a meno che le istituzioni non concedano spazi aggiuntivi», dice la vicepreside Nicoletta Russello.
Di fronte al «problema», i licei classici che prima si facevano concorrenza ora fanno, al contrario, fronte comune. La neonata «rete» dei classici milanesi ha chiesto al Provveditore agli Studi e alla Città metropolitana un incontro per gestire la situazione, anche in prospettiva. Lunedì le parti siederanno al tavolo, e il tema è inedito. Un caso a sé rispetto al resto d’Italia (ma pure della Lombardia, dove gli iscritti al classico sono in percentuale la metà rispetto al capoluogo). Eppure non isolato. Al Socrate di Roma, ad esempio, appena un mese fa, l’appello era lo stesso: siamo in overbooking, abbiamo bisogno di aule.
Le strade sono due: trovare il modo di seguire la domanda che cresce o selezionare all’ingresso, con la valutazione delle pagelle delle medie o i test. Il test è stato istituito ad esempio allo scientifico Volta di Milano, caso emblematico: mille quattordicenni alla prova per 250 posti disponibili. «Noi questo non lo faremo mai — ribatte però il preside del Beccaria Michele Monopoli, interpretando la voce di tutti gli aderenti alla “rete” —. La logica che ci guida è l’integrazione, lo sviluppo di potenzialità che magari non si sono ancora espresse. Vogliamo includere, avere ambienti il più possibile misti ed eterogenei, non certo selezionare i cosiddetti migliori». Il pensiero corre anche alla polemica dei giorni scorsi, quella sui documenti di autovalutazione accessibili sul sito del Miur, dove le scuole «descrivono» la loro utenza.
A livello nazionale, il Miur ridimensiona il problema. «Gli iscritti ai licei aumentano, ma la crescita nei classici è progressiva e graduale, gestibile», sottolineano dagli uffici. «Parliamo di circa settemila matricole del classico su una popolazione di 107 mila studenti della secondaria — sottolinea ancora Roberto Maviglia, consigliere delegato all’edilizia scolastica della Città metropolitana di Milano —. L’aumento sarà assorbito nel limite del possibile adattando gli spazi disponibili all’interno degli edifici. Faremo di tutto perché nessun ragazzo resti escluso per motivi logistici dal corso di studi scelto. Eppure, sta anche ai dirigenti scolastici modulare le iscrizioni in funzione della disponibilità di spazi didattici».

Corriere 16.2.18
La polemica sull'"America»
Star del cinema contro grillini per lo schermo in piazza a Roma
di Gian Antonio Stella


Guardare vecchi film è come sniffare una giarrettiera? La grottesca sortita di una consigliera comunale grillina sul «feticismo» di tante serate di piazza trasteverine è stata un cerino in una polveriera. E ha compattato una folla mai vista di attori, registi, musicisti, da Gabriele Muccino a Paolo Virzì, da Paolo Sorrentino a Bernardo Bertolucci. Uniti nel chiedere la testa del vicesindaco Luca Bergamo. Accusato di «palese inadeguatezza» nella gestione culturale di Roma.
Teatro dello scontro, dopo mesi di polemiche, è piazza S. Cosimato, nel cuore di Trastevere, nota per la chiesa (e il bellissimo protiro) del X secolo, parte dell’Ospedale Nuovo Regina Margherita. «Una piazza bella ma niente a che fare con tesori urbani come piazza Navona o piazza di Spagna», spiega Valerio Carocci, uno dei promotori del cinema al centro del caso, «anzi, la scegliemmo qualche anno fa, col sostegno di tanti commercianti, proprio perché era un po’ degradata». Tutto bene, all’inizio. Via libera per l’occupazione del suolo pubblico dal sindaco di allora Ignazio Marino, via libera poi dal commissario Francesco Paolo Tronca, via libera infine (ormai l’iniziativa era partita) nei primi due anni di Virginia Raggi. Con l’avviso, però, che i giorni di proiezione, sessanta, andavano ridotti: tutte le sere, il cinema disturbava.
Lo diceva una petizione «firmata da 22 residenti su 3.063 che abitano nei pressi» (tra i quali appunto Gemma Guerrini, la grillina vicepresidente della commissione cultura) e che «dicevano di non riuscire a dormire». Dopo di che, però, insistono i ragazzi autori dell’idea dei film all’aperto nella scia dell’ex Cinema America (degradato, occupato, sgomberato), i pareri di Questura, Asl e Polizia municipale avevan dato ragione a loro. E la programmazione era rimasta a due mesi. Dando nel 2017 a 90 mila romani e ospiti la possibilità di vedere film di qualità senza pagare una lira.
Ovvio, dicono gli avversari: paga già la Regione! Vero: «Siamo partiti da soli, finanziandoci con le donazioni di abitanti, professionisti e negozianti della zona ma la manifestazione è cresciuta e per invitare ospiti come l’iraniano Asghar Farhadi, che ha vinto due Oscar negli ultimi cinque anni, dovevamo crescere anche noi», spiega ancora Valerio Carocci, «restiamo “non profit” ma ci danno una mano la Regione (45.000 euro: mezzo a spettatore), il Mibact, la Bnl… Lasciandoci autonomia totale».
Intendiamoci, è impossibile non essere d’accordo con Salvatore Settis, da anni impegnato nella difesa delle piazze italiane, «eredi più nobile e più consapevoli dell’agorà greca e del foro romano»: la piazza «deve restare per la maggior parte dell’anno tutta o quasi libera perché venga esibita, vista, goduta per quel che è: vetrina della città e della storia». Evviva il Palio di Siena in piazza del Campo «ma a nessuno verrebbe in mente di farvelo dieci volte al giorno per due mesi di fila» degradando la piazza a «location». Tesi che la Guerrini, forzando un po’, difende a spada tratta.
«Ma noi non la occupiamo affatto!», saltano su i ragazzi dell’associazione Piccolo Cinema America, «resta su sempre, per motivi ovvi, solo lo schermo che non è immenso e occupa un pezzo secondario di una facciata non tutelata dai Beni Culturali. Tutto il resto è montato la sera e smontato a mezzanotte. Lasciando la piazza pulita e libera per il mercato rionale, che noi stessi abbiamo aiutato a ripulire e rimodernare».
Ma se tutto pare in ordine, come mai lo scontro con il Campidoglio? Perché la giunta di Virginia Raggi, accusano i ragazzi, vorrebbe mettere il cappello sulla rassegna libera e indipendente incasellandola nell’Estate Romana. Falso, rispondono dal fronte opposto. «Noi diciamo solamente che per godere di particolari condizioni», ha scritto Luca Bergamo su Facebook, «bisogna seguire le regole che valgono per tutti nelle medesime circostanze, anche se si è bravi». Per capirci: «L’Estate Romana è lo strumento che da oltre 40 anni il Comune di Roma ha ideato per creare una programmazione per la stagione estiva. L’avviso pubblico, il «bando», quest’anno come l’anno scorso, dà diritto a vantaggi indiretti, come tra l’altro la possibilità di fare attività culturale senza pagare parte delle tasse dovute quando si occupa suolo pubblico, e a chi è meritevole e lo chiede un contributo economico». A farla corta: la rassegna di S. Cosimato deve essere messa a gara: chi vince vince.
Semmai, ha rincarato «l’Arcinemica» Guerrini, è il Pd il «maestro nella manipolazione del consenso, che ormai da decenni utilizza la spettacolarizzazione e la feticizzazione della cultura come arma di distrazione di massa». Ed è li che la grillina, per dirla alla romana, «s’è annata ad allarga’». Spiegando che «reiterata proiezione di vecchi film che hanno in comune solo il fatto di essere famosi» è una forma di «feticismo».
Non l’avesse mai detto! Ma come: feticismo portare decine di migliaia di persone a vedere «Uomini contro» o «Brutti, Sporchi e Cattivi» alla presenza di Francesco Rosi e di Ettore Scola, che di lì a poco sarebbero scomparsi? Feticismo le rassegne sui film di Pasolini, Rossellini, Kubrick, Antonioni? Feticismo fare recitare a Roberto Benigni la poesia («Non so cosa teneva dint’a capa; / intelligente, generoso, scaltro, / per lui non vale il detto che è del Papa, / morto un Troisi non se ne fa un altro...») dedicata a Massimo Troisi? Fatto è che contro la vicepresidente della commissione cultura e il vicesindaco Luca Bergamo, reo di non essersi dissociato, sono saltati su chiedendo le dimissioni un po’ tutti. Da Gianni Amelio a Gabriele Salvatores, da Francesca Archibugi a Dario Argento, da Neri Marcorè a Mario Martone, da Marco Tullio Giordana a Luca Zingaretti, e giù giù decine e decine di nomi. Mai vista una sollevazione simile. Come mai si erano viste pochi giorni prima tante firme sotto un appello a «valorizzare l’esperienza» dei ragazzi di San Cosimato anziché «rallentarla e imbrigliarla in percorsi burocratici»: da Cristina Comencini a Nicola Piovani, da Carlo Verdone a Giovanni Veronesi... Una macchinazione contro i grillini? Ma per favore...

Corriere 16.2.18
La fotografia dell’intelligenza
di Giuseppe Remuzzi


Usa, la risonanza magnetica mostra le aree dove c’è maggiore entropia
Ora la sfida degli scienziati è cercare nessi con il quoziente intellettivo
D avvero si potrà fotografare l’intelligenza come si fotografa un fiore, un albero, un volto? Probabilmente sì, con quella che i medici chiamano risonanza magnetica funzionale per esempio, che può essere in tre dimensioni capace di creare una mappa, un po’ come fosse una carta geografica del nostro cervello. E la risonanza magnetica funzionale non si limita a fotografare, riesce persino a identificare le attività delle diverse aree della corteccia cerebrale con tutte le loro eterogeneità; e la misura dello stato di disordine del cervello (come di qualunque altro sistema fisico incluso l’universo) i fisici la chiamano entropia. L’entropia nel nostro caso dipende dal flusso nei vasi sanguigni dell’encefalo ma anche dal metabolismo e dal consumo di ossigeno. A parte i traumi, aree di alta e bassa entropia configurano condizioni di danno, una emorragia per esempio, o un infarto, o un tumore. Negli ultimi anni però si vorrebbero usare queste tecniche per scoprire le emozioni, e perfino la natura di certi comportamenti. Cosa succede nel cervello di chi assiste a un concerto o di chi si abbandona al piacere della buona cucina o vive la gioia di una serata d’amore? Succede che in certe aree del cervello arriva più sangue, si libera dopamina — sostanza che garantisce le comunicazioni tra cellula e cellula — ma anche encefaline, endorfine e altri ormoni.
Ma allora perché non utilizzare la risonanza magnetica funzionale per studiare l’intelligenza? Sì, avete letto bene, l’intelligenza. Un lavoro appena pubblicato su Plos One dimostra che con la risonanza magnetica funzionale è possibile correlare aree di maggiore entropia con i due test di intelligenza maggiormente usati, il «Shipley Vocabulary» che ha a che fare soprattutto con la loquacità e il «Wasi Matrix Reasoning» che misura la capacità di risolvere problemi. Lo hanno fatto in 892 americani e si sono accorti che il rapporto fra entropia e intelligenza è soprattutto a carico della corteccia prefrontale, dei lobi temporali inferiori e del cervelletto. Dove c’è entropia il cervello è più attivo, dinamico, versatile e capace di processare un grande numero di informazioni, nulla di tutto questo succede dove c’è bassa entropia. Un cervello intelligente deve saper connettere tantissime informazioni e saperlo fare velocemente, anche perché nel cervello, di neuroni, ce ne sono 100 miliardi (proprio quante sono le stelle della Via Lattea). Questi neuroni non si attivano tutti contemporaneamente — sarebbe un disastro se no — ma quali e quanti se ne attivano quando leggiamo, cerchiamo di ricordare, riconoscere una voce, risolvere un problema nuovo? E quali e quanti neuroni si connettono tra loro in queste circostanze e in altre del genere? Non lo sappiamo ancora, e in questo il lavoro di Plos One non ci aiuta, ma apre una strada nuova ammesso che sia davvero possibile un giorno legare i segnali che arrivano dalle neuroimmagini di risonanza magnetica al grado di intelligenza degli uomini. Saranno necessari molti altri studi, per ora siamo davvero agli inizi, perché la correlazione tra entropia del cervello e quoziente di intelligenza per quanto emerge dai dati di Plos One è piuttosto debole. E poi cosa è l’intelligenza? E di quale intelligenza parliamo? Quella logico-matematica o cinematografica-musicale o pragmatico-meccanica? E ce ne sono altre, fino a 120.
Insomma sono problemi molto complessi, le neuroimmagini aiutano ma c’è altro, e bisognerà integrare i dati di risonanza magnetica funzionale con i molti geni associati all’intelligenza e con l’influenza dell’ambiente.
Il lavoro di Plos One , con tutti i suoi limiti, apre comunque prospettive di grande interesse. Immaginiamo che in futuro i segnali della risonanza magnetica funzionale possano essere usati per diagnosticare la depressione, i disordini da stress post-traumatico e anche l’autismo o la schizofrenia, sarebbe un grosso passo avanti, soprattutto il giorno che avremo farmaci efficaci. Per quello che si sa adesso, il grado di entropia secondo i ricercatori di New York correla (forse) con i test di intelligenza, soprattutto per quanto riguarda l’attività della regione frontale del cervello dove ci sono aree che ci rendono capaci di pianificare le nostre attività e controllare le emozioni. Per adesso l’intelligenza riusciamo a fotografarla, chissà che domani con interventi di ingegneria genetica ( gene editing per esempio ma dovremo trovare i geni) non sia persino possibile aumentarla. Se ne fossimo capaci, e se fosse sicuro, sarebbe giusto farlo? Non lo so, sono cose che esulano dalla competenza della scienza, è materia per filosofi e si dovrà coinvolgere la società civile e chi legifera.

Repubblica 16.2.18
Riscoperte
Lo scrittore errante che decise di essere Don Chisciotte
di Pietro Citati


Lo spagnolo Miguel de Unamumo era un devoto del personaggio di Cervantes. Anzi, pensava di aver capito l’eroe che sfida i mulini a vento meglio dell’autore. Mentre il suo saggio ritorna, ecco la storia di una folle passione
Miguel de Unamuno, nato il 29 settembre 1864 a Bilbao e morto il 31 dicembre 1936 a Salamanca, si sentiva profondamente basco; e, come basco, detestava le persone gravi e noiose, che avevano oscurato la luce e il riso della Spagna. Il suo maestro era Kierkegaard. Viveva nell’assoluto presente, sebbene avesse nostalgia del Medioevo.
Detestava il razionalismo della cultura moderna: abitava nell’inconscio: non sapeva che stesse dicendo e scrivendo: amava le cose piccole che sfuggono allo sguardo. Cercava la follia, tutte le follie che avevano posseduto la Spagna e il mondo nei tempi felici; e per recuperare queste follie, leggeva e rileggeva il Don Chisciotte che le aveva fondate. Si sentiva anche lui un cavaliere errante, che si gettava contro ogni ostacolo e per qualsiasi strada cercando di cancellare la spessa palude di tedio che nascondeva il volto della Spagna. Come San Paolo, suo primo maestro, esaltava il paradosso e l’impossibile, con una magnifica e sarcastica eloquenza. Così tentò di resuscitare Don Chisciotte, il “cavaliere della fede”, “il cavaliere della nostra fede”; e nel 1904 gli dedicò il suo capolavoro, Vita di Don Chisciotte e Sancio (Bompiani, benissimo curato da Armando Savignano, col testo spagnolo, pagine 890, euro 40), al quale seguì nel 1913 Il sentimento tragico della vita. Non gli importava nulla di Cervantes, che spesso condannava, accusandolo di non capire affatto il proprio libro: accusa portata contro ogni verità e giustizia. Egli credeva che Don Chisciotte fosse fisicamente esistito: che esista anche ora e che esisterà sempre nel più lontano futuro; vede il mondo con i suoi sguardi, e soffre perché, come lui, si sente imprigionato nella terra.
Unamuno commenta il libro come un mistico commenta la Bibbia: così Origene aveva commentato l’Antico e il Nuovo Testamento; Don Chisciotte è la Bibbia. Egli non fa che guardare l’eroe meraviglioso.
Eccolo: è un hidalgo: ha cinquant’anni. Non lavora, non paga le tasse, non ha moglie né figli; ha qualche amico, tra i quali il curato e il barbiere del paese. Tutto attorno a lui e dentro di lui è sempre uguale, come nell’esistenza di madame Bovary. Mangia vacca, montone, insalata di carne, uova e prosciutto, lenticchie, «e qualche colombino in più la domenica». Non fa che leggere: legge libri di cavalleria con tanta passione e gusto, che trascura l’esercizio della caccia e l’amministrazione delle proprie terre. Di notte sta sveglio per capire i romanzi, sebbene non li avrebbe potuti comprendere nemmeno Aristotele.
Anche Unamuno, che vuole essere folle come Don Chisciotte, non fa che leggere libri antichi e moderni: accompagnato di nascosto da Don Chisciotte. È persuaso che il libro, dal quale non può e non vuole sottrarsi, è un grande libro filosofico: l’unico della Spagna (e della Russia, diceva Dostoevskij).
Ma dir libro filosofico è dir poco: quasi nulla lo distingue dai Vangeli: Don Chisciotte è “un vero ministro di Dio”: è simile a Gesù: perde la propria anima, ma chi perde la propria anima, come dicono appunto i Vangeli, la salva; e, mentre noi non ce ne accorgiamo, sta creando il presente e futuro regno di Dio sulla terra.
L’altra figura cara ad Unamuno è sant’Ignazio di Loyola; e tutto ciò che padre Pietro de Rivadeneira racconta nella vita di sant’Ignazio si potrebbe raccontare di Don Chisciotte: entrambi sono “dei cavalieri erranti di Cristo”: entrambi non hanno meta né programma: si abbandonano al caso, perché Dio è il grande signore del caso. Dio vuole che il servo carnale di Don Chisciotte, Sancio Panza – che sembra occuparsi soltanto di mangiare l’olla potrida e dormire profondamente – diffonda e moltiplichi il Chisciottismo sulla terra. Don Chisciotte ha fede in Dio: ma anche Sancio Panza ha fede sia in Don Chisciotte che in Dio. Questa fede è lì, presente, in ogni punto del suo corpo e in ogni momento della sua giornata. «Oh – dice Unamuno – meraviglioso potere della fede ribelle ad ogni urto del disinganno e della delusione! Oh, misteri della fede Sanciopanzesca, che senza credere crede e, pur vedendo, comprendendo e dichiarando che ogni cosa è nera, fa sì che chi l’ha in cuore senta ed agisca e speri come se fosse bianca». Sancio dice: «diventerò un altro come Don Chisciotte, a Dio piacendo». «E Dio lo vorrà sicuramente», commenta Unamuno: «Sancio buono, Sancio prudente, Sancio cristiano, Sancio sincero; Dio lo vorrà».
Un giorno – racconta il grande libro – Cervantes si trovava nell’Alcanà di Toledo, quando arrivò un ragazzo a vendere scartafacci e carte vecchie a un mercante ebreo. Cervantes aveva la mania di leggere tutti i pezzetti di carta, e prese uno di quei fogli, scritto in caratteri arabi. Trovò un morisco e lo pregò di tradurre.
Allora Cervantes si rese conto che quegli scartafacci contenevano la storia di Don Chisciotte. Il titolo diceva: Storie di Don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Benengeli. Siccome Cide Hamete era un arabo, non poteva che essere un bugiardo, un truffatore, un falsario, visto che nella Spagna di Filippo II gli arabi erano ritenuti autori e vittime di menzogne. Così Cervantes, con le spalle coperte dalla complicità di Cide Hamete Benengeli, si abbandonò alle più inverosimili fantasie e fandonie. Se non che Cide, questo grande bugiardo, credeva nella verità: credeva e ci giurava come poteva giurarci un cattolico. La sua figura è il segno della radicale ambiguità del Don Chisciotte, dove tutto è, al tempo stesso, falso e assolutamente vero, dove il vero, senza cessare di essere vero, è assolutamente falso, e dove il falso, senza cessare di essere falso, è assolutamente vero. Il libro di Cervantes è mobilissimo, inquieto, pieno di vagabondaggi e di variazioni e tutti i libri moderni – dal Tristram Shandy all’Uomo senza qualità – guardano ad esso come al proprio modello, sebbene i loro autori sappiano benissimo che non riusciranno mai ad imitarlo. Non sta mai fermo. È sempre da un’altra parte.
«Felicissimi e venturosi furono i tempi», scrisse Cide Hamete Benengeli, «in cui venne al mondo l’audacissimo Don Chisciotte della Mancia, poiché per quella tanta onorevole decisione che egli prese, di cercare e restituire al mondo l’ordine già perduto e quasi morto della cavalleria errante, godiamo ora nella nostra mente che ha tanto bisogno di lieti divertimenti, non solo della piacevolezza della sua autentica storia, ma anche dei suoi racconti ed episodi che, in un certo modo, non sono meno piacevoli e artificiosi e veri della storia».
Dunque ciò che importa nella narrativa moderna è il divertimento: a patto che il divertimento sia immaginato da uno scrittore malinconico che – diceva Cervantes di se stesso – “tiene la mano sulla gota”. Come l’angelo di Dürer, egli fece attraversare le terre di Spagna da un cavaliere non meno malinconico di lui.