giovedì 18 gennaio 2018

Repubblica 18.1.18
Bandiera di pace per le Coree la favola olimpica vince ancora
Ai Giochi invernali Seul e Pyongyang sfileranno insieme con un vessillo bianco Ma la tregua sportiva potrebbe non risolvere tutto: la crisi rischia di essere solo rinviata
di Vittorio Zucconi


Washington Dolce favola che ci raccontiamo ogni due anni, sotto i cinque cerchi e le fiaccole accese per un paio di settimane, anche le Olimpiadi invernali di PyeongChang torneranno a offrirci la rappresentazione della pace, con la sfilata comune fra le due Coree. Niente, della realtà che vede la guerra appesa alla volontà di un autocrate bambino che controlla centinaia di cannoni e ora missili con testate nucleari a pochi chilometri dalla capitale del Sud e di un Presidente americano che minaccia “ furia e fuoco” per fermarlo, cambierà.
Il 25 febbraio, quando la cerimonia di chiusura archivierà anche questa edizione invernale della fiaba olimpica che si apre il 9 febbraio, tutto cambierà: la piaga aperta da ormai quasi 70 anni sul 38esimo parallelo tornerà a imporsi, e le speranze aperte da quella bandiera bianca con la silhouette della penisola coreana cederanno la scena alla decisione, ormai irreversibile, di fare della Corea del Nord una mini-potenza nucleare.
L’illusione dello sport come espressione di gioia e di onesta competizione atletica separata dalla politica fu sbriciolata definitivamente 82 anni or sono dalle Olimpiadi di Berlino, volute da Adolf Hitler come vetrina del nazismo, e poi ripetutamente smascherata da Giochi pensati e voluti come attestati di trionfi di regimi: i sovietici nel 1980 e i cinesi nel 2008. Basta rivedere i giornali degli anni ‘30 per ricordare come ogni successo atletico fosse salutato come un tributo al Duce, dal calcio all’atletica leggera, o al Führer.
Ma in rare occasioni, quasi sempre fuori dalla retorica e dalla pomposità di cerimonie inaugurali sempre più faraoniche, lo sport, specialmente quello minore e dunque meno sottoposto all’attenzione esasperata dei media, ha dato qualche contributo alla rottura di tensioni che la politica, le armi e la diplomazia non riuscivano ad allentare.
La “ Missione Ping Pong” attribuita all’allora segretario di Stato Henry Kissinger che all’inizio degli anni ‘ 70 inviò una squadra di giocatori di tennis da tavolo nella Cina comunista che gli Stati Uniti non volevano riconoscere, o gli incontri di lotta libera fra americani e iraniani dopo l’avvento dell’ayatollah Khomeini in Iran, furono piccoli segnali che era ancora possibile tenere vivi canali di relazioni fra nemici inconciliabili.
Questa gelida tregua fra Nord e Sud Corea che sarà simboleggiata dalla bandiera comune, da allenamenti misti e da squadre binazionali, sono una di quelle rappresentazioni che possono passare senza lasciare alcun segno o spezzare la truculenta ostilità che divide un popolo in due nazioni, due sistemi, totalmente incompatibili. E mettere l’acqua bollente di una crisi insoluta almeno a bagnomaria, per poco.
Non è infatti questa la prima volta che i coreani sui due versanti del 38esimo parallelo sfoggiano l’illusione dell’unità: già vista, tra l’altro, anche alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006, dopo le quali la tensione riprese a bollire fino al punto di esplosione raggiunto alla fine del 2017 e raccontato, in maniera tragicamente ridicola, con il doppio falso allarme attacco lanciato prima alle Hawaii e poi in Giappone. Due occasioni nelle quali i missili in arrivo erano inesistenti, ma il terrore era reale, per dimostrare quanto poco credibile sia, nonostante le bandiere, il “ Nuovo Kim” ammansito dagli ideali di Olimpia.
Ma la favola, che pure sappiamo essere, appunto, favola, ha comunque un suo valore reale e offre l’occasione per respirare, anche se soltanto per un paio di settimane. Era ovvio che nell’estate del 1980, mentre l’agonizzante regime sovietico tentava di far dimenticare in un gigantesco “ Villaggio Potëmkin” il proprio disfacimento e il disastro dell’invasione dell’Afghanistan, tutti noi sapevamo che durante anche quella Olimpiade mutilata il Cremlino non avrebbe lanciato altri attacchi. Così, anche il Piccolo Padre di Pyongyang eviterà certamente di testate altri missili balistici e far esplodere altri ordigni nucleari fino al 25 febbraio, giorno di chiusura e se un mese sembra poco, è già qualcosa rispetto alla sensazione, acuta ancora poche settimane or sono, che ogni giorno potesse partire il tweet trumpiano o il razzo coreano capace di accendere la miccia. Se paura ancora circonda le Olimpiadi, questa non è la guerra fra nazioni, ma i morsi del terrorismo che le osserva come ghiotte prede.
Non possiamo affidare a pattinatrici, slalomisti, giocatori di hockey problemi che i governanti non sanno risolvere, ma è qualcosa sapere che per qualche giorno non dovremmo svegliarci temendo che sia partita la Terza Guerra Mondiale. Una tregua di ghiaccio è preferibile a una guerra calda.