mercoledì 24 gennaio 2018

La Stampa 24.1.18
D’Alema:
il Papa unico leader della sinistra


«Siamo di fronte a un paradosso: se il cattolicesimo politico è oggettivamente smarrito, la Chiesa è invece determinata e protagonista nel diffondere il suo messaggio di critica alla realtà: Francesco è il principale leader della sinistra, nel modo più significativo». Sono le parole di Massimo D’Alema, che ieri ha presentato un libro di Giorgio Merlo sul cattolicesimo politico. L’ex premier ha poi attaccato il Rosatellum: «Abbiamo una legge elettorale che favorisce il caos e spero che i cittadini si ricordino, quando saranno di fronte alla complicatissime schede, chi è il responsabile»

il manifesto 24.1.18
Leu, regioni in rivolta per le liste
Verso il voto 2018. Sardegna, Sicilia e Abruzzo in ebollizione per le liste imposte ’dal centro’. Slitta l’ok di Grasso, la lunga notte delle trattative. Il caso dei portavoce, quello dei «catapultati», Ed è subito sindrome da nominati da era Porcellum
di Daniela Preziosi


Alle cinque della sera Maurizio Migliavacca, uomo macchina delle liste di Mdp e da sempre uomo di assoluta fiducia di Bersani, telefona a Piero Grasso. A via Zanardelli, la sede nazionale di Mdp, alle sei è convocata la riunione degli sherpa di Leu, alle otto le liste vanno consegnate al presidente del senato per l’ok finale.
Ma a quest’ora, e siamo alle cinque, solo cinque regioni hanno consegnato le liste complete. Dal resto della penisola arrivano documenti, comunicati, notizie di assemblee permanenti contro i «catapultati» da Roma. Malumori in Calabria e in Toscana. Ma le agenzie parlano di territori in ebollizione: Sardegna, Sicilia, Abruzzo. Qualche contestazione al momento delle liste è fisiologica. Ma stavolta il limite di guardia è pericolosamente vicino per una forza ancora da costruite. La riunione degli sherpa slitta alle 23. Da lì inizia la notte più lunga di Leu, movimento nato da Mdp, Sinistra italiana e Possibile su una promessa di partito comune.
DI «RIVOLTA» parlano i titoli dei siti online siciliani, terra di Grasso. Lì si è appreso della candidatura dell’ex segretario Cgil Epifani (Mdp) al proporzionale nei collegi di Catania, Siracusa e Messina. «Mi auguro sia una fake news. Sarebbe una scelta mortificante per il territorio e deleteria per il delicatissimo lavoro svolto fino a oggi, quello di creare un gruppo di donne e uomini che credono nella politica come mezzo per costruire giorni migliori e non come un fine per occupare le istituzioni», avverte il civatiano Danilo Festa.
VA PEGGIO IN SARDEGNA. Anche lì è rivolta, in questo caso contro Claudio Grassi, di Sinistra italiana. È un comunista emiliano di lungo corso: ex cossuttiano passato nelle file di Bertinotti ai tempi della rottura con Prodi (1998), poi a capo della minoranza del Prc di Paolo Ferrero, ora al fianco di Nicola Fratoianni. Da Cagliari viene spedito al nazionale un comunicato, parla di «elementi di mortificazione del processo partecipativo alla formazione delle liste» di «mina alle fondamenta di un soggetto politico unitario». Si minaccia il ritiro in massa delle candidature. Fra le molte firme c’è quella dell’ex deputato Michele Piras. Ma soprattutto quella di Yuri Mario Marcialis, assessore comunale e colonna della scissione dal Pd in Sardegna. Al telefono c’è chi chiarisce: «Se non rinsaviscono le liste se le fanno da soli. E i voti se li vengono a cercare loro».
L’ABRUZZO È UN ALTRO CASO spinoso. I nomi proposti dall’assemblea regionale, una ventina, sono tutti rocciosamente radicati nel territorio (fra gli altri il deputato Gianni Melilla, l’assessora Marinella Sclocco, il sindaco di Giulianova Mastromauro e dal vicesindaco di Vasto Paola Cianci). Ma da Roma vengono ignorate . E a capo dei due listini proporzionali sono indicati la deputata calabrese Celeste Costantino (Si), e il deputato molisano Danilo Leva (Mdp). La replica dell’assemblea di Leu, ieri riunita d’emergenza, è dura: così «sarà difficilissimo, se non impossibile,  garantire persino il mantenimento delle candidature nel maggioritario tra le disponibilità  ricevute».
FUOCHI DI MALESSERE arrivano da molte altri parti. La calabrese Anna Falcone, già attivista del Brancaccio, ha un posto garantito in Friuli e a Sondrio in Lombardia, il medico di Lampedusa Pietro Bartolo in Lombardia, tanto per fare esempi in cui è andata a farsi benedire la «territorialità» votata in pompa magna nell’assemblea del 7 gennaio come criterio per non trasformare i candidati negli ennesimi nominati. Poi c’è la questione dei ’portavoce: Grasso avrebbe imposto il suo, Alessio Pasquini. Mpd avrebbe messo in lista (anche se difficilmente eleggibile), l’ex di Franceschini, Piero Martino, deputato uscente. E Sinistra italiana un ’comunicatore’ di nuova generazione, il giovane Claudio Riccio, pugliese ma spedito in Toscana.
DALLE STANZE delle trattative ieri sera non si muoveva nessuno. Nel tentativo di correre ai ripari. Ma senza perdere le posizioni ormai acquisite nel patto di ferro fra Mdp e Si, con Possibile a fare la parte della cenerentola. E Civati a chiedere l’apertura alla società impegnata e a sentirsi rispondere: «Ottima idea: ma al posto dei tuoi».
IL RAGIONAMENTO che viene svolto è semplice: l’8 per cento ipotizzato (e non è poco) garantisce l’elezione di 38/40 tra deputati e senatori. La lotteria Rosatellum costringe alle pluricandidature per essere certi delle elezioni. Tolti tre segretari (Fratoianni, Speranza, Civati), sei della quota Grasso, Laura Boldrini, e i tre di Civati, ne restano circa 25. Ovvero 16 a Mdp (big compresi), 9 a Si: questa la proporzione. Con questi numeri a essere garantiti sono i noccioli duri (cioè vicini ai segretari) dei due gruppi uscenti. Con buona pace dei territori. A meno che la notte non porti consiglio.

il manifesto 24.1.18
Imprevedibile Rosatellum, nominati ma scelti a caso
Legge elettorale. Il paradosso di un sistema bloccato che non garantisce certezze sull’assegnazione effettiva dei seggi. Ecco perché per i partiti e per le coalizioni è così difficile compilare le liste
I simboli elettorali presentati al Viminale
di Andrea Fabozzi


Manca più di un mese alle elezioni e la nuova legge elettorale sta già facendo sentire i suoi effetti. Pesanti, vista la difficoltà di partiti e coalizioni a chiudere le liste elettorali. L’operazione non è mai stata semplice, con il Rosatellum pare impossibile. Perché il nuovo sistema combina le caratteristiche del voto bloccato, quello che permette ai leader di scegliere in anticipo deputati e senatori, a un complicato sistema di attribuzione dei seggi che smonta sul nascere le certezze dei capi partito. In teoria le liste sono riempite di «nominati», in pratica le nomine sono affidate al caso (assai più che agli elettori).
Per un terzo, deputati e senatori saranno eletti nelle sfide uninominali, quelle dove conquista il seggio chi prende anche un solo voto più del secondo. In teoria è una gara, in pratica il risultato è deciso in anticipo dalla forza del partito in quel territorio. Infatti le liste si fanno dopo aver visto gli ultimi sondaggi nei collegi, calando i prescelti nei posti sicuri. Cioè si assegna il collegio al candidato, e non il candidato al collegio come da propagandato «spirito dell’uninominale». Problema: i collegi sicuri non bastano; soluzione: le pluricandidature. Chi corre nell’uninominale si presenta anche come capolista nel proporzionale. Non una, ma fino a cinque volte. Nel caso delle liste che non hanno chance di vittoria nei testa a testa il proporzionale è un obbligo e la candidatura nell’uninominale serve solo a tirare voti sul simbolo – il Rosatellum infatti prevede un solo voto per i due sistemi.
Ma neppure una candidatura da capolista al plurinominale basta per chi «deve» essere eletto, neanche in un collegio che sulla carta è «sicuro». Perché il sistema con cui il Rosatellum assegna deputati e senatori non garantisce che il risultato sul territorio sia effettivamente rispettato. Intanto il riparto dei seggi per ogni lista è fatto a livello nazionale. È lì che si decide quanti parlamentari avrà una lista, a prescindere dal suo risultato nelle circoscrizioni. Facciamo un esempio: se Liberi e Uguali prende l’8,5% dei voti validi in Toscana, non per questo conquista con certezza due seggi nel proporzionale in quella regione (l’8,5% dei 24 seggi in palio). Va così solo se quei due seggi sono compatibili con il numero totale dei seggi che spettano a LeU a livello nazionale. Ma anche ammesso che siano due, non è detto che all’interno della circoscrizione Toscana scattino i seggi nei collegi plurinominali dove la lista ha conquistato le percentuali maggiori. Perché l’attribuzione finale deve tenere conto del calcolo dei resti e delle compensazioni che una lista «eccedentaria» (che si trova con più eletti nella circoscrizione rispetto a quelli che le spettano nazionalmente) deve fare in favore delle liste «deficitarie». Conclusione: per essere sicuri dell’elezione, i leader sono costretti a pluricandidarsi come capilista in più collegi della stessa circoscrizione.
Il risultato non è bello, anzi, ma non è ancora tutto. Perché è il seggio che la lista ha conquistato con la minore cifra elettorale percentuale a eleggere effettivamente il candidato che non ce l’ha fatta nell’uninominale e che si è candidato anche in più collegi proporzionali. Negli altri scatterà il secondo in lista. O la seconda, perché la legge impone l’alternanza di genere complicando ancora i piani di chi compila le liste. Per avere qualche garanzia bisognerebbe pluricandidare anche i secondi e i terzi in lista. Non è detto che non vedremo anche questo.

Il Fatto 24.1.18
Bonino, Casini & C: guerra con il Pd per i posti in lista
Cominciano bene. La coalizione con centristi, Radicali e Verdi stenta a ingranare: i dem non vogliono lasciare agli alleati i (pochi) collegi sicuri
di Wanda Marra


Le alleanze si sono formalizzate solo domenica scorsa, alle elezioni mancano ancora quasi 6 settimane e la coalizione-bonsai, messa su dal Pd di Renzi, con la lista +Europa di Emma Bonino, Civica popolare di Beatrice Lorenzin e Insieme di Angelo Bonelli, già mostra segni di cedimento. Motivo? La trattativa sulle candidature, tanto per cominciare. L’ultima offerta di Renzi erano 18 collegi di cui 11 sicuri (rispettivamente, 4, 4 e 3). Ma il segretario dem stenta a trovarli e i “coalizzati” chiedono comunque garanzie.
I casi più eclatanti sono proprio quelli che riguardano i big: Lorenzin, Bonino e soprattutto, Pier Ferdinando Casini. Le Regioni più forti (ovvero Emilia Romagna e Toscana) si devono “caricare” gli esterni al Pd, non esattamente popolari nell’elettorato di centrosinistra: dunque, le resistenze si sprecano. Francesco Cretelli, il segretario dem di Bologna, aveva accettato di schierare Casini in città, dopo lunga pressione da parte di Renzi. Dopodiché l’Emilia Romagna, con il segretario Paolo Calvano, aveva esplicitato la difficoltà a garantire troppi non dem: a farne le spese dovrebbe essere, per iniziare, Gian Luca Galletti, ministro dell’Ambiente. Tali e tante le polemiche su Casini che Renzi lunedì pomeriggio aveva anche pensato di spostarlo. Alla fine, è stato Dario Franceschini a dire la parola fine: “Chiudiamo subito ogni polemica e resistenza su Casini o su altri esponenti dei partiti alleati candidati comuni nei collegi uninominali, da Bonino a Lorenzin a Tabacci. Le coalizioni portano a questo, come era per l’Ulivo. Lo sapevamo già quando abbiamo discusso nel Pd proprio per andare verso una politica di alleanze. È contraddittorio che chi ha sostenuto quella linea oggi resista rispetto a candidati nei collegi di liste alleate”.
Nel frattempo, infatti, a Prato è scoppiato il caso Lorenzin. Il collegio individuato per lei sarebbe quello. Ma ieri è stato il renzianissimo sindaco, Matteo Biffoni, a protestare (su Repubblica di Firenze): “Con lei vincere sarebbe molto più complicato”. Pare che Emma Bonino in Piemonte, nel collegio Torino 1 resista. Ma anche lì non senza proteste, visto che i dem piemontesi si devono già prendere Piero Fassino come capolista al proporzionale, nonostante il loro scetticismo. Quanto a Insieme, ieri Riccardo Nencini e Giulio Santagata hanno voluto incontrare Renzi per chiedergli garanzie sulla loro presenza nelle liste. Vorrebbero cinque posti ma, secondo fonti Dem, rischiano di non arrivare neanche all’1% e ne avranno la metà.
Poi, c’è il caso Lazio, dove la Lorenzin non è in coalizione con il governatore Pd uscente, Nicola Zingaretti: “La vicenda laziale lascia un segno”, ha detto ieri. Sia lei che la Bonino hanno detto in maniera non proprio convincente che troveranno il modo di stare insieme anche dopo il voto, nonostante le differenze. “Credo semplicemente che io rimarrò Radicale e che andrò avanti per la mia strada, come credo farà anche lei. Farò le mie battaglie sperando di poter avere più voti di lei per poterle realizzare”, ha detto la leader di +Europa.
Ci sono una serie di questioni di fondo: Renzi ora fa l’europeista, ma ieri non ha mancato di riproporre il “ritorno a Maastricht” per riportare il deficit al 2,9%. Proprio mentre la Bonino lo punzecchiava: “Renzi sull’Europa è stato molto altalenante, forse perché non aveva capito bene”. Senza contare che sull’immigrazione lei e un esponente di spicco non solo del Pd, ma pure del governo, come Marco Minniti, sono su posizioni diametralmente opposte.
D’altra parte, che le coalizioni rese obbligatorie dal Rosatellum si riveleranno il 5 marzo essere solo un cartello elettorale, lo ammettono pure svariati candidati a microfoni spenti. E lo dimostrano i continui ragionamenti che si fanno nei palazzi della politica per capire quale maggioranza sarà possibile: lo scenario che va più forte resta l’alleanza tra Pd e Forza Italia, senza le ali, ma non manca chi ragiona su altre variabili.
Sulle liste al Nazareno sono in ritardo. Ragionare su 200 posti in meno da assegnare non è facile. Ieri, teneva banco il problema Maria Elena Boschi. Al Nazareno, per tutta la giornata i vertici dem la davano in vari listini proporzionali, tra cui Trentino Alto Adige e la Toscana. Mentre Renzi assicurava che invece avrà un collegio: in Trentino, però, non a Firenze, contro Michaela Biancofiore. La decisione pare quasi definitiva. Grazie ai voti dell’Svp, la Sottosegretaria si guadagna il suo collegio. Paracadutata sarà pure Valeria Fedeli, altro caso spinoso: dovrebbe correre a Piombino.

La Stampa 24.1.18
Boschi, operazione “nuova immagine”
Scomparsa dalla scena, pronta al ritorno
Candidata a Bolzano in un collegio contro la forzista Biancofiore
di Maria Corbi


Chi l’ha vista? Maria Elena Boschi dal 14 dicembre, giorno del letale confronto tv con Marco Travaglio, è scomparsa dalle ribalte mediatiche, ma anche dalle piazze e dai giornali patinati. Ordine di scuderia, arrivato dal Nazareno, valido almeno fino a che non si sia sciolto il rebus dei collegi. Perché scegliere quello adatto per «Meb» non è cosa facile. E non sarebbe stato facile nemmeno proteggerla (e nasconderla) nel listino proporzionale quando tutti i ministri si misureranno in collegi uninominali. Tanto che in queste ore si è deciso di darle un collegio.
Certo lei non è formalmente un ministro, solo un sottosegretario, ma usare questo distinguo per spiegare una sua esclusione dalla «gara» sarebbe stata una missione complicata. Per questo sembra definitiva la scelta di un collegio uninominale a Bolzano dove si scontrerebbe con Michaela Biancofiore. In ballo c’era anche il collegio di Firenze 2 per la Camera. Sarebbero tre o quattro invece le regioni dove candidarla anche nei listini proporzionali e tra queste sempre il Trentino Alto Adige, che offre le maggiori garanzie per l’accordo con la Svp.
Su tutto aleggia anche l’incognita della relazione finale della commissione Banche, che dovrebbe arrivare a fine mese e che potrebbe suscitare altre polemiche. Altro motivo per rimanere in ombra, almeno per ora. Il destino di Maria Elena è dunque appeso a un solo filo, anche se d’acciaio, tirato da Renzi che non vuole abbandonarla anche per evitare di indebolire se stesso.
Non cambia per lei la parola d’ordine: low profile. La scelta di non farle saltare questo giro in Parlamento, in attesa di tempi più prosperi, continua a non piacere a un pezzo del partito che vede nel caso Etruria-Boschi una fonte inesauribile di guai e di emorragia di voti. Una leva potente per gli avversari, a cominciare dal Movimento 5 Stelle, che con Di Maio inizia la campagna elettorale proprio ad Arezzo. Dove il sindaco ha annunciato di voler fare causa ai Boschi per danno di immagine.
Insomma tempi duri, ma lei non si piega anche se ha accettato di prendersi una pausa dalla ribalta come le hanno caldamente consigliato Renzi e Gentiloni, soprattutto dopo l’effetto boomerang che ha avuto lo scontro con Travaglio in tv chiesto proprio da Meb.
E in questa «pausa» forzata Maria Elena Boschi prepara il suo ritorno. Una volta sciolto il nodo della candidatura dovrà tornare a farsi vedere. Il tentativo è quello di togliersi le vesti della potente «preferita» per indossare quelli della paladina delle cause femminili, rispolverando la sua delega per le pari opportunità. «Perché mi dovrebbero votare? Per esempio per quello che ho fatto per le donne», disse proprio nel suo ultimo intervento in tv. E sembra questa la strada per ricostruirsi l’immagine, lontano dalle riforme istituzionali, lontano dalle banche, su un terreno sicuramente meno accidentato. E non è certo un caso che Lucia Annibali, la donna sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, voluta da lei come suo consigliere giuridico, sia una delle candidate Pd. Lucia Annibali che ha attaccato Marco Travaglio per avere usato il termine «acido» in un suo pezzo sulla fine della legislatura.
E basta aprire la pagina Facebook di «Meb» per accorgersi del cambiamento. I suoi post sono fino ad adesso l’unica prova dell’esistenza politica della Boschi. Parlano di disparità di salari tra uomini e donne, ma anche di parità di trattamento fra persone di religione diversa in occasione della giornata della Memoria. L’operazione «nuova immagine» è cominciata.

Corriere 24.1.18
...
I vertici del Pd hanno ritenuto fosse meglio affidare a Boschi un collegio blindato, grazie all’accordo con la Svp, e, soprattutto, tranquillo, in modo da tenere il più possibile al riparo sia lei che il partito dalle polemiche sulle banche. Che di certo non mancheranno, ma a Bolzano non c’è quel clima che si respira in altri collegi italiani. Peraltro 5 Stelle e Liberi e uguali, cioè le due forze politiche che hanno tutto l’interesse a tenere alta la tensione, lì sono marginali. Perciò Boschi molto probabilmente a Bolzano si scontrerà con Michaela Biancofiore di Forza Italia...
di Maria Teresa Meli

Corriere 24.1.18
Tutti i distinguo del signor Rossi, che si ispirava a Bernie Sanders
di Monica Guerzoni


Libero sì, ma di dire quello che gli passa per la testa. Da quando ha varcato la soglia di Leu da fondatore, Enrico Rossi non fa che lanciare fiammiferi (accesi) sulle braci già ardenti della nuova sinistra: «Dissidente io? Sono uscito dal Pd per poter esprimere la mia opinione. Se non sbaglio ci chiamiamo Liberi e uguali». Bersani vuole il dialogo con i 5 Stelle? Il governatore della Toscana li bolla come «persone reazionarie e inquietanti». Gli ex ds respingono gli appelli di Prodi all’unità? E lui sull’Europa sociale lo loda: «Ha ragione». E se Fratoianni mette il veto su Gori e Zingaretti, Rossi tifa per l’accordo: «Non facciamoci del male lo dissi io, prima del D’Alema». Il D’Alema. Il Grasso. Il Bersani. Il Fratoianni. Per ognuno, l’ex comunista fiero di chiamarsi Enrico come Berlinguer ha un avviso scandito in controtempo. Un mese fa, mentre i fratelli coltelli si scannavano in nome del passato, Rossi gandhianamente invocava la desistenza: «Facciamo in modo che non scorra il sangue». Per un anno ha battuto lo Stivale dalla punta al tacco, ostinato a convincere gli elettori che l’Italia ha il suo Bernie Sanders: «Lo potrei fare, lo saprei fare». Ha scritto un libello e, senza falsa modestia, lo ha intitolato Rivoluzione socialista . Nel 2015, con un’era geologica di anticipo sulle primarie, ha sfidato Renzi tirandosi dietro il sospetto di essere «il migliore avversario possibile». E al referendum, alla faccia dei «gufi» pronti a silurare «Matteo», ha piazzato serafico la crocetta sul sì: «Renziano io? Mai!». Figlio di un camionista, nato nel 1958 tra la Piana di Lucca e il Valdarno inferiore, l’uomo di Bientina ha una storia da funzionario di partito. Un po’ filosofo e un po’ giornalista, ha affinato l’arte di differenziarsi dai compagni e la cosa lo diverte assai: «Ho superato il riflesso conformista che una certa tradizione gloriosa aveva instillato in tanti di noi. Dico quello che penso e molta gente mi ascolta». Giorni fa era in Puglia, terra di D’Alema: «Non è solo sua... Sono stato invitato dai compagni, dalemiani e non» .

Corriere 24.1.18
La memoria e il caso Roma
Le vie dedicate ai razzisti spettano ai professori eroi che dissero no al fascismo
La proposta di Raggi e la lezione di chi si oppose al giuramento
di Pierluigi Battista


La giunta romana di Virginia Raggi ha annunciato che nel Giorno della Memoria verrà tolta l’intestazione alle vie dedicate ai tre scienziati che avallarono, dando copertura pseudo-scientifica alle leggi razziste varate nel ’38 dal regime fascista, il «Manifesto della razza» con cui iniziò in Italia la discriminazione anti-ebraica, sfociata poi nella persecuzione degli anni bellici. Ma perché questo gesto non scada nell’ipocrisia, in un rituale per placare le coscienze, nell’autoassoluzione collettiva di un popolo che diede al fascismo un consenso larghissimo, sarebbe il caso che a Roma e negli altri Comuni italiani sorgessero contemporaneamente una via Giorgio Levi Della Vida, un viale Gaetano De Sanctis, una piazza Piero Martinetti, un largo Lionello Venturi e altre vie dedicate a Vito Volterra, Francesco Ruffini, Edoardo Ruffini, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Bartolo Nigrisoli, Fabio Luzzatto, Marco Carrara. Dodici intestazioni, come dodici furono gli unici docenti universitari italiani, tra migliaia e migliaia che si inchinarono per dire di sì e conservare intatte le loro cattedre, che si rifiutarono nel ’31 di sottoscrivere il giuramento di fedeltà al fascismo. Dodici eroi. Dodici eroi sconosciuti alla gran parte degli italiani perché l’Italia antifascista si è finora ben guardata dal celebrarli come eroi del dissenso e della dignità. Preferendo piuttosto sorvolare in silenzio su quelle migliaia di professori che con il fascismo e poi con il razzismo antisemita scesero a patti.
Un riconoscimento tardivo perché quei dodici nomi sono la prova che si poteva dire di No. E invece i più non dissero No nemmeno di fronte alle discriminazioni antiebraiche. Ha ricordato Roberto Finzi che quando ai docenti ebrei vennero sottratte le cariche Ernesto Rossi, allora oppositore del regime in carcere, disse che quelle leggi avrebbero rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». E le cose andarono proprio così. Per occupare le cattedre lasciate vacanti dai docenti ebrei perseguitati si fecero avanti molti nomi illustri che dopo il ritorno alla democrazia diventeranno padri della Patria antifascista. Dalle copertine dei libri scritti da autori ebrei sparirono i nomi dei discriminati e comparvero nomi razzialmente puri. E nessuno pagò per questo, va ricordato nel Giorno della Memoria. Anzi, come ha scritto nel 2002 Alberto Cavaglion, «dopo la fine della guerra la cattedra di Letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Negli ultimi anni della sua vita Vittorio Foa ha detto: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dall’università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza. Forse non sto cercando una condanna morale ma il riconoscimento di un fatto».
Si racconta che quando Vittorio Emanuele Orlando, che al tempo del giuramento si era avvalso del suo diritto alla pensione, incontrò nel dopoguerra Edoardo Ruffini, figlio di Francesco, gli si rivolse con un «noi che abbiamo rifiutato il giuramento», l’interlocutore lo abbia raggelato: «Credo che tra la sua richiesta di pensionamento e il rifiuto del giuramento di mio padre vi sia una differenza». Appunto, quello che Foa ha definito il rifiuto del «riconoscimento di un fatto». Per non riconoscere il «fatto» della sottomissione, dell’accomodamento della gran parte della cultura ai diktat del fascismo e dell’antisemitismo si è scelto di condannare all’oblio i dodici eroi che dissero di No. Perché la loro semplice testimonianza avrebbe dimostrato che l’umiliazione poteva essere evitata. Ecco perché intestare vie e piazze ai dodici eroi misconosciuti avrebbe un grande valore. Fuori dalle ipocrisie e dalle biografie abbellite.

il manifesto 24.1.18
Curdi mobilitati contro l’avanzata turca: «Afrin come Kobane»Siria. Primi due soldati turchi uccisi ma i civili morti sono già più di venti, anche bambini
miliziani siriani dell'Els ad Azaz per l'operazione detta Ramoscello d'Ulivo
di Rachele Gonnelli


Quando si accende una miccia sotto una fascina di paglia non si può mai sapere dove andrà a finire il fuoco. E l’incendio che la Turchia ha appiccato con l’attacco ad Afrin e Azaz, in territorio siriano, potrebbe sfuggirgli di mano. Ieri, quarto giorno dell’operazione stucchevolmente denominata «Ramoscello d’ulivo», oltre ai primi due militari turchi morti in territorio siriano, comincia a delinearsi un certo allarme degli ex alleati delle unità Ypg che finora hanno lasciato fare.
Il Cremlino oppone ancora il suo «no comment» alle accuse di tradimento che gli vengono dai curdi del Rojava ma il ministro degli Esteri Serghej Lavrov ha dovuto in qualche modo rispondere a diverse accuse sulla stampa russa e internazionale che parlano di un accordo e di uno scambio tra Mosca e il presidente turco Recep Tayyp Erdogan: lasciare a lui l’area di confine in cambio della città siriana di Idlib, ancora controllata dai miliziani di «Hayat Tahir al Sham», l’ex Fronte Al Nusra, legato a Al Qaida e sostanzialmente pilotato a distanza dai turchi. A chi faceva notare a Lavrov la strana coincidenza tra il ritiro delle forze russe dalla base di Kafr Jannah, collocata proprio tra Afrin e Azaz, lo stesso giorno, sabato, in cui è iniziata l’avanzata turca, il ministro ha risposto che la motivazione era «prevenire provocazioni e salvaguardare l’incolumità dei soldati russi». Lavrov ha cercato poi di spostare l’attenzione verso Washington, accusando gli Usa di incoraggiare le posizioni separatiste curde senza dialogare con Damasco.
Oltre la nebbia che in queste ore rallenta i combattimenti ad Afrin e le nebbiose e contraddittorie spiegazioni russe, c’è chi vede, come moneta di scambio tra Putin e Erdogan, la realizzazione del gasdotto Turkish Stream. La prima pietra della pipeline di cui si parla da anni, rallentata dalle sanzioni alla Russia, che dovrà portare il gas siberiano in Europa attraverso anche condutture sottomarine è stata alla fine posta proprio il giorno prima dell’ora x per l’operazione «Ramoscello d’ulivo».
La geopolitica dei tubi non risolve nessuna equazione bellica. E le mire neo ottomane di Erdogan, che potrebbero estendersi fino ad Aleppo – fanno notare i commentatori russi che ricordano le terre perse nel trattato di Losanna del 1921 – mettono in allarme Mosca e Damasco. Così ieri due razzi, pur senza far vittime, sono stati sparati dalle truppe di Assad in territorio turco, a Kilis e Hatay. Mentre nella base russa di Tartous a difesa di Damasco sono arrivati i nuovi sistemi missilistici di difesa aerea S-400.
I curdi si preparano intanto alla resistenza casa per casa e villaggio per villaggio «come per Kobane». Tramite l’agenzia Anha è stato diramato il testo di un appello alla mobilitazione generale contro «il governo fascista della Turchia». E insieme ai cristiani di Afrin si rivolgono alla comunità internazionale, mettendola di fronte «alla sua responsabilità morale e umana».
L’incognita resta la posizione finale degli Stati Uniti. Una telefonata tra Trump e Erdogan è attesa per oggi.

il manifesto 24.1.18
I palestinesi all’evangelico Pence: «Cristo è giustizia per tutti i popoli»
Usa/Israele/Palestina. Per i cristiani sionisti, come il vicepresidente Usa, lo Stato di Israele è la prova che Dio mantiene le sue promesse e la biblica Eretz Israel nelle mani del popolo ebraico è un passo decisivo verso la seconda venuta di Cristo
Il vicepresidente americano Mike Pence ieri al Muro del Pianto
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Lubna Bandak proprio non riesce ad accettare il discorso, carico di riferimenti religiosi, pronunciato dal vicepresidente americano Mike Pence lunedì alla Knesset. «Pence ha stravolto la storia e manipolato la fede cristiana – ci dice – Noi (palestinesi) cristiani apparteniamo a questa terra, la terra dove è nata la nostra fede, e siamo parte integrante del popolo palestinese». La parola di Cristo, spiega, «vuol dire giustizia e uguaglianza per tutti gli esseri umani e per tutti i popoli, non il dominio dell’uno sull’altro».
Insegnante, parte di una famiglia ortodossa tra le più antiche di Betlemme, Bandak è una dei tanti cristiani palestinesi che hanno ascoltato con sgomento le parole di Pence quando, di fatto a nome del mondo cristiano, ha riconosciuto a Israele il diritto esclusivo al controllo di Gerusalemme e della Terra Santa.
«Persone come Pence non riescono a capire che i cristiani palestinesi sono arabi, come arabi sono i musulmani palestinesi ed insieme reclamiamo i nostri diritti», aggiunge perentoria. Anche il sindaco di Betlemme, Anton Salman, un cattolico, condanna l’Amministrazione Usa. «Le affermazioni di Pence non aiutano – ha protestato – il vicepresidente americano deve sapere che i cristiani palestinesi sono parte della gente di questa terra e sostenere il loro diritto all’indipendenza, alla libertà e Gerusalemme est come capitale del loro Stato».
Il fervore religioso con il quale Pence – che ieri ha concluso la sua visita a Gerusalemme – ha motivato l’alleanza, ad ogni livello, tra gli Usa e Israele, ha approfondito il solco esistente tra la comunità palestinese cristiana e la sempre più corposa galassia cristiana sionista, un tempo confinata negli Usa e ora diffusa in tutto il pianeta, anche in Italia. I cristiani in Terra Santa affermano che la parola di Cristo significa libertà e diritti per tutti, anche per i palestinesi e non sostegno alle politiche di occupazione attuate da Israele.
Aggiungono, facendo riferimento a quanto dichiarato in queste settimane dai leader di varie chiese cristiane, che Gerusalemme non può essere la capitale solo di Israele, in ragione della sua storia e della sua importanza per tutte e tre le fedi monoteistiche.
Al contrario per i cristiani sionisti, in gran parte ma non più soltanto evangelici, Pence ha dimostrato coraggio dichiarando in modo esplicito ciò in cui loro credono: lo Stato di Israele è la prova che Dio mantiene le sue promesse e il controllo di tutta la biblica Eretz Israel (la Palestina storica) ora nelle mani del popolo ebraico è un passo decisivo verso la seconda venuta di Cristo. L’anno scorso parlando all’assemblea dell’organizzazione guidata dal pastore texano John Hagee – noto per la sua viscerale avversione all’Islam, che descrive come l’Anticristo, quindi da distruggere – Pence sostenne che «Sebbene Israele sia stato costruito da mani umane, è impossibile non sentire che nella sua storia c’è la mano del cielo».
David Parsons, portavoce della cosiddetta Ambasciata Cristiana Internazionale di Gerusalemme, la “sede diplomatica” sin dagli anni Ottanta dei cristiani sionisti, dice che Pence, un tempo cattolico ora evangelico, deve essere considerato «uno dei loro». Che il Cristianesimo sionista sia in costante crescita lo conferma, tra le altre cose, la partecipazione sempre più numerosa alla marcia annuale nelle strade di Gerusalemme per la festività ebraica del Succot alla quale prendono parte molte migliaia di persone di ogni continente.
Un appuntamento che vuole afferma il controllo esclusivo di Israele sulla Terra Santa. Sono un indicatore importante anche i 65 milioni di copie vendute, non solo negli Stati Uniti, dei libri del reverendo Tim LaHaye (morto due anni fa) coautore con Jerry Jenkins della serie di bestseller apocalittici “Left Behind”: 16 romanzi basati sui libri di Isaia, Ezechiele e dell’Apocalisse, particolarmente apprezzati dai cristiani sionisti proprio per i riferimenti che contengono sul ruolo dello Stato di Israele nella realizzazione dei disegni divini.
Da parte loro i leader politici israeliani raccolgono a piene mani questo sostegno, sorvolando su un punto, non insignificante, delle teorie dei cristiani sionisti: tra gli ebrei in Eretz Israel si salveranno solo quelli che abbracceranno Gesù Cristo.

il manifesto 24.1.18
Serrata totale, ma «i palestinesi sono inascoltati»
Territori. «La mobilitazione continua. Alla fine la pessima dichiarazione di Trump ha prodotto qualcosa di positivo: il processo di pace è davvero finito», dice un giovane attivista in piazza
di Chiara Cruciati


RAMALLAH Tutto sbarrato, le saracinesche di ogni negozio,di ogni banca o ufficio di Ramallah sono chiuse. I ritardatari provvedono a andarci a metà mattinata, mentre farmacie e panetterie restano ancora aperte.
Lo sciopero generale è rispettato, come il richiamo al raduno in Manara Square: «La mobilitazione continua. Non è il prosieguo delle manifestazioni in risposta a Pence o a Trump, è parte naturale della lotta popolare che da anni i villaggi palestinesi portano avanti – ci spiega Maysoun, giovane attivista in piazza – Oggi non siamo molti, forse per la pioggia o forse per una generale frustrazione: noi palestinesi ci sentiamo inascoltati».
«Anche chi non è in piazza però condivide il nostro pensiero – aggiunge Sami, 24 anni – e lavora ogni giorno, nelle scuole, nelle associazioni, sui media per la stessa causa. Alla fine la pessima dichiarazione di Trump ha prodotto qualcosa di positivo: il processo di pace è davvero finito».
Il raduno si conclude, i più anziani se ne vanno sventolando le bandiere, i più giovani gridano: «Tutti a Beit El». Ad aspettarli ci sono camionette israeliane, lacrimogeni e sassaiole.

Corriere 24.1.18
Tweet contro Israele, la modella con l’hijab perde il contratto
di Stefano Montefiori
L’Oréal ha licenziato la testimonial col velo dopo le polemiche per i toni violenti dei post sui raid a Gaza
di Stefano Montefiori


PARIGI Quando L’Oréal Paris ha scelto Amena Khan come modella per una nuova linea di shampoo, qualche giorno fa, l’annuncio è stato accolto come un evento rivoluzionario, ricco di implicazioni sociali e politiche, «una svolta», ha detto lei stessa.
Amena Khan, trentenne britannica co-fondatrice di Ardere Cosmetics e influencer con mezzo milione di abbonati su Instagram, è musulmana e porta il velo da quando aveva vent’anni. Prendendo per la prima volta una donna velata come testimonial di uno shampoo, L’Oréal Paris esibiva un atteggiamento inclusivo, attento alle minoranze e benevolo verso una pratica religiosa — indossare l’hijab — che in Europa è discussa e nelle scuole francesi proibita. Ma il sito di destra americano The Daily Caller ha esaminato l’attività passata della modella nei social media, e ha trovato la macchia. Nel 2014 Amena Khan ha scritto tweet di grande violenza contro Israele, definito uno «Stato terrorista» secondo la retorica di chi se ne augura la scomparsa.
Travolta dalle critiche, a soli quattro giorni da quel momento di ecumenismo pubblicitario la donna ha rinunciato alla campagna cancellando — invano — i tweet, che ormai si trovano facilmente su Internet.
Luglio 2014, durante la guerra di Gaza. «Per secoli arabi, ebrei e cristiani hanno vissuto pacificamente gli uni accanto agli altri in Palestina. Fino alla creazione di Israele». Rivolta all’allora premier britannico David Cameron: «Parli di porre fine al terrorismo eppure sei complice nella fornitura di armi a uno Stato terrorista», con l’hashtag «Basta Armi a Israele». E ancora a Cameron: «Hai offerto un “sostegno convinto” a un genocidio».
Oltre tre anni dopo, dimenticati quei tweet, Amena Khan commentava così il fatto di propagandare un prodotto per capelli che comunque nessuno — a parte i suoi famigliari — avrebbe mai visto: «Anche le donne velate si occupano dei loro capelli. Altrimenti dovremmo credere che le donne senza velo lo fanno solo per mostrarsi agli altri». Ma era ancora il momento — molto breve — della rivendicazione identitaria.
Su Instagram, due giorni fa, Amena Khan ha annunciato il ritiro dalla campagna. «Sono profondamente dispiaciuta per il contenuto dei tweet che ho scritto nel 2014 e per la rabbia e il dolore che hanno causato. Promuovere la diversità è una delle mie passioni, non discrimino nessuno. Con grande rammarico mi ritiro dalla campagna perché il dibattito che adesso la circonda distoglie dai sentimenti positivi e inclusivi che ne erano all’origine». L’Oréal Paris certo non l’ha trattenuta, anzi: «Il nostro impegno è verso la tolleranza e il rispetto nei confronti di tutti i popoli. Siamo d’accordo con la decisione di Amena».
Da anni il marchio francese, leader mondiale nei prodotti di bellezza, cerca di diversificare la sua immagine, un tempo identificata con la donna eterosessuale occidentale bianca, per rivolgersi a una clientela più vasta.
Nell’agosto 2017 L’Oréal Paris scelse per la prima volta una modella transgender nera, la deejay e attivista britannica Munroe Bergdorf. In quel caso fu il Daily Mail a trovare su Facebook questa frase, scritta dopo la marcia neonazista di Charlottesville negli Stati Uniti e rivolta a tutti i bianchi: «La maggior parte di voi non si accorge neppure o rifiuta di riconoscere che i vostri privilegi e successi come razza sono costruiti sulle spalle, il sangue e la morte della gente di colore». Munroe Bergdorf venne accusata di «razzismo anti-bianchi», licenziata, e poi assunta dalla piccola casa concorrente Illamasqua.

La Stampa 24.1.18
Trump impone i dazi alla Cina
La rabbia di Pechino e Seul
Gli Usa aumentano le tariffe doganali sull’import di pannelli solari e lavatrici
di Paolo Mastrolilli


Donald Trump si presenta alla conferenza dei “globalisti” di Davos, dove arriverà domani, portando i primi dazi imposti dalla sua amministrazione. Per ora si tratta di tariffe sull’importazione delle cellule per i pannelli solari e le lavatrici, che puntano a colpire soprattutto Cina e Corea del Sud. Presto però potrebbero essere seguite da provvedimenti su acciaio, alluminio e proprietà intellettuale, capaci di scatenare una vera guerra commerciale con Pechino. E’ lo slogan “America First” che inizia a prendere forma attraverso le misure protezionistiche, sfidando proprio il consesso mondiale del liberismo.
Sul piano economico, Trump aveva impostato la propria campagna elettorale sulla promessa populista di contrastare o correggere la globalizzazione, che secondo lui penalizza i lavoratori americani. I pilastri della sua visione erano tre: tagliare le tasse, per favorire gli investimenti delle imprese e i consumi dei cittadini; alleggerire le regole, per facilitare l’attività delle aziende e delle istituzioni finanziarie; denunciare o rivedere i trattati commerciali, per ridisegnarli in base a criteri più favorevoli agli interessi americani. Il tutto per accelerare la crescita verso il 4% annuo, eliminare la disoccupazione e aumentare i salari. I primi due punti sono stati realizzati con la riforma fiscale, e con la cancellazione ancora in corso di molte regole che secondo lui imbrigliavano lo sviluppo, da quelle ambientali a quelle sulle operazioni delle banche dopo la crisi del 2008. Il terzo punto aveva preso forma con la denuncia del trattato Tpp con 12 paesi asiatici, e la rinegoziazione del Nafta, ma il presidente aveva chiesto al trade representative Robert Lighthizer di proporgli dazi con cui dimostrare al mondo la determinazione nella difesa delle aziende americane. Ieri sono arrivati i primi provvedimenti. Per quanto riguarda le cellule per i pannelli solari, i primi 2,5 gigawatts importati saranno esenti, ma poi verranno imposte tariffe del 30%, che scenderanno al 15% nell’arco di quattro anni. Per le lavatrici, il primo milione e duecentomila subirà dazi del 20%, che saliranno al 50% per quelle successive.
Il 95% delle cellule per i pannelli solari costruiti negli Usa è importato, e il costo è calato del 70% dal 2000 ad oggi. Nel 2011 il 59% proveniva dalla Cina, che ora è scesa all’11%, perché ha spostato la produzione in paesi come la Malaysia proprio per evitare gli eventuali dazi. Due aziende americane, SolarWorld e Suniva, hanno quindi chiesto al governo di proteggerle imponendo tariffe. La Whirlpool ha invece sollecitato di intervenire contro LG e Samsung, cioè le sue concorrenti sudcoreane.
Le compagnie che hanno domandato i dazi e l’amministrazione Trump pensano che avevano diritto ad agire, perché gli esportatori stranieri usano pratiche scorrette per abbassare il costo del lavoro e sostenere i loro prodotti. Washington è convinta che il risultato sarà un aumento della produzione e quindi dell’occupazione negli Usa, e infatti Whirlpool ha già annunciato 200 nuove assunzioni. I giudizi sugli effetti delle tariffe però non sono unanimi. La Solar Energy Industries Association stima che in realtà gli Stati Uniti perderanno 23.000 posti di lavoro nel 2018, perché le misure aiuteranno i costruttori di cellule, che sono pochi e piccoli, ma danneggeranno i produttori di pannelli, che invece sono molti e grandi, e non potranno più importare le componenti a basso costo. Le due aziende che hanno sollecitato i dazi poi sono di prorietà straniera, Suniva cinese a SolarWorld tedesca, e quindi non si capisce bene se gli Usa saranno davvero beneficiati da questo protezionismo. LG e Samsung, invece, potrebbero annullare i piani per costruire fabbriche in America.
Cina e Corea del Sud faranno ricorso alla WTO, ma in caso di condanna Trump potrebbe reagire uscendo dall’organizzazione, che aveva già criticato in passato. Pechino e Seul possono poi rispondere con dazi sulle importazioni dagli Usa, o riducendo la collaborazione per contrastare il programma nucleare della Corea del Nord. Trump però sta già considerando i prossimi passi, cioè tariffe su acciaio, alluminio e furti della proprietà intellettuale, che scatenerebbero una vera guerra commerciale.

Corriere 24.1.18
Il nuovo protezionismo
Dalle regole sul commercio al prelievo aggiuntivo al 50% sui beni provenienti da Pechino. Ecco perché la Casa Bianca ha deciso la via delle imposte sugli scambi
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Donald Trump va allo scontro commerciale con la Cina. E comincia dai pannelli solari. Dazi per quattro anni sull’importazione negli Stati Uniti: all’inizio il prelievo sarà pari al 30% del valore; poi andrà a scalare fino al 15%. Dopo tanti slogan e proclami, ecco i primi fatti: il protezionismo americano si materializza proprio nel giorno di apertura del World Economic Forum di Davos. Una provocazione premeditata? Forse. Il governo americano, però, ci stava lavorando da tempo. Il 18 dicembre 2017 il presidente aveva presentato il documento sulla «Nuova strategia per la sicurezza nazionale»: la Cina guidava la lista degli «avversari economici». Il 17 gennaio 2018, in un’intervista con Reuters , Trump aveva annunciato una serie di provvedimenti in arrivo per contrastare «le scorrettezze» cinesi.
Ma l’amministrazione imporrà dazi anche sulle importazioni di lavatrici per i prossimi tre anni: 20% sui primi 1,2 milioni di pezzi e addirittura del 50% sulle quantità aggiuntive. Gli Usa si riforniscono di elettrodomestici «bianchi», come sono chiamati in gergo, soprattutto da due grandi gruppi della Corea del Sud: Samsung e Lg Electronics. Il segnale è molto chiaro. Se sono in gioco «gli interessi delle industrie e dei lavoratori americani» Trump non fa distinzioni. Anche gli alleati più strategici, come è il caso della Corea del Sud, possono finire tranquillamente sulla lista nera. Su questo punto la squadra trumpiana sembra insolitamente compatta: militari e affaristi sono d’accordo. La «Nuova strategia per la sicurezza nazionale» è stata messa a punto dal generale Herbert Raymond McMaster, mentre la concretezza delle misure si deve al Rappresentante per il commercio Robert Lighthizer, avvocato settantenne dell’Ohio, in campo contro «la minaccia cinese» fin dal 1983, quando era vice ministro nell’amministrazione di Ronald Reagan.
Certo ora Washington dovrà prepararsi alla reazione dei Paesi colpiti. La Cina e la Corea del Sud hanno già fatto sapere ufficialmente che faranno ricorso al Wto.
Inoltre andranno fronteggiate le proteste che salgono da larghe filiere di imprese. Certo la Whirlpool, multinazionale degli elettrodomestici con sede in Ohio, lo Stato di Lighthizer, esulta per il fardello imposto ai concorrenti sudcoreani. E due società specializzate nel solare, la Suniva e la SolarWorldAmericas, applaudono al freno posto al flusso dei pannelli cinesi. Ma i prezzi bassi di queste componenti hanno consentito finora a molte imprese di fornire impianti solari a costi sempre più convenienti. Abigail Ross Hopper, la presidente dell’associazione dei produttori, la Solar energy industries association, osserva in una dichiarazione riportata dal New York Times : «I dazi causeranno una crisi in una parte della nostra economia che si sta sviluppando velocemente. Alla fine decine di migliaia di operai americani perderanno il posto di lavoro».
La difficoltà è proprio questa: il protezionismo si rivela una politica divisiva non solo sul piano internazionale, ma anche all’interno del Paese. Dazi e quote mirate si stanno trasformando in linee di politica industriale a favore dei pochi grandi finanziatori dell’amministrazione: le lobby petrolifere, del carbone, dell’industria pesante e dell’acciaio.

Corriere 24.1.18
Davos, processo al Big Tech Accuse a Google e Facebook
di Federico Fubini


Davos Per capire che tipo sia, basta sapere che Sundar Pichai nel tempo libero si rilassa leggendo un libro di storia delle cure antitumorali. Così l’amministratore delegato di Google ha scoperto che un secolo e mezzo fa la mastectomia veniva praticata senza anestetici e ci ha visto la conferma di una legge che per lui vale ancora: alla lunga il progresso tecnologico porterà sempre vantaggi alle persone comuni e la storia non si dimostra mai clemente con chi lo nega.
Resta solo da capire quanto sia lontano questo futuro, oggi con le nuove tecnologie, gli algoritmi di Google o Facebook e l’intelligenza artificiale che crea valore dai dati estratti a miliardi di utilizzatori tutti i giorni, a tutte le ore del giorno. Pichai, che non cerca neppure di dissimulare un forte accento indiano, è cresciuto in due stanze nel Tamil Nadu ed è il prodotto tipico degli istituti di tecnologia del subcontinente: calmo, competente, concentrato, gentile. Ha 45 anni e se a 30 gli avessero detto che presto si sarebbe trovato alla guida di un gruppo da 802 miliardi di dollari di valore di Borsa, pagato 200 milioni l’anno, l’avrebbe preso per uno scherzo di dubbio gusto.
Forse proprio questo fa sì che i grandi gruppi tecnologici — il Big Tech californiano e cinese — sia riservato il banco degli imputati al World Economic Forum. Quelle imprese sono cresciute in modo esplosivo nelle mani di giovani ingegneri che non avevano mai avuto tempo né voglia di capire la politica, forse neppure l’economia. Ora invece saranno costretti a farlo. Non hanno scelta perché — ha ricordato Martin Sorrell, fondatore di Wpp, maggiore gruppo pubblicitario al mondo — Google, Amazon, Facebook, Apple, più le cinesi Alibaba e Tencent, valgono in borsa 4.000 miliardi di dollari circa. In sei pesano come tutte le società quotate dell’area euro. Questa scala mette i leader del Big Tech in posizione di forza sui mercati globali, ma sulla difensiva a Davos: sono troppi grandi e influenti per non innervosire chiunque altro. Sorrell ha ricordato che Google e Facebook da sole controllano il 75% del mercato pubblicitario in rete del mondo. Numeri del genere fanno sì che riecheggino ormai ovunque le accuse al Big Tech di abusare del proprio potere di mercato, di creare dipendenza nei più giovani, di sfruttare masse enormi di dati dei privati e i contenti dei media (per il quali il tycoon Rupert Murdoch ora chiede un adeguato compenso). Si capisce dunque che Pichai e i suoi colleghi ora siano più cauti: sanno che la reazione dei governi sta iniziando. Di recente in Germania è entrata in vigore una legge che sancisce la responsabilità legale delle piattaforme del Big Tech, se non rimuovono in fretta i contenuti falsi, offensivi e violenti. Theresa May, la premier di Londra, domani a Davos annuncerà l’istituzione di “comitati etici” per valutare l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle persone comuni.
Così il Big Tech si trova maldestramente in difesa, com’è trapelato ieri da una battuta dell’amministratore delegato di Uber, Dara Khosrowshahi sulle aggressioni ai clienti da parte dei conducenti: «Possiamo monitorare come guidano — ha detto — non lo stato della loro mente». Non basterà. Al capo di Uber ha risposto un altro figlio di San Francisco, Marc Benioff, fondatore del colosso del cloud computing Salesforce: «Devi scegliere — ha detto in pubblico al collega —. Dicci qual è il valore più importante per te: la crescita più rapida possibile o creare fiducia?».

Repubblica 24.1.18
E Davos celebra il divorzio tra democrazia e libero mercato
di Tonia Mastrobuoni


Davos Democrazia e liberalismo: per decenni la retorica occidentale ne ha predicato l’indistricabilità e si è crogiolata nell’illusione che al di fuori dei sistemi politici liberi non potesse esistere un’economia libera e florida. E invece. Ieri il premier indiano Narendra Modi è arrivato a Davos con una nutrita delegazione che ha ravvivato i grigi muri di cravatte e tailleur del Forum con una marea di coloratissimi sari e una filosofia nuova. La più grande democrazia del mondo è sulla china di una deriva nazionalista che sta allarmando l’intera regione, ma a Davos è venuta a propugnare il libero mercato e una globalizzazione «che ha perso il suo lustro» e che va reinventata secondo logiche nuove, tenendo conto delle tradizioni locali. Anche se, ha aggiunto Modi, « l’isolazionismo non è una soluzione a questa preoccupante situazione». E quando il premier ultranazionalista ha cominciato la sua relazione in hindi, il fruscio in sala di centinaia di mani alla frenetica ricerca delle cuffie è sembrato il simbolo di un mondo che fatica a capire che il suo baricentro si sta sgretolando. Se Merkel parla in tedesco e Macron in francese, è normale aspettarsi che anche il premier indiano Modi si esprima nella sua lingua madre.
A Davos, le sue parole sono state accolte, condite com’erano di promesse sulla stesura di “tappeti rossi” per gli investitori, da applausi scroscianti. Il premier indiano ha voluto mandare un messaggio al paladino dell’isolazionismo che sta per irrompere sul palcoscenico di Davos: Donald Trump. Che, tanto per far capire che non ha alcuna intenzione di compiacere la platea, si è fatto precedere da una serie di schiaffoni protezionistici che sembrano sancire definitivamente il divorzio tra democrazia e liberalismo.
Una separazione percepita come dolorosa ormai soltanto in Europa. A Davos anche la performance da campione del liberalismo dell’anno scorso di Xi Jinping, alla guida di un regime che di democratico non ha nulla, è stata salutata da ovazioni. E forse non è un caso che nazionalismi e populismi in vertiginosa ascesa ovunque non spaventino i mercati, che trovano sempre il modo di ritagliarsi una nicchia di euforia. Attualmente riguarda la riforma fiscale di Trump. E le democrazie in ritirata non stanno intaccando minimamente uno dei più robusti e sincronici momenti di ripresa economica globale da almeno un decennio. Euforia economica e “recessione geopolitica”, per usare la ormai celebre definizione di Ian Bremmer, non sono incompatibili. L’America di Trump, secondo i dati presentati proprio qui a Davos dal Fmi, corre come non accadeva da tempo.
Che «il picco della globalizzazione » sia «alle spalle» lo sostiene anche un interessante rapporto presentato ieri da Credit Suisse che ha tentato di tirare le fila di questa “recessione geopolitica”. Per Michael O’ Sullivan « nei prossimi dieci anni, i trend politici saranno quelli verso l’eccezionalismo regionale » , come è sembrato sostenere ieri anche Modi. E O’ Sullivan gli ha dato un titolo: « La democrazia è il mio Sinatra», ispirandosi al celebre brano “ My way”. Il mondo sta diventando multipolare e «ognuno di disegna il proprio sistema » . Nel rapporto, l’ex premier britannico John Major avverte che «nell’Occidente democratico pensiamo che il nostro modello di democrazia liberale, sociale ed economico sia intoccabile. Non lo è » . E purtroppo anche i mercati sembrano essere diventati estremamente resilienti alle involuzione populiste e nazionaliste. Inoltre se oggi l’ 8,6% della popolazione mondiale possiede l’85% delle ricchezze e l’1% ne controlla addirittura oltre il 50%, le democrazie non hanno fatto quasi nulla per evitare queste derive nelle diseguaglianze. Distruggendo un altro enorme patrimonio di consenso. Davos, almeno quest’anno, ha mostrato di saper riflettere sul fatto, come sottolinea Afshin Molavi del John H

Corriere 24.1.18
Gianotti: la scienza? Riduce le disuguaglianze
Il direttore del Cern: l’Italia è il Paese con il maggior numero di donne che si occupano di fisica
di Giuliana Ferraino


DAVOS «La scienza non solo è alla base del progresso umano, ma ci aiuta a ridurre le disuguaglianze e a colmare le fratture della società moderna», sostiene la fisica Fabiola Gianotti, 57 anni. Nel 2012 era alla guida di uno dei due esperimenti che portarono alla scoperta del Bosone di Higgs. E dal gennaio del 2016 è direttore generale del Cern di Ginevra, il più grande laboratorio di fisica del mondo. Al World Economic Forum Gianotti è una delle 7 co-presidenti, tutte donne, per la prima volta nella storia del Forum.
Però solo un partecipante su 5 è donna al Wef. È un’operazione di cosmesi?
«No, è un segnale forte: indica che esistono donne capaci al mondo e che vengono valorizzate in discipline e settori molto diversi. Il mio obiettivo da scienziata è di rendere la gente consapevole del ruolo chiave della scienza nel connettere le persone e abbattere le barriere».
In che modo?
«La scienza è universale e unificante. È universale perché si basa su fatti oggettivi: una mela cade allo stesso modo nel giardino di Isaac Newton nel 17° secolo che in qualunque altro posto sulla Terra ad ogni momento della storia. È unificante perché è mossa dalla passione per la conoscenza. Inoltre la conoscenza non ha passaporto, non ha genere, non ha razza e non ha partito politico. In fondo siamo tutti fatti di particelle, persino il presidente americano».
Questa consapevolezza contribuisce ad abbattere le barriere?
«Istituzioni come il Cern sono un esempio chiaro di come si possa lavorare insieme per il bene comune. Inclusione e diversità sono la nostra ricchezza. Il nostro istituto accoglie migliaia di scienziati provenienti da tutto il mondo, alcuni da Paesi in conflitto tra loro, da Israele e Palestina, da India e Pakistan, da Iran, Egitto. Tutti lavorano in armonia, seduti allo stesso tavolo, per discutere di scienza. Ma non è solo questo».
Che cos’altro c’è?
«La scienza spinge i limiti e perciò è alla base del progresso umano. La meccanica quantistica ha permesso lo sviluppo dell’elettronica moderna. Non avremmo il Gps senza la teoria della relatività. Ma Einstein o Planck non puntavano certo a queste applicazioni. Per questo dico che i governi devono investire di più nella ricerca di base. E creare più opportunità di carriera per i giovani talenti. Andare all’estero è positivo, ma è importante poter rientrare a lavorare nel proprio Paese. Questa è inclusione».
L’Italia è indietro...
«Però siamo tra i Paesi con il maggior numero di donne che si occupano di fisica e in particolare di particelle».
Che cosa le fa più paura e cosa la rende ottimista?
«Non ho molte paure, sono una scienziata ottimista. Ho fiducia nella potenzialità dell’umanità, nella creatività, nell’intelligenza. Penso che la scienza possa fare davvero tanto per ridurre le disuguaglianze».

Repubblica 24.1.18Cooperazione e sviluppo
Non esiste più la distanza tra noi e loro
di Giampaolo Silvestri


Nel Mediterraneo, tra Europa e Africa, si coglie la grande novità: non c’è più distinzione tra paesi ricchi di qua e poveri di là. Da qui l’esigenza di un’alleanza e di un cambio di strategia anche negli aiuti Il centro è la persona. A Roma due giorni di conferenza
Nel Mediterraneo, tra Africa ed Europa: soprattutto qui si misura la novità che sta investendo la cooperazione allo sviluppo italiana e internazionale. Ma che cosa sta succedendo di nuovo? In estrema sintesi questo: non esiste più la distinzione, nella quale ci eravamo accomodati, tra noi ricchi qui e loro poveri là, nel Terzo mondo.
L’Agenda 2030, articolata in 17 obiettivi globali di sviluppo sostenibile, lo documenta bene: ogni “goal” (dall’educazione di qualità per tutti alla tutela dell’ambiente, dalla lotta alla fame e alla povertà fino alla promozione dell’efficienza energetica), inscindibile dall’altro, concorre a definire un piano di lavoro che coinvolge tutti e a ogni latitudine. Si illude chi pensa che sia un affare di altri.
Oggi e domani alla Farnesina si presenteranno gli esiti dell’azione del ministero degli Affari esteri e della cooperazione, dell’Agenzia, delle ong assieme al settore privato, le diaspore, le università. Ma per essere all’altezza della sua ambizione, la conferenza dovrà avere il coraggio di rinunciare al linguaggio tecnico e cimentarsi nel tentativo di far comprendere a tutti la rilevanza che la cooperazione può avere per il nostro Paese: una spinta a muoversi come “sistema”, ad agire da protagonista nelle relazioni internazionali, a valorizzare le realtà della società civile che hanno compreso che appunto non esistono più paesi del Terzo Mondo, ma potenziali partner.
La logica è letteralmente capovolta. Ogni tipo di colonialismo, anche quello ammantato di filantropia, è fatto fuori dall’esigenza di collaborazione alla pari tra paesi europei e africani. Solo che il tema della partnership, chiesta a gran voce all’ultimo summit Europa-Africa di Abidjan, va vagliato senza sconti. Vanno cioè messe a fuoco azioni concrete e strategie di lungo periodo, intelligenti del contesto nuovo in cui ci muoviamo. Senza mai mettere a tacere una domanda di senso fondamentale, che anche la conferenza nazionale farà sua: in che modo la cooperazione allo sviluppo deve evolvere per rispondere alle sfide di oggi, soprattutto a quella più complessa della sostenibilità?
A partire da un’esperienza di oltre 45 anni di lavoro condiviso quotidianamente con i cosiddetti “beneficiari” dei progetti, noi rispondiamo così: la cooperazione è chiamata a comprendere che cosa significa porre sempre al centro la persona e a farlo.
Interessante notare che a questa sottolineatura della centralità della persona ricorrono molti mondi: la pronunciano ceo di multinazionali ed esperti di marketing.
Alcune società più lungimiranti traducono questa attenzione in generoso welfare aziendale. Ma al di là del tentativo di monetizzarla, la persona al centro resta il cardine della cooperazione perché sostanzia fino all’ultimo dettaglio - dalla ideazione alla implementazione e valutazione - ogni progetto che punti agli obiettivi dell’Agenda 2030. Senza questa precedenza i “goals” globali si smontano come giochi di retorica buonista. Perciò il futuro dell’agire della cooperazione lo pensiamo così: lavorare per un mondo in cui ogni persona, grazie alla consapevolezza del suo valore e della sua dignità, sia il vero attore dello sviluppo suo e della sua comunità. Sempre e dovunque, anche nelle situazioni di crisi ed emergenza.
Giampaolo Silvestri è segretario generale di Avsi, organizzazione non governativa impegnata in 149 progetti nel mondo