lunedì 22 gennaio 2018

La Stampa 22.1.18
Giustizia alla prova sugli abusi contro le donne
di Vladimiro Zagrebelsky


L’imponente fenomeno che dagli Stati Uniti e valicando l’oceano si è sviluppato a partire da denunce di attrici di violenze e abusi sessuali da parte di uomini, porta alla luce una realtà che caso per caso è di varia consistenza materiale, ma è sempre grave e molto diffusa.
Carattere unificante dei vari casi è l’assoggettamento della donna, in quanto donna, ad una sopraffazione, che può assumere la forma della violenza fisica o quella della minaccia di usare del potere prevalente che il maschio abbia sui luoghi di lavoro, nei rapporti sociali, nella vita famigliare.
L’ondata di denunce, qualunque sia il fondamento di questa o di quella, è importante segno di rottura di una storica subordinazione, oggi socialmente non più tollerabile. La battaglia iniziata dalle donne non può essere lasciata ad esse sole. Tutte le volte che sia in gioco la dignità e la libertà di qualcuno è l’intera collettività ad essere offesa. Da essa si attende reazione.
Solitamente si aspettano indagini e processi. Ci si limita a questo, con esiti spesso deludenti. Questa volta invece si assiste, specialmente nel mondo dello spettacolo, a iniziative di stigmatizzazione sociale, come quella del rifiuto di continuare rapporti di lavoro con la persona indicata come autore delle violenze. Certi attori, idoli del pubblico (e capaci di produrre successo per film e spettacoli), diventano improvvisamente infrequentabili e probabile causa di flop economici per chi lavora con loro. Non più «macho» invidiati, ma soggetti da tener lontani. È questo un segno molto importante della forza del movimento che si è messo in moto e del terreno favorevole su cui interviene. Rischi di errori o esagerazioni nel metter alla gogna gli accusati sono certo presenti. Ma il valore della reazione sociale è indubbio.
Molte delle denunce cui assistiamo daranno inizio a processi penali. Ma è probabile che, dopo i tempi lunghi della giustizia, si abbiano sentenze di assoluzione. Ci saranno assoluzioni perché la prova oltre ogni ragionevole dubbio è difficile o impossibile in ognuna delle sempre diverse vicende: non testimoni, normalmente, non documenti, non tracce. Una parola contro l’altra e, nel dubbio, la presunzione di innocenza, irrinunciabile. Alle assoluzioni seguiranno proteste e accuse, probabilmente infondate poiché le regole del processo penale sono sempre stringenti. Ma le proteste non dovrebbero lasciare innocentisti e colpevolisti sterilmente confrontarsi. Le future prevedibili soluzioni giudiziarie non potranno giustificare la conclusione che si tratta di una montatura da parte di donne che inventano una realtà inesistente. Il rischio c’è, se non si tiene conto della specificità dell’accertamento giudiziario penale, che non necessariamente nega che i fatti siano avvenuti, anche quando conclude che non vi sia prova sufficiente per una condanna. Evitiamo dunque, come avviene solitamente in Italia, di ridurci a cercare soddisfazione in esiti penali che potrebbero essere pochi. Mentre l’efficacia di una rivoluzione che metta fine alla soggezione della donna passa attraverso la diffusione della consapevolezza della sua inaccettabilità. Come spesso accade, il richiamo alla funzione della scuola è d’obbligo. Noi europei solleviamo obiezioni nei confronti di altre culture e società, proprio perché irrispettose dell’eguaglianza e della dignità della posizione della donna. Ecco un terreno su cui la civiltà dell’Occidente deve ancora crescere.
Non è separato dal tema degli abusi sessuali in danno delle donne, quello delle violenze domestiche o legate a rapporti di coppia, di cui, in assoluta prevalenza, sono vittime le donne. Si tratta di una realtà gravissima e molto diffusa, che rimane largamente nascosta tra le mura domestiche entro le quali la soggezione della donna è occultata. L’enorme numero di uccisioni di donne da parte di uomini ne è solo l’aspetto più noto, perché non nascondibile. Il fondamento discriminatorio in danno delle donne degli abusi di tipo sessuale e delle altre violenze emerge anche nella reazione delle varie autorità che dovrebbero proteggerne le vittime. Dopo quelle pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani contro la Turchia e la Romania, anche l’Italia di recente è stata condannata per la sottovalutazione, il ritardo, l’incuria con la quale è stata trattata una serie di episodi di violenza in danno di una donna da parte del marito. Violenze fisiche gravi e ripetute, denunciate dalla donna senza che venissero prese misure contro il marito aggressore, palesemente pericoloso. Una condanna per lesioni è arrivata dopo anni e dopo che il marito, in un ulteriore episodio, aveva ferito la moglie a coltellate e ucciso il figlio intervenuto a difenderla. La Corte europea ha ricostruito il contesto sociale (e i dati statistici) riscontrando che le donne sono sempre le vittime e che poco si fa efficacemente (non bastano le leggi, che pur ci sono!) per combattere una piaga che è così grave anche perché alle vittime si presta una ridotta attenzione, frutto appunto di discriminazione.

La Stampa 22.1.18
Roma cancella le vie di chi aderì al “Manifesto della razza”
di Ariela Piattelli


Via i nomi di chi aderì al Manifesto della razza dalle strade di Roma. Lo ha promesso la sindaca Virginia Raggi in un’intervista per il documentario “1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani” di Pietro Suber. Il Campidoglio ha avviato l’iter che in tempi brevi porterà alla cancellazione dei nomi degli scienziati che, aderendo al documento dove si elencano i principi razzisti del regime fascista e alla base delle leggi razziali, contribuirono alla totale emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica, creando anche le condizioni che portarono alle deportazioni nazifasciste. «Abbiamo avviato procedure e verifiche per rinominare strade e piazze intitolate a coloro che sottoscrissero il Manifesto della razza - annuncia Raggi nel documentario -. Dobbiamo cancellare queste cicatrici indelebili che rappresentano una vergogna per l’Italia. Questo può essere anche un esempio per tanti altri Comuni che hanno strade intitolate e questi personaggi». Sono almeno quattro le vie e i larghi nel comune di Roma titolati agli scienziati di cui i nomi compaiono sotto il famigerato manifesto: largo Nicola Pende (a cui a Noicottaro, nel Barese, è dedicata anche una scuola), via e largo Arturo Donaggio e via Edoardo Zavattari. Un cambiamento che a Raggi serve, in un’epoca di recrudescenze, per sottolineare come l’antifascismo sia un valore per la Capitale: «Roma condanna le leggi razziali, la nostra città è orgogliosamente antifascista. Utilizzeremo ogni strumento disponibile per combattere quei rigurgiti di violenza e discriminazione che non vogliamo tollerare».
Il documentario, che uscirà in occasione dell’anniversario degli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali, si concentra sulle testimonianze degli ebrei perseguitati, dei presunti delatori e degli ex fascisti: «Uno degli aspetti più interessanti è quello della memoria, - spiega il regista – ci siamo interrogati anche su cosa è rimasto del fascismo, visti i rigurgiti a cui assistiamo. Siamo andati nei luoghi di pellegrinaggio dei nostalgici. Negli ultimi anni c’è stato un boom di visite alla tomba di Mussolini a Predappio e ci ha colpito il gran numero di ragazzi che scrivono sul libro delle visite messaggi nostalgici. E’ un dato di ignoranza storica molto allarmante. Così ci è venuta l’idea di chiedere alla sindaca Raggi se in occasione di un anniversario così importante non fosse il caso di intervenire anche sulla memoria di chi ha aderito al manifesto e a cui sono titolate le strade». La produzione del film ha lavorato settimane prima di ottenere l’intervista. Il documentario, oltre a raccogliere testimonianze e documenti, interviene sulla realtà: «Per un mese abbiamo dialogato con il Campidoglio – spiega Dario Coen, che produce il documentario assieme a Blue Film – Hanno accettato la proposta perché una via intitolata a questi personaggi è un omaggio che loro non meritano».

Repubblica 22.1.18
Davos e la disuguaglianza
Quell’un per cento che prende tutto
L’82% della ricchezza prodotta nel 2017 è andata a una minoranza della popolazione e anche in Italia si allarga la forbice delle disparità
di Barbara Ardù


ROMA C’è chi ha fatto grandi numeri, chi meno, ma a livello globale il 2017 ha portato un incremento della ricchezza. Siamo cresciuti, il Pil mondiale è salito.
Dovremmo stare tutti un po’ meglio. Non è così perché l’82% di questo aumento è andato a finire solo nelle mani dell’1% della popolazione. I Paperoni mondiali, che la rivista Forbes mette in fila ogni anno. Sono 2.043, ma come mai si era visto nella storia il loro numero aumenta a ritmo esponenziale.
La denuncia arriva da Oxfam, capofila di tutta una serie di organizzazioni non governative, che presenterà il nuovo Rapporto 2018 a Davos, di fronte ai Grandi della terra e ai loro governanti, perché è la loro attenzione che vuole. Tra marzo 2016 e marzo 2017, scrive Oxfam, ogni due giorni è “nato” un miliardario. E la sua nascita è frutto dello sfruttamento intensivo del lavoro su scala globale. Come dire che il lavoro non paga più, paga solo la ricchezza ed è questa che viene ricompensata. Da qui nascono le diseguaglianze che sono in aumento. Alla metà della popolazione mondiale più povera, della nuova ricchezza non è andato nulla. Ma attenzione perché i poveri secondo la Banca mondiale sono coloro che vivono con meno di due dollari al giorno. Un limite che sale se si vive in una grande città dell’Occidente. In Italia si è poveri, ci dice l’Istat, se non si superano i 600 euro in una città del Nord e 400 in una del Sud.
Eppure anche da noi le diseguaglianze sono in crescita.
È la globalizzazione della povertà, spinta da un sistema economico che non ricompensa più il lavoro, ma la ricchezza. Che si fa in fretta, spostando lavoro e capitali da un Paese all’altro, paradisi fiscali compresi. E che alla fine si eredita. Nei prossimi 20 anni le 500 persone più ricche del pianeta, lasceranno ai loro rampolli oltre 2.400 miliardi di dollari, più del Pil dell’intera India, dove vivono 1 miliardo e 300mila persone. L’unica consolazione è che spesso i rampolli distruggono in fretta grandi fortune e mandano all’aria gloriose imprese.
Un quadro desolante e puntuale che Oxfam presenterà a Davos, dove il problema non è sconosciuto. Grandi e governi si sono accorti da tempo che il sistema economico ha smesso di fare il suo dovere: più cresce il Pil, è il leitmotiv degli economisti, più persone ne avranno benefici.
Se viene redistribuito però. «Nel 2016 — è scritto nel rapporto le 50 più grandi corporation mondiali hanno impiegato lungo le loro filiere una forza lavoro fatta di 116 milioni di “invisibili”, il 94% di tutti i loro occupati». Senza contare i 40 milioni di persone schiavizzate tra cui 4 milioni di bambini. Quelli che spaccano pietre o cercano rottami tra le grandi discariche alle porte delle metropoli. E qualcuno ormai lo si vede anche in Italia, perché anche da noi le diseguaglianze sono in crescita, da anni. Il 20% dei Paperoni italiani detiene il 66,41% della ricchezza nazionale.
Ai più poveri va lo 0,09%, nemmeno un numero intero, ma un decimale. Un declino iniziato ben prima della crisi del 2008.
Dal 2006 al 2016 i più poveri hanno visto scendere la quota del reddito nazionale disponibile, cioè della ricchezza prodotta, del 28%, mentre il 20% più ricco è tornato ai livelli del 2016, anzi è riuscito ad agguantare qualcosa.
Non è un caso che l’Italia si collochi al ventesimo posto per diseguaglianza dei redditi nella classifica mondiale. E gli italiani la percepiscono, tant’è che in un’indagine del 2016 il 75% dei connazionali dichiarava che il reddito percepito per il lavoro svolto non era equo. «Qualcosa è stato fatto — dichiara Roberto Barbieri, direttore italiano di Oxfam — l’indice delle diseguaglianze è entrato nel Def, l’introduzione del reddito sociale è una buona cosa, anche se non sufficiente. Ciò che salta agli occhi però è che la povertà sta crescendo anche tra chi un lavoro ce l’ha. Le soluzioni? Ci vogliono regole nel commercio mondiale, nella finanza, premi per chi produce in modo responsabile e bisogna fissare un salario minimo per quei lavori che sono fuori dai grandi contratti nazionali». Oxfam oggi invierà una lettera aperta ai partiti per conoscere cosa vogliono fare in tal senso su tre temi: lavoro, spesa pubblica e politiche fiscali. Sarà sul sito online di Oxfam e verrà monitorata ben oltre il voto.

La Stampa 22.1.18
I giovani trascurati dai partiti
di Stefano Lepri


Se i mercati finanziari ritenessero credibili le promesse dei partiti in questa campagna elettorale, il ben noto «spread» sarebbe schizzato in alto. Invece resta abbastanza stabile, tanto più ora che il M5s rinuncia al referendum sull’euro. D’altra parte le scuse per gli impegni che non verranno mantenuti sono già pronte: dato che comunque vada è probabile che ci sia un governo di coalizione, si potrà dare la colpa ai compromessi necessari per formarlo.
Le cifre necessarie a realizzare i programmi fin qui presentati sono ingenti. Per quanto si può capire dai dettagli finora pervenuti, le promesse del centro-destra sono le più grandiose, seguite a ruota da quelle dei Cinque Stelle; il Pd sembra collocarsi più in basso.
In comune c’è la speranza di trovare risorse con tagli alle spese superflue: ovvero ciò in cui finora sono poco riusciti sia i due schieramenti già cimentatisi con il governo nazionale, sia il M5s nei Comuni che guida.Meglio è individuare quali messaggi, e a chi, programmi così costruiti vogliono inviare.
La «flat tax», cavallo di battaglia del centro-destra, è respinta da entrambi gli altri due schieramenti perché i suoi vantaggi sarebbero concentrati sui ricchi. Luigi Di Maio e i suoi propongono invece meno tasse per i ceti medi, che dalla «flat tax» sarebbero i meno favoriti; il Pd, nel programma che questo giornale illustra oggi, precisa sgravi a favore soprattutto dei redditi medio-bassi.
La famiglia e la piccola impresa sono punti di riferimento per tutti e tre i programmi, ovviamente con formule differenti. Ma quando sulle tasse i Cinque Stelle chiedono anche una totale abolizione sia di Equitalia sia degli «studi di settore» (destinati comunque ad essere sostituiti da altro metodo nel 2019) si intuisce la voglia di rivolgersi anche a chi tanto sincero con il fisco non è.
L’abolizione dell’Irap, tradizionale bandiera del centro-destra, è ora alzata anche dai grillini. Questa imposta ha perso il suo aspetto più discutibile con la deducibilità del costo del lavoro; porta 24 miliardi di gettito che in qualche modo occorrerà trovare. Dato che finanzia le Regioni con aliquote manovrabili, si può temere che la sua scomparsa tolga un freno alla spesa regionale.
Non è questo l’unico effetto paradossale che potrebbe essere ottenuto da una completa realizzazione delle promesse. Ad esempio, un «reddito di cittadinanza» potrebbe accrescere il numero dei disoccupati se sufficiente a tirare a campare senza lavorare (come succedeva negli Anni 70 o 80 in Stati dal welfare generoso, come Svezia e Nuova Zelanda).
Paradossale è poi che proprio il M5S che ha costruito la propria fortuna protestando contro il clientelismo dei vecchi partiti proponga una «banca pubblica di investimento» che allargherebbe enormemente i margini delle scelte clientelari della politica, riportandoci al passato pre-Tangentopoli (in cui le banche fallivano lo stesso). E come si fa ad affidare imponenti investimenti in innovazione proprio a un settore pubblico corroso da anni di malgoverno?
Il programma del Pd di cui oggi si ha notizia pare meno onnicomprensivo; è più arduo oltretutto promettere quando si è stati il principale partito di governo. Una novità è il paracadute futuro – un futuro distante – della «pensione minima di garanzia» per chi sta vivendo una vita di lavori precari o malpagati. Ma ancor più risalta quanto sia difficile oggi in Italia delineare soluzioni a breve termine per il problema davvero più grosso, che i giovani devono perlopiù adattarsi a impieghi precari e anche quando conquistano un posto fisso sono pagati, a parità di mansioni, meno dei loro genitori a suo tempo.
Comune a tutti e tre gli schieramenti è l’impegno di dare più competitività alle imprese, in modo che possano creare più lavoro. Una parte sostanziosa dei costi che gravano sulle imprese si chiama per l’appunto oneri previdenziali: ovvero il finanziamento del nostro sistema pensionistico. Tornare ad aumentare le spese per le pensioni, abolendo la legge Fornero, è invece ricetta sicura per scaricare in futuro nuovi oneri o sulle imprese o su tutti i contribuenti.
Sembra contar poco, questo, per partiti che paiono soprattutto intenti a conquistare l’elettorato anziano. Mentre le risorse per pagare le pensioni possono venire solo da un maggior numero di giovani al lavoro.

Il Fatto 22.1.18
Cgil, fine dell’era Camusso senza sponde in politica
di Salvatore Cannavò


Alla vigilia delle ultime elezioni politiche, febbraio 2013, la Cgil tenne la sua Conferenza di programma in cui l’ospite di eccezione fu Pier Luigi Bersani, allora segretario Pd, che già si vedeva a Palazzo Chigi dopo le elezioni. In quella platea sedeva un ministro del governo Monti, Fabrizio Barca, un candidato in pectore al Quirinale, Giuliano Amato, l’altro leader del centrosinistra, alleato del Pd, Nichi Vendola e anche Bruno Tabacci, allora nel centrosinistra e oggi in attesa di capire che fare con Emma Bonino.
Da quella rappresentazione sembra passato un secolo. Oggi la Cgil non farà alcuna campagna per il Pd e in verità non la farà per nessun partito. Il governo di Matteo Renzi ha reciso un cordone ombelicale che sarà difficile, anche se non impossibile, ricostruire. E oggi il sindacato guidato da Susanna Camusso si prepara all’appuntamento elettorale senza schierarsi con nessuno se non con una ipotesi larga e idealizzata di sinistra unita. “Siamo la casa della sinistra e oggettivamente siamo molto più grandi delle forze politiche che vogliono rappresentarla” è il refrain che si ascolta nelle riunioni riservate.
Questa vocazione la si riscontra nella posizione che Camusso ha assunto rispetto alle elezioni regionali augurandosi un’intesa tra Pd e Liberi ed Uguali. Dichiarazione inaspettata per lo stile della dirigente sindacale che, però, oltre a riproporre un approccio tradizionale di opposizione unita al pericolo della destra è stata intesa anche come la prova che in questa occasione non ci sono partiti privilegiati e alleanze sponsorizzate. “Casa comune” di tutti, senza preferenze.
Finito il tempo del sindacato espressione di un patto politico tra il Pci, il Psi e la “terza componente”, in cui finivano le espressioni della sinistra di minoranza, oggi la rappresentazione politica nel sindacato obbedisce alle inclinazioni personali di questo o quel dirigente, ai rapporti di questa o quella categoria con un ministro o con un settore politico. Nessun rapporto organico. E così si può trovare l’ex segretario dei Pensionati, Carla Cantone che si candida con il Pd di Renzi, essendo in buoni rapporti con Gianni Cuperlo, mentre l’ex segretario della Camera del lavoro di Milano, Onorio Rosati guiderà la lista di Liberi ed Uguali in Lombardia, in opposizione alla candidatura di Giorgio Gori.
A Corso Italia, sede della Cgil, assicurano però che non ci saranno dirigenti di rilievo che si candideranno alle politiche. Resta che le appartenenze politiche si fanno sempre meno decifrabili. Dei dieci componenti la segreteria nazionale forse due o tre sono iscritti al Pd, gli altri non hanno tessere di partito. Camusso ha giurato che non dirà per chi vota e potrebbe essere, se le intenzioni che ha rivelato solo al gruppo dirigente ristretto saranno confermate, il primo segretario generale che non si si candiderà alle elezioni al termine del suo mandato. Che sta per scadere.
Ed è questo che occupa maggiormente il dibattito interno. Il congresso nei fatti è partito anche se formalmente occorre attendere il comitato direttivo di fine marzo che licenzierà un primo documento politico. Il quale sarà discusso da assemblee territoriale in una sorta di consultazione ampia, per poi essere approvato formalmente e aprire così i congressi locali, regionali e di categoria.
Dopo molto tempo si andrà a un congresso unitario, senza contrapposizioni precostituite salvo quella della piccola minoranza de “Il sindacato è un’altra cosa”. Ma più del documento a occupare la scena sarà la contesa per la futura segreteria. I rumors interni danno per certi due candidati: l’ex segretario generale della potente Emilia Romagna, Vincenzo Colla e il più noto Maurizio Landini, già segretario Fiom e da pochi mesi componente della segreteria nazionale. Landini ci punta sul serio e spera che la discussione sulla segreteria possa uscire dal chiacchiericcio interno e far parte del dibattito ampio delle organizzazioni locali. Non proprio delle primarie organizzate ma una consultazione di decine di migliaia di delegati nella quale la sua figura possa rappresentare un motivo di orgoglio e appartenenza al sindacato.
Colla dovrebbe invece essere sostenuto dal gruppo dirigente dello Spi, i cui tesserati sono oltre la metà di quelli complessivi, ma anche dalla sua Emilia e da categorie come quella dei Chimici o degli Edili. Se Landini rappresenta una candidatura di sinistra quella di Colla è di più difficile definizione: destra interna o legata al Pd, per quanto vere, sono etichette improprie. Il problema è che manca ancora la preferenza del segretario uscente. Molti si aspettano che alla fine Camusso punti sulla giovane segretaria della Funzione pubblica, Serena Sorrentino, ma per il momento nessuno si sbilancia in questa direzione. Il problema è che tre candidature imporranno una politica di alleanze e di dialettica interna proprio nel momento in cui formalmente ci sarà un documento unitario. Chi ci ha parlato dice che Camusso non appoggerà mai Colla con la cui linea i rapporti non sono buoni. E magari potrà accadere che si realizzi un’intesa del tutto inaspettata, visti i trascorsi di questi otto anni, tra la stessa Camusso e Maurizio Landini.

La Stampa 22.1.18
La Spd dice sì al governo Merkel ma Schulz perde metà del partito
L’appoggio alla Grande coalizione passa solo con il 56,4% dei voti Bruxelles festeggia: ottima notizia che rende l’Europa più unita
di Walter Rauhe


Il congresso straordinario del partito socialdemocratico (Spd) ha dato il via libera ieri al governo di Grande coalizione e non solo la Germania, ma l’Europa intera tirano un sospiro di sollievo. «Siamo tutti più che sollevati da questo risultato che dimostra che abbiamo lottato duramente. Per la Germania e per il futuro dell’Europa», ha dichiarato soddisfatto il leader di partito Martin Schulz al termine di 5 ore di un dibattito molto acceso, sofferto e a tratti anche drammatico. Alla fine a prevalere è stata la linea del presidente dell’Spd a favore dell’avvio delle trattative ufficiali con la Cdu e Csu di Angela Merkel per la formazione di una Grosse Koalition. Hanno votato a favore 362 delegati (il 56,4%), 279 si sono espressi contrari. «È un’ottima notizia per un’Europa più unita forte e democratica», ha commentato in un tweet il capo del gabinetto del presidente della Commissione Ue Juncker, Martin Selmmayr.
Dopo 4 mesi d’incertezze, colpi di scena e stallo politico, il principale Paese europeo per numero di abitanti e forza economica si appresta finalmente a trovare un governo in grado di operare, anche se il lunghissimo iter negoziale non è ancora terminato del tutto e l’ultima parola spetterà ai 440 mila tesserati dell’Spd chiamati ad esprimersi sul programma di governo finale poco prima di Pasqua.
Il penultimo ma decisivo capitolo di questa tragedia dal sapore wagneriano attorno alla difficile ricerca di una maggioranza di governo è iniziato ieri mattina a Bonn, la città natale di Beethoven ed ex capitale provvisoria della Germania Occidentale. Ad attendere i 600 delegati socialdemocratici di fronte al World Conference Center di Bonn c’era un folto gruppo di manifestanti armati di tamburi, trombe, campane che in coro scandivano i loro slogan anti-GroKo. Un’atmosfera tesa e nervosa che si è trasmessa poi anche all’interno del palazzo congressi dove tra i primi a prendere la parola è stato proprio Martin Schulz. In un lungo discorso giudicato da molti come piuttosto debole sotto un punto di vista retorico, il leader dell’Spd ha elencato uno ad uno i risultati a suo avviso positivi contenuti nell’intesa di massima raggiunta dieci giorni fa con il centro-destra. Schulz ha quasi implorato i delegati a lasciare da parte le loro riserve nei confronti di un’ennesima Grosse Koalition, ricordando che senza l’Spd il programma di un eventuale altro governo dominato dalla Cdu sarebbe ancora più negativo per il welfare, la democrazia e la convivenza civile. Ma Schulz non è riuscito a scaldare la sala congressi incassando al termine del suo intervento un applauso quasi impercettibile di appena un minuto. Nulla in confronto al discorso accalorato e travolgente del leader dei giovani socialdemocratici Kevin Kühnert, contrario a prolungare il «coma politico» di Angela Merkel col sostegno dell’Spd e favorevole invece ad un vero rinnovamento e ringiovanimento da sinistra del partito. L’ovazione della sala se l’è aggiudicata solo lui ma alla fine il fronte del no alla GroKo si è dovuto accontentare solo di una vittoria morale, aggiudicandosi il sostegno di oltre il 43% dei delegati. Alla fine della votazione sul volto di qualche giovane socialdemocratico è spuntata qualche lacrima e anche l’ala possibilista di Martin Schulz non può certo cantare vittoria. L’Spd esce da questa storica assise di Bonn profondamente spaccata al suo interno, cosa che non lascia presagire nulla di buono per il futuro esecutivo. Sarà un governo formato da tre esponenti deboli. La leadership di Martin Schulz, Angela Merkel e Horst Seehofer viene ormai messa in discussione dalle basi dei rispettivi partiti.

Il Fatto 22.1.18
Francesco lo straniero. “A Roma muoio”
Francesca Chaouqui e monsignor Balda
di Fabrizio d’Esposito e Carlo Tecce


Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires con antiche radici diffuse in Piemonte, comincia all’insaputa della Chiesa – e forse a conoscenza del destino – il 19 aprile del 2005. Quando il Conclave, riunito dopo l’atroce morte di Giovanni Paolo II, al quarto scrutinio elegge il teologo Joseph Ratzinger che sceglie il nome di Benedetto. I cardinali europei e italiani preferiscono Ratzinger a Bergoglio e la continuità col passato piuttosto che la rivoluzione sudamericana. Il consenso per l’argentino è notevole, si potrebbe sfruttare subito per un incarico apicale in Curia oppure per una collaborazione da vicino con Ratzinger. Per due motivi, però, Bergoglio non viene coinvolto.
Il primo riguarda i “grandi elettori” che hanno affidato le loro ambizioni e i loro interessi a Benedetto XVI: il gruppo di Tarcisio Bertone – perlopiù salesiani che sbarcano in Vaticano dal Piemonte o dalla Liguria – è pronto a spartirsi il potere, come poi è accaduto in maniera spudorata finché lo stesso Ratzinger non è crollato e si è dimesso. Il secondo motivo, invece, spiega la formazione religiosa e caratteriale di Bergoglio: “Se vengo a Roma, muoio”, dice con una battuta di profondo realismo agli amici che l’hanno caldeggiato per un ruolo in Vaticano prima e dopo il Conclave.
Il 13 marzo 2013, sconfitto il cardinale Angelo Scola, il ciellino sostenuto dal solito blocco di europei e italiani, la “Chiesa mondo” – ormai asiatica e africana e pur sempre sudamericana – impone Bergoglio al soglio di Pietro per ammansire le “vipere” che circolano in Vaticano e debellare i “veleni” che dispergono: una croce di ferro, il trilocale a Santa Marta, un linguaggio popolare (per alcuni, populista), aperto ai divorziati e agli omosessuali, severo con i sacerdoti pedofili, predicatore di accoglienza, convinto ecologista (scrive sul tema l’enciclica Laudato Sii), fustigatore di politici e clericali, così si presenta papa Francesco.
In esilio a Castel Gandolfo, l’ormai pontefice emerito Ratzinger consegna al successore uno scatolone che custodisce i fragorosi risultati di un’inchiesta condotta dai cardinali. Il mandato conferito all’argentino è preciso e quasi onirico: bonificare ovunque la Curia; estirpare la corruzione e il malaffare; rimuovere i traditori della Chiesa; domare i “corvi” che con Vatileaks hanno frantumato il papato di Ratzinger; rendere trasparente la gestione del denaro dell’Istituto per le opere religiose, il leggendario Ior. A cinque anni da quel giorno, il mandato di Bergoglio non è compiuto, ma raggiunge un punto di svolta: o si vince o si perde. Sottotraccia (e a rate) s’affaccia Vatileaks III, gli ultimi reduci dell’epoca bertoniana lottano per resistire, gli sciacalli di un tempo ritornano a circondare lo Ior e l’argentino sconta pure diverse nomine sbagliate.
Neanche Bergoglio è riuscito a purificare la Chiesa dal peccato più grosso: i soldi. Il cardinale George Pell, l’ormai ex ministro per l’Economia sensibile al lusso e ai modi eccentrici, è rientrato in Australia perché imputato per reati sessuali. Un fallimento. Come l’implosione in Vatileaks II di Cosea, la Pontificia commissione referente di studio sulla struttura economica-amministrativa. Monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, processati assieme ai libri di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, erano segretario e componente di Cosea. Il laico Libero Milone, accolto con l’entusiasmo che si riserva a un messìa, se n’è andato con un’accusa precisa a monsignor Angelo Becciu: “Mi disse di lasciare l’incarico. Volevano arrestarmi (c’era un’inchiesta vaticana su di lui, ndr)”. Il sardo di Pattada ha replicato alzando il livello dello scontro: “Spiava me e gli altri superiori”.
Sempre sul fronte “soldi” vanno registrati – e siamo ancora a un prologo e non all’epilogo di Vatileaks III – il licenziamento di Giulio Mattietti, vicedirettore aggiunto dello Ior, per vent’anni responsabile della struttura informatica della “banca” e le veline contro il direttore Gianfranco Mammì. Sarà lo Ior e non soltanto lo Ior la pietra del prossimo scandalo: i prodromi ci sono, e ci sono anche, in verità, le pressioni esterne di coloro che non accettano che, dal marzo 2017, il Vaticano non sia più considerato un “paradiso fiscale” e che sia attiva una convenzione tra la Santa Sede e l’Italia.
Oltre lo Ior, i bergogliani guardano con attenzione all’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria istituita da Ratzinger otto anni fa per contrastare il riciclaggio. E ancora. Una classica “rivalità politica” fra il cardinale Pietro Parolin e il già citato Becciu può spingere Bergoglio a una decisione clamorosa.
Questa coppia fa il governo vaticano. Parolin è il segretario di Stato che, estirpato il provincialismo di Bertone, ha riportato il dicastero in una dimensione diplomatica, non fine a se stessa, ma efficace nel propiziare percorsi di pace in territori di guerra o fra paesi nemici (leggi Cuba e Usa). Becciu è il Sostituto per gli Affari Generali della segretaria di Stato, alimenta e coltiva i rapporti con le istituzioni italiane, le nunziature sparse per il mondo, interviene sui delicati meccanismi curiali.
Becciu è definito il “papa italiano” per l’attitudine a controllare – come se fosse il capo – le questioni interne. Bergoglio l’ha confermato appena insediato, anche se la matrice di Becciu è bertoniana: è un uomo esperto e pragmatico, e dunque era funzionale all’ingresso in Curia di Francesco. Il tempo ha ristretto lo spazio in segreteria di Stato, Parolin e Becciu si scontrano e in coppia si sgomita troppo.
Per arginare Becciu, qualche mese fa, Francesco ha creato in segreteria di Stato la “terza sezione” che si occupa dei nunzi. Non è sufficiente. “Se Becciu non lascia, Parolin se ne va”, spiega al Fatto una fonte vaticana. Bergoglio non ha intenzione di “punire” Becciu, ma lo può promuovere e rimuovere: elevarlo a cardinale e spostarlo in un dicastero. A proposito di porpore, Bergoglio sta disegnando il suo Conclave. Al concistoro vengono nominati i cardinali, non solo elettori, ma anche “pensionati” che hanno superato gli 80 anni. E infatti, la prima volta, Bergoglio elevò a cardinale l’anziano Capovilla (e di recente il vescovo emerito di Novara, Renato Corti) e dopo 35 anni neanche uno statunitense.
Francesco ha ridotto la quota di europei e di italiani e ha aumentato quella degli asiatici. Vuole una Chiesa contemporanea, non antiquata. Ha nominato vescovi italiani di periferia Menichelli (Ancona), Montenegro (Agrigento), Bassetti (Perugia) e non quelli di Venezia e Torino. Nel 2013 i cardinali elettori erano 115 di cui 60 europei (28 italiani), 13 sudamericani e 11 asiatici. Al primo gennaio i cardinali elettori sono 120, di cui 52 europei (23 italiani), 15 asiatici.
Il presente angoscia più del futuro. E del presente il cardinale Gerhard Ludwig Müller non è più un impiccio. Su ordine di Francesco, il tedesco ha traslocato dal Sant’Uffizio – la Congregazione per la dottrina della fede – non per le critiche al riformismo del pontefice, ma per i pessimi risultati contro la pedofilia e il naufragio della commissione internazionale sugli abusi (a breve sarà rifondata e andrà chiarito il ruolo del nuovo dissidente O’Malley). I prelati più fedeli a Bergoglio si preoccupano con la giusta tensione emotiva dei fisiologici ostruzionismi di Curia o delle reazioni scomposte dei tradizionalisti. Per esempio, il motu proprio sulla nullità dei matrimoni è di fatto non applicato in Italia, perché i tribunali ecclesiastici regionali temono di perdere i fondi della Conferenza episcopale con i vescovi diocesani nel ruolo di “giudici”.
E fa sorridere l’insistente approccio di Domenico Calcagno, padrone dell’Apsa (patrimoni e immobili), collezionista di pistole e uomo forte di Bertone, che spesso a Santa Marta piomba al tavolo della cena di Francesco con una bottiglia di vino rosso. Questi bergogliani parlano con maggiore turbamento, invece, di una congiura organizzata dall’episcopato nordamericano e ramificata in Vaticano per spodestare il pontefice argentino: i “corvi” che volteggiano in Vaticano, secondo le nostri fonti, seguono il richiamo di alcuni cardinali degli Stati Uniti, spaventati dall’impostazione sociologica, anticapistalista, terzomondista della Chiesa di Francesco.
La rete anti-Bergoglio ha un’ispirazione ultra-tradizionalista e a Roma ha una solidissima sponda in vari ambienti influenti, a partire dalla cattomassoneria di faccendieri e nobiltà nera che sin dal 2015 ha iniziato a complottare contro Francesco. Il primo atto di questa guerra fu la bufala sbattuta in prima pagina da un quotidiano su un presunto tumore di Francesco. Poi, il conflitto si è allargato su due piani. Quello delle lotte di potere vero su interessi economici, si pensi al ribaltone all’Ordine di Malta – un autentico Stato dotato di mezzi smisurati – o all’esplosiva nebulosa di Vatileaks III. E il piano della dottrina, dove a scatenare gli oppositori del pontificato sono state le concessioni ai divorziati dell’Amoris Laetitia. Il fronte dottrinario aperto da coloro che lo stesso Bergoglio ha definito farisei, cioè aridi dottori della Legge, non è affatto secondario nelle trame di una rete che parla soprattutto inglese.
L’ultimo scandalo montato ad arte riguarda il presepe allestito per Natale in Vaticano. Uno dei siti più letti di questa galassia, il canadese LifeSiteNews, ha pubblicato un lungo reportage, ripreso da tanti blog italiani, sulle allusioni “omoerotiche” (un cadavere nudo definito “palestrato”) della composizione dedicata quest’anno alle sette opere di misericordia. Prima ancora, poi, è uscito il libro firmato con lo pseudonimo di Marcantonio Colonna, probabilmente un giornalista inglese, in cui Bergoglio è descritto come un pericoloso “manipolatore” e un “dittatore” che governa con “la paura”, alleato con “gli elementi più corrotti del Vaticano” per “capovolgere” le riforme che “ci si attendeva da lui”. Questo fronte, però, ha perso negli ultimi mesi l’alfiere più prestigioso: il cardinale Müller, “ritiratosi” dalla guerriglia in cui comunque denuncia il “cerchio magico” di Francesco e persino il pericolo di uno scisma.
Sul porporato teutonico erano riposte le speranze dei tifosi dei cinque Dubia (Dubbi) contro l’Amoris Laetitia, presentati da quattro cardinali. Müller li ha spiazzati dicendo che Francesco non ha bisogno di rispondere perché è tutto contenuto nel documento. Adesso l’attacco è ripreso con la “Professione di fede” di tre sconosciuti vescovi del Kazakhstan, dove i cattolici sono l’uno per cento. Ma tra le firme di adesione ce n’è una sorprendente: quella dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Stati Uniti, che in epoca di Ratzinger e Bertone rivelò l’esistenza di una lobby gay in Vaticano.

Corriere 22.1.18
L’inganno in rete Falsi marchi e mercato nero
di Milena Gabanelli


Comprare online è molto comodo, ma soprattutto possiamo cercare, di qualunque prodotto, quello che costa meno, certi di trovarlo. Spesso è un prodotto contraffatto made in China, venduto sulle piattaforme Alibaba, il gigante dell’e-commerce che ogni giorno processa 832 milioni di ordini. Sulla sua piattaforma si compra tutto: dall’abbigliamento all’agroalimentare, ai pezzi di ricambio, agli articoli per la casa, ai farmaci, all’elettronica. Oggi funziona così: sulle piattaforme, dove ogni giorno approdano migliaia di nuovi venditori, nessuno è obbligato a mostrare la licenza per vendere un certo prodotto. E allora come si difendono le imprese quando si accorgono che qualcuno sta vendendo per esempio le loro scarpe a un prezzo stracciato?
Possono lamentarsi con Alibaba, e, se sono in grado di indicare lo specifico venditore, magari quell’offerta viene tolta dalla piattaforma, per ricomparire probabilmente dopo due settimane. Oppure possono rivolgersi all’autorità cinese, che di solito risponde: «Cercatevi un investigatore e trovate la fabbrica dove producono le scarpe contraffatte; dopo noi interveniamo». In pratica, se quel marchio non lo hai registrato in Cina, è impossibile far rimuovere la pubblicità dalle piattaforme, mentre è probabile che lo stesso marchio lo abbia registrato qualcun altro, visto che i cinesi conoscono in tempo reale ogni brand esistente sul mercato internazionale. Il valore del falso ammontava nel 2016 a 1,7 trilioni di dollari, e nei prossimi 5 anni è stimata una crescita del 70 per cento.
Il vuoto normativo
I pirati la fanno franca perché la legge cinese non è chiara, nemmeno per gli avvocati, e alla fine ai proprietari dei marchi non conviene fare causa per almeno tre motivi: 1) i risarcimenti sono bassi; 2) Alibaba ha enormi risorse e grandi avvocati, che hanno una grossa influenza sui Tribunali locali; 3) di solito le aziende stesse vogliono fare affari attraverso il gruppo Alibaba, e se lo denunci, diventa più difficile.
Lo scorso giugno, a Detroit, alla presenza di centinaia di imprenditori, il capo di Alibaba, Jack Ma, ha ammesso: «La contraffazione è il nostro cancro». Ogni tanto annuncia la chiusura di qualche migliaio di negozi virtuali, estromette qualche centinaio di operatori, e chiede ai grandi marchi: «Sbarcate qui, perché io voglio un mercato pulito»! Apprezzabile buona volontà, che non sposta il problema di un millimetro, perché chi deve intervenire è il governo cinese, che da una parte dichiara a gran voce di voler proteggere le imprese straniere, ma in anticamera dice: «Non diamo troppa protezione ai brand, altrimenti salta tutta l’industria del falso e Alibaba porta 12 milioni di posti di lavoro».
Ne è la prova il fatto che, da 5 anni, in Cina stanno elaborando una legge sull’e-commerce, e nell’ultima bozza c’è scritto: «Di fronte a una segnalazione di contraffazione, se il venditore garantisce che non è vero e ne produce documentazione (a sua volta falsa, ndr ), nessuno va in tribunale». Una norma che, per le piattaforme, non prevede alcuna responsabilità, né l’obbligo di approfondire le prove. Il problema non è solo Alibaba: mentre navighi su Internet ti compare la pubblicità di un prodotto, cliccando finisci in un sito, una email, un social media o WhatsApp, dove puoi acquistare quello stesso prodotto (falso). Il 99% dei ricambi e adattatori per iPhone non sono sicuri. Diventa sempre più normale il pagamento in bitcoin, anche se Alibaba oggi non li accetta... non ancora. Si dice: «Segui i soldi, e arriverai al ladro». Ma, con i bitcoin cosa segui?
Il peso delle scelte
Il consumatore deve sapere che cercando per ogni prodotto il prezzo più basso, alimenta di fatto la produzione parallela del falso. Il risultato è che le piccole e medie imprese italiane trovano i loro marchi dappertutto, da 1688.com (la piattaforma che vende all’ingrosso, ma dove possono comprare anche i consumatori retail ) a Taobao o altre piattaforme Alibaba. Come fanno a sopravvivere se devono competere con la contraffazione, il mercato nero e i software delle piattaforme che danno la priorità agli articoli che costano meno? Hanno una sola strada: quella di abbassare a loro volta i prezzi. Il che significa abbassare gli stipendi, e ridurre al minimo i contributi e i diritti, quelli a fatica conquistati: le ferie, la malattia, la maternità. Si esce dal territorio sano della libera concorrenza, per entrare in quello malato del dumping sociale.
Chi ha la forza di imporre un cambio di rotta sono i titolari dei grandi marchi mondiali e le associazioni di categoria, che dovrebbero investire in una ricerca seria sull’impatto economico e sociale; e poi fare attività di lobbying sui propri governi, spingendoli a fare pressioni sul governo cinese. Su Internet la Cina è il mondo, perché con Dhl spedisce i prodotti, uno per uno, ovunque nel pianeta, e le dogane raramente controllano il singolo pacchetto. Questo vuol dire che se i controlli non partono dalla Cina, non c’è speranza di arrestare la contraffazione globale.
Il piano di crescita
Oggi le previsioni di crescita di Alibaba sono enormi: conta di capitalizzare 1.000 miliardi di dollari entro il 2020, battendo Apple, Alphabet, Amazon, Facebook, Tencent. Il suo fondatore Jack Ma ha dichiarato a Newsweek : «La Cina è cambiata grazie a noi negli ultimi 15 anni. Ora speriamo che il mondo cambi grazie a noi nei prossimi quindici». Il colosso sta facendo acquisizioni e investimenti in tutti i settori e in tutto il mondo: dalle società che si occupano di distribuzione a catene di negozi e supermercati, dalla stampa ai media, dalle lotterie, allo sport, ai servizi sanitari. Se riuscirà a comprare anche una compagnia di servizi di pagamento (come la Western Union per esempio), sarà più facile costruire una piattaforma fuori dalla Cina, aprendo così le porte a una ben maggior vendita internazionale di prodotti contraffatti. Da un giorno all’altro le cose potrebbero andare dieci volte peggio. Il governo americano ha appena rifiutato la richiesta di Alibaba di comprare MoneyGram. Grazie Trump, onestamente.
Nota finale: secondo Jack Ma, l’evasione fiscale non solo è i llegale, ma soprattutto immorale e ha dichiarato che ogni impresa deve pagare la sua parte attraverso le tasse, visto che le aziende possono lavorare solo grazie all’infrastruttura pagata dai cittadini. Quindi, quanto paga questo colosso in tasse? Secondo il South China Morning Post , giornale posseduto da Alibaba, il gigante di e-commerce e la sua affiliata finanziaria Ant Financial hanno pagato, nel 2016, un totale di 3,5 mi liardi di dollari di tasse, continuando a essere il maggior contribuente della Cina. C’è però un «MA» (inteso come congiunzione avversativa): tutti i rami dell’ecosistema Alibaba sono attaccati al tronco della società madre, l’Alibaba Group Holding Limited, che ha sede nelle Cayman Islands. E quanto paga di tasse? Zero, perché alle Cayman non è previsto nessun tipo di tassazione per le società.

Corriere 22.1.18
Strage di donne nell’altra Hollywood In tre mesi morte cinque attrici hard
di Matteo Persivale


Vittime di alcol, stupefacenti e depressione. Avevano tutte tra i 20 e i 35 anni
Cinque giovani donne morte in nove settimane e mezza, una dopo l’altra. Cinque attrici. Cinque nomi che diranno poco alla maggioranza del pubblico perché recitavano nei film che si girano al di là delle colline con la scritta «Hollywood», nella San Fernando Valley, il regno del porno. Chi ha ucciso le cinque ragazze? Lo stesso serial killer, con nomi diversi — solitudine, dipendenza da droga e da cocktail di alcol e psicofarmaci, disturbo bipolare, depressione.
Se stessimo parlando di giovani donne che recitavano in commedie e thriller e horror, queste cinque morti in meno di tre mesi sarebbero un caso globale.
Invece sembra quasi normale che giovedì scorso Olivia Lua, 23 anni, sia stata trovata morta nella sua camera in una clinica di disintossicazione a West Hollywood. Quasi normale che qualche giorno prima di lei Yurizan Beltran, 31 anni e famosa come sosia di Kourtney Kardashian, la diva dei reality, sia stata trovata morta, nella sua casa di Bellflower, California, per overdose di farmaci. Almeno la morte di August Ames, 23 anni, trovata impiccata a un albero in un parco non lontano da casa sua a Camarillo, California, aveva avuto un po’ di eco oltre le solite condoglianze delle colleghe e dei fan via Twitter: si è suicidata a causa del bullismo dei social media, dove un esercito di odiatori di professione l’avevano presa di mira per essersi rifiutata pubblicamente di lavorare con attori maschi che avevano girato scene gay.
Olivia Nova, 20 anni, il 7 gennaio era stata trovata morta a Las Vegas. Una banale infezione alle vie urinarie, curata male, aveva attaccato un rene, e infine era diventata un’infezione generalizzata: sepsi, malattia dieci volte più mortale dell’infarto. Il rapporto preliminare della polizia, pubblicato on line, è di una tristezza desolante: il corpo sul letto a faccia in giù, vestita solo di una t-shirt, gonfia, l’edema, gli occhi gialli, le bottigliette di antibiotici su un comodino. I poliziotti che trovano un piccolo livido su una coscia e delimitano la scena del crimine ipotizzando un omicidio (che non c’è stato), perché a vent’anni come si fa a morire così, sola nel suo letto, per un’infezione, si erano chiesti?
La prima vittima di queste cinque — in attesa della prossima? — è Shyla Stylez, 35 anni: a novembre era stata trovata morta dalla madre nel suo letto. Semplicemente, era andata a dormire e non si era più svegliata (la famiglia non ha diffuso i risultati degli esami tossicologici).
La soluzione? Un business come quello del porno che fattura più di Hollywood dovrebbe trovare delle soluzioni collettive che vadano al di là delle condoglianze generiche, per ogni caso individuale, twittate dalle agenzie (nel silenzio dei produttori: forse impegnati a trovare una sostituta da mandare sul set).
Ava Addams, diva dei film per adulti che a 40 anni è ancora al vertice della carriera, ha twittato un atto d’accusa che lascia poco spazio a repliche: «Quest’industria, nella sua totalità, è una barzelletta: fanno finta di essere uniti ma in realtà si accoltellano sempre alle spalle. E rifiutano di prendersi la minima responsabilità».
Al netto della preoccupazione dei produttori — non agitare le acque politiche per poi magari trovarsi l’Fbi in ufficio su base regolare e, addirittura, misure censorie legiferate ad hoc — in giorni di #metoo e di marcia delle donne sarebbe bello se qualcuno facesse notare loro una coincidenza ovvia: le attrici dei film normali e di quelli per adulti fanno mestieri diversissimi ma hanno una comune esigenza, quella della sicurezza sul lavoro. Così un’attrice che va a un’audizione per una commedia non dovrebbe più trovare il produttore in accappatoio, almeno nel mondo del cinema dell’era dopo #metoo. E un’altra ragazza, che invece per sua scelta va su un set a girare una scena di sesso incarnando le fantasie di milioni di uomini, quando è depressa o malata dovrebbe essere trattata, semplicemente — dalla sua agenzia e da chi la fa lavorare: registi e produttori — come un essere umano.

Corriere 22.1.18
Pence in Israele e la diffidenza dei palestinesi
di Davide Frattini


La formula «Nuova Alleanza» in ebraico suona come «Nuovo Testamento». Lo fa notare il quotidiano Haaretz per spiegare dal punto di vista della sinistra israeliana la visita di Mike Pence. Il vicepresidente americano rappresenta il potere degli evangelici, quel fervore religioso — Ayman Odeh, leader politico degli arabi israeliani lo definisce «messianico e pericoloso» — che ha premuto su Donald Trump perché riconoscesse Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Il suo viaggio in Medio Oriente avrebbe dovuto incentrarsi sulla situazione della minoranza cristiana, la tappa a Betlemme era prevista e per Pence sarebbe stato un momento fondamentale sul piano personale e spirituale. Tutto cancellato dopo l’annuncio di Trump un mese e mezzo fa. Abu Mazen, il presidente palestinese, si rifiuta di incontrarlo, i leader religiosi arabi altrettanto. Il vicepresidente parla oggi alla Knesset, il parlamento israeliano, incontra il premier Benjamin Netanyahu e Reuven Rivlin, il capo dello Stato. Domani visita il Muro del Pianto ma almeno su questa tappa la nuova Casa Bianca non ha rotto il protocollo: la sosta davanti alle pietre più sacre per l’ebraismo è considerata privata senza la presenza di ministri o rappresentati ufficiali del governo israeliano. La scelta vuole confermare quello che Pence ha ripetuto in Egitto e in Giordania durante la prima parte del viaggio: gli Stati Uniti non vogliono modificare lo status quo nell’area del Muro del Pianto e della Spianata delle Moschee. Il vicepresidente ha anche rassicurato re Abdallah che gli ricordava la speranza dei palestinesi di dichiarare i quartieri arabi della città come capitale di una futura nazione: l’amministrazione crede ancora nella soluzione dei due Stati. Abu Mazen ribadisce di non considerare più gli americani degli arbitri imparziali. Direttori di questa gara, diplomatica e sanguinosa, altrettanto potenti non sembrano esistere, il leader palestinese dovrà forse accettare di tornare a parlare con Trump e i suoi emissari.

Repubblica 22.1.18
Ecco i rimedi per curarsi dal malanno populista
di Eugenio Scalfari


Desidero cominciare questo articolo con due citazioni di illustri autori. Lo faccio spesso a titolo di premessa e penso sia di qualche utilità. La prima risale a Norberto Bobbio in un suo piccolo libro intitolato La filosofia e il bisogno di senso,
e dice così: «Mi sono posto una domanda e cioè dove vada la filosofia nei prossimi anni. Ma ho dato, dopo averci sopra ben riflettuto, due risposte indipendenti l’una dall’altra: penso che la filosofia stia andando verso una direzione, ma desidererei invece che andasse nella direzione opposta».
La seconda citazione è tratta da un libro di grande interesse, l’autore del quale è Thomas Mann con il titolo Moniti all’Europa. E con una introduzione molto acuta di Giorgio Napolitano. Da questa citazione traggo un giudizio molto interessante: «Se non si è portatori di visione storica e di strumenti di analisi culturale, di un serio e coerente patrimonio di valori e idealità su cui fondare programmi realistici di governo, la politica si fa asfittica, di corto termine e respiro ed esposta alle degenerazioni, anche in senso morale, del potere quotidiano.
La politica mette così a rischio, dice Mann, la sua componente ideale e spirituale, la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura, di cui peraltro essa non potrà mai spogliarsi del tutto. In fondo è questo il discorso ben attribuibile al grande Tedesco ed Europeo che ancora oggi onoriamo e che si incentra sulla nobiltà della politica». Ma che in realtà non ha, aggiungo io.
La situazione economica, sociale e soprattutto politica non va bene in Italia, in Europa, in America e neppure in Sudamerica e in Medio Oriente. Non si era mai verificata questa generale confusione, resa ancora più intricata dal terrorismo, dalle periferie geopolitiche dove si accumulano miseria, ribellismo, corruzione, guerre locali. Questi malanni, almeno per quanto ci riguarda, si concentrano nel Mediterraneo. Esso in qualche modo è il centro del mondo per chi ci vive, ma a pensarci bene ci vivono tutte le grandi potenze: tutti i Paesi che vi si affacciano e le grandi potenze che guardano al mare che ci circonda e che lì hanno grandi interessi, dalla America alla Russia, dall’Africa all’Asia. Oggi è più che mai così: l’inquietudine politica che stiamo vivendo investe direttamente il Mediterraneo e si irradia nell’intera Europa e anche nell’intera America. L’Italia ha cessato da tempo di essere una grande potenza, ma è una penisola al centro di quel mare- lago con solo due porte dalle quali si entra e si esce: Suez e Gibilterra. E noi siamo una sorta di ponte come lo sono la Grecia, la Spagna e la Francia del Sud. Ebbene: l’inquietudine italiana e per altre ragioni quella spagnola sono al massimo di questa agitazione, incertezza, ingovernabilità. Noi addirittura peggio perfino della Spagna.
Siamo al centro di un tema capitale per una Nazione che è quello dell’ingovernabilità e anche del populismo. Va capito bene il significato di questa parola: vuol dire masse popolari che disprezzano e addirittura odiano le classi dirigenti. Si sta espandendo in tutta Europa il populismo, ma in Italia più che altrove. Gran parte del Mezzogiorno è populista, perché nei nostri paesi del Sud la miseria, le clientele, le mafie, sono caratteristiche di quelle regioni; ma c’è ampio populismo anche altrove. Questo se guardiamo l’aspetto geografico, ma di quello politico il populismo è un malanno assai diffuso: gran parte del populismo produce una altissima tendenza all’astensione dal voto; i Cinque Stelle sono un movimento nato populista al cento per cento: non ha un programma, non ha alleanze, non le vuole perché le disprezza e vuole tenere dentro tutto il populismo capace di raccogliersi in una struttura assai singolare che ha come scopo finale di fare piazza pulita di tutti gli altri partiti e movimenti e soltanto dopo potrà interessarsi a programmi che tengano conto della loro natura.
Ma il populista per eccellenza è Berlusconi che ne ha inventato però uno assai singolare: lui è membro della classe dirigente, membro dell’establishment, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Alleanze? D’ogni genere: quando per la prima volta fece un governo era alleato del neofascista Fini e della Lega guidata da Bossi. Quei due non si parlavano tra di loro, parlavano con lui che riusciva a mediare tra due interlocutori che si odiavano reciprocamente. Ricordiamo che anni dopo Bersani, allora segretario del Pd, fu tentato dall’ipotesi di potersi alleare con i Cinque Stelle. Fissò un appuntamento al quale intervennero due collaboratori di Grillo. Bersani parlò a lungo, espose il programma e tentò di captare l’interesse degli interlocutori. Accadde invece che questi ascoltarono senza dire una sola parola su quello che Bersani esponeva. Quando alla fine toccava loro di rispondere si alzarono dalle sedie e se ne andarono senza nemmeno salutare, come si ascolta una ranocchia e quando quella ha finito di gracidare si va a casa.
***
Vediamo ora chi sono gli antipopulisti: soltanto i democratici del Pd. Quel partito nacque dall’Ulivo di Romano Prodi e dai due governi che egli fece. Quei governi furono l’incubatore del Partito democratico che nacque dieci anni fa avendo come fondatore e primo leader Walter Veltroni. Ci furono negli anni seguenti varie battaglie tra le quali un’elezione politica generale e fu una netta vittoria per il numero dei voti raccolti e per il governo che ne risultò. Il tutto è stato celebrato poche settimane fa e quindi è materia strettamente attuale.
Ora siamo di nuovo alle prese con le elezioni, ma nel frattempo c’è stata la scissione di un gruppo che si fregia del titolo “Liberi e Uguali”. Le scissioni dalla sinistra sono un dato storico che dura da oltre un secolo. Non si capisce bene il perché ma purtroppo la sinistra italiana è fatta in questo modo non occasionale ma storico.
Le indagini e le previsioni in corso attribuiscono al partito di cui Renzi è il leader una rappresentanza conquistabile nelle prossime elezioni del 4 marzo che oscilla tra il 25 e il 28 per cento. Se arrivassero al 30 sarebbe considerata una vera e propria vittoria. Ce la farà? L’accordo con la Bonino è una buona cosa e quello con Casini altrettanto. Anche De Mita vorrebbe aiutare il Pd a farsi luce. Ricordo ora con personale affetto che Ciriaco De Mita compirà 90 anni il 2 febbraio prossimo. Ha fatto a suo tempo una buona politica e fu il primo ad avere un rapporto di amicizia con Enrico Berlinguer. Fu a suo tempo segretario della Dc e poi presidente del Consiglio. A quell’epoca si sentiva molto più vicino a Berlinguer che al socialista Craxi. Direi che aveva perfettamente ragione.
I lettori mi scuseranno se talvolta indugio su ricordi personali, ma alla mia età si hanno antiche esperienze e memoria di esse. Io credo di essere in quel novero o almeno lo spero. Qualche giorno fa Carlo De Benedetti in una trasmissione televisiva ha detto che sono un vecchio rimbambito e altri insulti ai quali ho risposto con un’intervista di Francesco Merlo pubblicata l’altro ieri sul nostro giornale, quindi tralascio questo tema personale che ho qui ricordato per via di quell’accenno al mio rimbambimento. Tutto può essere ma a me ancora non è accaduto. Come ha scritto di recente il grande autore americano Philip Roth: «Noi vecchi andiamo la sera a dormire e ci svegliamo la mattina dopo con allegria. Durante il giorno abbiamo molte cose da fare, da pensare e da scrivere. Finché dura».
Chiudo con due brevi accenni. Uno sulla futura governabilità dell’Europa. Angela Merkel proprio ieri, domenica, è stata informata dell’assenso dei socialisti guidati da Schulz alla Grande coalizione. Governabilità europea risolta e duumvirato franco-tedesco. Ora ci sono un’infinità di questioni da risolvere tra le quali la scadenza di molte importanti cariche europee come quella di Mario Draghi le cui funzioni di presidente della Bce scadono alla fine del 2019. Ci sono ancora due anni di tempo ma la presidenza della Banca centrale e l’abilità con la quale Draghi l’ha condotta sono tali che fin d’ora vanno affrontate. Ed infatti Macron vuole rafforzare l’Europa con la creazione finalmente di un ministro delle Finanze unico per tutte le Nazioni europee. Molti pensano, e probabilmente lo pensa lo stesso Macron, che Draghi sarebbe perfetto per questa funzione ma non è questo il parere della Germania. Merkel ha sempre voluto una politica di rigore finanziario e quindi la Germania e soprattutto l’attuale presidente della Bundesbank non sono affatto d’accordo con la politica monetaria di Draghi che ha puntato sulla creazione di moneta per sostenere l’espansione produttiva, l’aumento dell’occupazione, un’inflazione di circa il 2 per cento e tassi molto bassi per i depositi delle banche nazionali presso la Banca centrale. Non è escluso ed anzi da certi segnali sembrerebbe che Macron sarebbe favorevole ad affidare quel ministero delle Finanze europeo all’attuale presidente della Bce. Questo susciterebbe un parere negativo di Angela Merkel ma comunque credo che Draghi non abbia alcuna voglia, se gli fosse offerto, di accettare quell’incarico. Ce ne sono molti altri adatti per lui, in Europa e in Italia. Esprimo, se mi è consentito, un mio parere: Draghi presidente della Commissione europea secondo me sarebbe l’ideale. Ma qui mi fermo.
Il secondo ed ultimo tema riguarda invece la governabilità in Italia, di cui si avrà il risultato alle prossime elezioni del 4 marzo.
Per fortuna questa governabilità così difficile da realizzare è di fatto raggiungibile dalle intuizioni del nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Qualora nessuna coalizione, o partito, dovesse prevalere alle elezioni, potrebbe affidare a Gentiloni l’incarico di proseguire al governo per l’ordinaria amministrazione. Un incarico che potrebbe essergli concesso per sei mesi o anche per un anno intero al termine del quale probabilmente si voterebbe di nuovo. In questo caso, se ci saranno nuove elezioni nel 2019, Renzi avrà il tempo per ricostruire e rafforzare il partito. Deve muoversi con molta energia e intelligenza valendosi di una squadra al massimo livello possibile. Governare l’Italia è ovviamente indispensabile e Gentiloni l’ha fatto molto bene e lo rifarebbe ove fosse necessario, sempre che Renzi non coltivi il desiderio di riprender lui la guida del governo. Sarebbe un errore. L’Italia certamente deve essere ben governata, ma la grande battaglia da affrontare contemporaneamente è quella che riguarda la nostra politica europea. Renzi ha affrontato più volte questa battaglia e l’ha condotta molto bene. Non credo però che se la senta di lasciare la guida del partito e diventare ministro degli Esteri di un governo Gentiloni; la considererebbe una inaccettabile diminuzione del suo rango e quindi non sembra possibile una soluzione del genere. Il tema però è questo: come si guida un governo italiano e la sua politica interna ed europea. Speriamo bene.

Repubblica 22.1.18
Rapporto Demos
Gli italiani e lo Stato
Italia, un paese senza più fiducia ma che scommette sull’impegno
Metà dei cittadini pensa che non servano i partiti e due su tre si schierano per l’uomo forte alla guida Recuperano a sorpresa i sindacati e cresce la partecipazione sociale in particolare tra i più giovani
di Ilvo Diamanti


Il Paese che si avvia alle prossime elezioni si presenta, come in passato, scettico. Nei confronti delle istituzioni e della politica. Ma non rassegnato. Gli italiani: appaiono diffidenti. Verso gli altri e, in fondo, anche verso se stessi. Ma non rinunciano a credere nella possibilità di cambiare. Nel futuro. Anche se mostrano delusione nei confronti del passato. O, forse, proprio per questo. Perché sperano che il domani sarà migliore. E cercano di muoversi in questa direzione. Mi pare il segno tracciato dal Rapporto: Gli Italiani e lo Stato. Curato da Demos (per Repubblica) ormai da vent’anni.
Se non si trattasse di una formula politica utilizzata tradizionalmente con significato diverso, parlerei di una “sfiducia costruttiva”. Che spinge gli italiani a osservare gli interlocutori pubblici intorno a loro con prudenza e, come ho già detto, con diverso grado di diffidenza. Molto alto per quel che riguarda i partiti, ma anche il Parlamento. Il luogo dove i partiti, meglio: i loro eletti, esercitano compiti e poteri di rappresentanza. Tuttavia, è basso anche il grado di fiducia di cui dispone lo Stato: meno del 20%. Pressoché come l’anno scorso. Ma 11 punti in meno di dieci anni fa. Solo l’Unione Europea mostra una perdita di credito più elevata: 18 punti in meno. E riscuote fiducia presso non più di 3 italiani su 10.
Appare, dunque, sempre più distante. Sempre più indifferente ai problemi e alle domande dei cittadini. Ma in Italia non sembrano esistere istituzioni “vicine” ai cittadini.
Gli stessi Comuni sono, infatti, osservati con crescente distacco. Resistono solo il Papa, meglio: Papa Francesco. E le Forze dell’ordine. Entrambi segnali della ricerca di sicurezza. E di “fede”, principio (e radice semantica) della “fiducia”.
Il XX Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, curato da Demos, delinea così il profilo di “un Paese senza”. Fiducia. Nelle istituzioni ma anche negli altri.
Un Paese di persone “sole”. Un Paese senza politica. E lo sapevamo. E senza Stato. Come si continua a dire. Sperando che non sia vero. Non per caso Sabino Cassese, in un saggio di alcuni anni fa, ha definito “L’Italia: una società senza Stato”.
D’altronde, anche l’orientamento verso i servizi alimenta il disincanto pubblico. Tanto che quasi metà dei cittadini (48%) considera, se non lecito, certamente giustificabile “evadere le tasse”. Dal disamore pubblico e dal distacco verso le istituzioni emergono segnali inquietanti per la democrazia. Almeno: per la democrazia “rappresentativa”. Oggi, quasi metà dei cittadini pensa che i partiti non servano. Che la democrazia possa farne a meno. Perché i partiti e i politici sono corrotti. Quanto e anche più che ai tempi di “Tangentopoli”. E se una larga maggioranza di italiani (62%) crede ancora che la democrazia sia preferibile a ogni altra forma di governo, si tratta comunque di una componente in calo costante. Rispetto a dieci anni fa: 10 punti in meno. Così non sorprende, ma preoccupa anche di più, che quasi 2 italiani su 3 ritengano che oggi il Paese dovrebbe essere guidato da un “uomo forte”. Un sentimento comprensibile, vista la sfiducia verso le istituzioni pubbliche e verso i soggetti politici. Eppure, a maggior ragione, inquietante. Tanto più se ci voltiamo indietro. A ripercorrere la nostra storia. A riflettere sul nostro passato.
Tuttavia, questo “Paese senza” non ha perduto la speranza.
Non solo perché torna a guardare con un certo ottimismo al futuro prossimo, visto che quasi 4 italiani su 10 pensano che l’anno appena cominciato sarà migliore di quello appena finito. E solo il 16% lo immagina peggiore. Ma soprattutto perché questo “Paese senza” istituzioni, questa “società senza Stato”: sembra in grado di reagire alla delusione. Alla sfiducia. Non ha rinunciato all’idea che sia possibile cambiare. Non ha rinunciato all’impegno. E manifesta, dunque, una partecipazione elevata, rispetto agli ultimi anni. Condotta non solo per via digitale, ma anche, ancor più, sociale e politica.
Non per caso anche gli indici di fiducia nelle associazioni sindacali e di categoria riprendono a crescere, dopo alcuni anni. Perché la partecipazione genera fiducia.
Nei confronti delle istituzioni, ma anche “verso gli altri”. In entrambi i casi, i livelli di “confidenza”, cioè: di “fiducia”, crescono sensibilmente fra coloro che mostrano indici di partecipazione più elevati.
Perché l’impegno, la stessa protesta, sono esperienze che facciamo “insieme agli altri”.
Con gli altri. Soprattutto quando si svolgono nella società, nelle città, nei luoghi pubblici. Senza limitarsi a frequentare la rete. Dove siamo sempre in contatto con gli altri.
Ma da soli. Noi davanti al nostro tablet, al nostro pc, al nostro smartphone.
Così mi rassicura il fatto che, in questo XX Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, gli indici di partecipazione sociale tendano ad aumentare sensibilmente fra i più giovani. Nonostante esprimano scarsa soddisfazione verso il sistema pubblico e verso lo Stato. Non per caso Umberto Galimberti (in un libro appena pubblicato da Feltrinelli) ha parlato di “generazione del nichilismo attivo”. Perché è delusa, ma non rassegnata. Significa che c’è motivo di credere. Che questa “società senza Stato” non abbia perduto la speranza. Nel futuro. E in se stessa.

Repubblica 22.1.18
Proposte per futuri governanti
Se il libro scompare dalle elezioni
di Nicola Lagioia


Ma anche le case editrici devono fare la loro parte, facendo squadra come avviene nel settore cinema
Giuseppe Di Vittorio da adolescente era ancora un semianalfabeta.
Quando capì che far valere i suoi diritti in quelle condizioni era impossibile, si procurò un vocabolario. Sono passati anni, ma nell’Italia del XXI secolo l’analfabetismo funzionale che Tullio De Mauro ha combattuto per una vita affligge larghi strati della popolazione, e l’ultimo rapporto Istat racconta un paese di pochi lettori forti contrapposti a una marea di non-lettori in aumento. Nei paesi più evoluti si legge di più. Ma al tempo stesso proprio i paesi in cui si legge molto – e quelli in cui si investe in cultura e istruzione – sono destinati a progredire più degli altri. Tra meno di due mesi si va a votare. Poiché nessuno degli schieramenti ha indicato le proprie idee (sempre che ce ne siano) per favorire quella che potremmo chiamare “la battaglia per la lettura” (sempre che chi aspira a governare la ritenga importante), proviamo a dare qualche suggerimento. Com’è ovvio la questione del reddito è centrale: chi ha più soldi in tasca compra più libri. A parte questo, per il libro sono almeno cinque i punti chiave da cui iniziare: scuole, librerie, biblioteche, comparto editoriale, promozione. Prima di addentrarci nel discorso, una premessa. La filiera del libro in Italia è piena di professionisti di valore. In particolare nelle case editrici (veniamo da una grande tradizione, siamo il paese di Aldo Manuzio) ci sono eccellenze che è difficile trovare anche nei paesi dove si legge più che da noi. Non ho invece mai visto niente di più avvilente dei nostri uomini politici – la maggior parte di essi – quando parlano con enfasi di editoria e promozione della lettura convinti di sapere ciò che dicono. Il mio consiglio a chi ci rappresenta è dunque: siate umili, per una volta fate prevalere l’ascolto sull’ansia di protagonismo.
Cominciamo dalle scuole. Le biblioteche scolastiche sarebbero i luoghi perfetti per la promozione della lettura, se solo fossero sufficientemente attrezzate, se fossero attive (in molte scuole ci sono biblioteche dove in un anno non entra un libro), e soprattutto se ci fosse un bibliotecario, cioè una persona il cui compito è promuovere la lettura tra gli studenti, con strategie che variano a seconda del contesto in cui si trova. Attualmente nelle scuole le biblioteche sono affidate al buon cuore dei docenti che se ne occupano tra mille altre cose. La figura del bibliotecario scolastico – presente in quasi tutti i paesi europei – in Italia esiste solo nella provincia autonoma di Bolzano, non a caso una delle zone in cui si legge di più. Anche prevedere più tempo per la lettura ad alta voce potrebbe essere un’idea. È importante leggere un testo critico sui Fratelli Karamazov, ma se questo impedisce agli studenti di iniziare a leggere il capolavoro di Dostoevskij, c’è un problema.
Nei luoghi dove ci sono più librerie e più biblioteche pubbliche si legge di più. In paesi come la Francia o la Germania ci sono misure a sostegno delle librerie meritevoli (la manovra approvata a dicembre introduce il credito d’imposta, ma bisogna fare di più). Per ciò che riguarda le biblioteche: esclusi i casi virtuosi (uno su tutti: la Sala Borsa di Bologna) oggi occupano uno spazio marginale nelle pratiche culturali degli italiani – prive di mezzi, sotto organico, specie al Sud, sono il settore dove il margine di miglioramento è maggiore. L’editoria italiana è dinamica e altrettanto audace. Non è infrequente che grandi autori stranieri vengano scoperti da noi prima che altrove, e non è raro che gli autori italiani abbiano un certo successo all’estero. A differenza di altri settori (come il cinema o il teatro) l’editoria libraria si autosostiene. Da una parte è un bene (la mancanza di assistenza costringe a innovare di continuo), ma questo non significa che una buona cornice normativa non possa rinvigorire un settore meritorio. Dai contributi alle traduzioni, a quelli per la vendita all’estero dei diritti d’autore di libri italiani, a un più vasto piano di agevolazioni fiscali per chi acquista libri, trarre ispirazione da ciò che accade in paesi più evoluti non fa male.
Qualche tempo fa, nel corso di incontri pubblici la pubblicitaria Annamaria Testa metteva a confronto le nostre campagne istituzionali di promozione alla lettura con quelle di altri paesi. Il paragone era imbarazzante. In questo caso bisognerebbe proprio cambiare paradigma. Ho fatto solo qualche esempio. Un pacchetto completo di proposte legislative in tal senso fu presentato nel 2013 dal Forum del Libro. Elogiato da tutti i gruppi parlamentari, non è mai arrivato a discussione. Si potrebbe ricominciare da lì. Nonostante l’editoria libraria sviluppi un volume d’affari assai più grande di quello del cinema, il mondo del libro – a differenza della settima arte – non è mai riuscito a far fronte comune davanti alla politica.
Bravissimi di per sé, gli editori italiani lo sono meno quando c’è da fare squadra. Ma esisterà un pacchetto condiviso di proposte su cui mettere all’angolo i nostri rappresentanti. Qual è la loro idea su un settore così strategico come quello del libro? È arrivato il momento di scoprire le carte.

Repubblica 22.1.18
Reza Pahlavi:
“L’Iran sarà la miccia per il cambiamento in tutta la regione”
di Francesca Caferri


ROMA «Al mondo dico di non dimenticare l’Iran e quello che è accaduto e sta accadendo ancora. Le rivolte a cui abbiamo assistito a dicembre dimostrano che il genio è uscito dalla bottiglia: che la gente non si sta più chiedendo qual è il candidato meno peggiore fra quelli a cui il regime ha consentito di correre. Ma quando e come può far cadere il regime. Sarà un elemento che avrà effetti in tutta la regione e anche in Europa. Faccio un esempio: l’Iran sta vivendo una serissima crisi idrica e se non ci saranno risposte migliaia di persone saranno costrette a fuggire. E andranno in Europa.
Ma il regime non ha risposte. Per questo l’attenzione va tenuta alta». Con la visita del vicepresidente americano Mike Pence in Medio Oriente, lo sguardo del mondo torna a posarsi su Gerusalemme, la città contesa da palestinesi e israeliani il cui destino, solo qualche settimana fa, sembrava essere decisivo per le sorti della regione. Ma dopo qualche tensione, la crisi sulla Città Santa si è placata e ad accendersi è stato invece l’Iran.
Del fatto che sarà proprio dall’antica Persia che si leverà la scintilla che cambierà gli equilibri del Medio Oriente Reza Pahlavi, figlio dello Scià costretto alla fuga dalla rivoluzione khomeinista del 1979, erede di una monarchia con una storia lunghissima, è più che certo.
Signor Pahlavi, la rivolta in Iran si è placata. Di più: dopo la prima fase, contenere le proteste è stato per il regime relativamente semplice. Come fa a dire che quello che è accaduto è centrale?
«Lo dico perché per la prima volta in Iran la gente ha chiesto in modo chiaro la fine del regime. E il fatto che la protesta sia stata repressa non cambierà questo elemento. C’è un doppio fattore alla base di quello che è accaduto: l’insostenibile situazione economica, che non lascia speranze ai giovani, e la mancanza di ogni speranza nella politica. La situazione non tornerà normale, questa crisi non sparirà».
Perché?
«Perché non c’è stata una parte del Paese che non sia stata interessata dalle proteste. Perché per la prima volta alcuni membri dei basiji hanno scelto di stare dalla parte della gente. Perché c’è corruzione e mancanza di speranza e nessuna risposta possibile da parte di questo regime».
Il presidente Trump ha scelto di appoggiare le proteste ma di non fare un ulteriore passo indietro dall’accordo sul nucleare: Lei è d’accordo?
«Io credo che alcune delle politiche che questa Amministrazione ha ereditato non debbano necessariamente essere stabili. Credo che alcune cose possano essere cambiate.
Che delle sanzioni più forti, mirate su determinati settori o determinati personaggi possano funzionare. Il regime non si sarebbe neanche seduto al tavolo delle trattative sul nucleare se non ci fossero state le sanzioni».
Ma anche la gente pagherebbe un prezzo...
«Gli iraniani sono pronti a stringere la cinghia se questo può portare alla fine del regime. Ma dobbiamo essere certi che ci sia un impegno in questa direzione, e non solo in quella del dialogo con il regime».
Lei è in esilio da decenni e molti iraniani non hanno un buon ricordo di suo padre: fu accusato di corruzione, di aver dimenticato i bisogni della gente. Crede che i Pahlavi possano ancora avere un ruolo, possano parlare per gli iraniani?
«Sono in costante contatto con l’Iran. Tanti giovani mi considerano un punto di riferimento, qualcuno che non ha mai collaborato con questo regime e di cui ci si può fidare. Ma non è sul mio ruolo che mi concentro ora, ma sul Paese».
Che contributo potrà dare la diaspora a questo futuro?
«Dovremo avere pronti dei piani per la transizione per quando il regime cadrà. Dovremo capire come e dove indirizzare i soldi, occuparci delle questioni più urgenti e cercare di attrarre investimenti stranieri. La diaspora ha le risorse per rispondere su questi temi».

Repubblica 22.1.18
Bruno Zevi architettura, giustizia e libertà
di Francesco Erbani


Cento anni fa nasceva il grande intellettuale che seppe unire l’impegno politico e l’estetica. Mettendo l’arte alla base dell’antifascismo e condannando sull’Espresso il degrado urbanistico e morale del Paese
Odio l’accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali», scrive Bruno Zevi in quel singolarissimo diario intellettuale che è Zevi su Zevi, pubblicato nel 1993 e che aveva come sottotitolo
Architettura come profezia. Lo storico e critico dell’architettura, di cui ricorre oggi il centenario della nascita (che sarà celebrato con una mostra al Maxxi di Roma, con diversi convegni, compreso uno ad Harvard, e con la riedizione di molti suoi libri), così proseguiva elencando fra gli oggetti della sua avversione «le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli “ordini”, i vincoli prospettici». E concludeva con un «Per loro». “Loro” sono «i morti di Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione, della Resistenza che si fondono con i sei milioni dei campi di sterminio».
Immaginando di sentirle scandite, martellate con voce nervosa, le parole danno di Zevi un ritratto che tiene insieme la sua idea di architettura e una genealogia politica e culturale forgiata nelle tragedie del Novecento. D’altronde la sua presenza sulla scena pubblica, mai incasellata in uno schema, si è articolata proprio su questo doppio registro. Da un lato la riflessione critica sulla disciplina, dall’altra l’impegno civile che irrora le battaglie condotte sui giornali (dalla nascita del settimanale, nel 1955, ha una rubrica sull’Espresso che conserverà fino alla morte, avvenuta nel 2000) e sulle riviste specializzate (prima Metron, fondata nel 1944, poi, dal ’55
L’architettura – cronache e storia), e che manifesta nella politica attiva.
Questa occupa grande spazio nella sua vita fin da quando, fuggito dall’Italia per le leggi razziali, nel 1939, Zevi approda a Londra e poi negli Usa, dove si laurea – ad Harvard – e dove dirige i Quaderni italiani di Giustizia e Libertà insieme ad Aldo Garosci ed Enzo Tagliacozzo. Rientrato a Roma, partecipa alla Resistenza con il Partito d’Azione. Verranno poi il Psi e il Partito radicale, di cui sarà presidente fra l’88 e il ’91 e nelle cui liste verrà eletto in Parlamento nell’87.
Per Zevi, scrive Rafael Moneo nell’introduzione ad Architectura in nuce, un libro del 1960 ora riproposto da Quodlibet (pagg. 288, euro 30) con postfazione di Manuel Orazi, «l’architettura è l’arte dello spazio» e la sua storia è «una narrazione sul modo in cui gli architetti hanno costantemente cercato – dando forma alla costruzione – di catturare lo spazio». L’impostazione di Zevi è di matrice crociana, sottolinea Orazi (che cura anche un’altra riedizione zeviana: Ebraismo e architettura, Giuntina, pagg. 132, euro 10).
Intanto per l’auspicio, espresso dal filosofo, che lo studioso sia anche un cittadino attivo sulla scena pubblica. Ma poi per la rivendicazione dell’autonomia dell’arte, da Zevi considerata fondamento dell’antifascismo, e quindi assecondando, nel mestiere di storico, la distinzione fra una “poesia”, raffigurata dai grandi – Biagio Rossetti e Michelangelo, Frank Lloyd Wright e Giuseppe Terragni – e una “non poesia”, una “prosa edilizia”. «Mi sono sempre dichiarato crociano», dichiara Zevi stentoreo, «segnatamente da quando questo termine passò di moda», aggiungendo che La poesia di Croce era il testo «che lo aveva accompagnato tutta la vita». E che sta alla base di un altro dei suoi saggi più celebri, Saper vedere l’architettura (1948).
Per diciannove anni Zevi è segretario dell’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, del quale, nel 1950, è diventato presidente Adriano Olivetti. Leonardo Benevolo, testimone di quegli anni, racconta che l’elezione del binomio Olivetti-Zevi è il frutto di un assalto alla diligenza, per svecchiare un’anchilosata istituzione e per condurre da lì le battaglie, spesso perdute, contro la speculazione edilizia montante in Italia. Zevi irrobustisce quell’incarico con la rubrica sull’Espresso che per tanti versi viaggia in parallelo con gli articoli di denuncia che Antonio Cederna scrive sul Mondo.
Zevi e Cederna sono molto diversi.
Zevi sostiene la possibilità che l’architettura moderna entri nei centri storici, se non è frutto di sventramenti o di speculazione. Per Cederna, invece, ciò non deve accadere mai. Ma se c’è da battersi a Roma contro le manomissioni sull’Appia Antica o su Monte Mario, contro «le macabre e buffonesche vicende del piano regolatore» o in favore della legge Sullo sull’esproprio generalizzato dei suoli soggetti a trasformazione – legge che naufraga per iniziativa del partito di Sullo, la Dc – ecco che anche gli aggettivi adottati e il ritmo incalzante della scrittura assimilano Zevi e Cederna, distanti su tanti punti, compresa la predilezione crociana, ma affiancati se c’è da difendere la buona urbanistica.
Non è un caso che Zevi, recensendo sull’Espresso il libro Mirabilia urbis, attribuisca a Cederna la benevola qualifica di “salveminiano”. E qui si torna all’imprinting azionista che Zevi fa lievitare dedicando a “loro”, ai martiri della Resistenza e agli ebrei sterminati nei lager, tutto sé stesso – cultura, passioni e vita vissuta, comprese le sue contraddizioni: «Il desiderio di una famiglia tradizionale e l’inevitabilità dell’amore; l’impegno nella programmazione economica e urbanistica dall’alto e l’attrazione per l’advocacy planning, alla Danilo Dolci; la modanatura sottile e il kitsch; Schönberg e Moustaki; l’introversione di Gadda e l’estroversione di Pasolini. Amo i rituali e non sopporto il conformismo».