La Stampa 18.1.18
Fra chiese bruciate ed elicotteri distrutti
il Papa prova a conquistare i mapuche
Sostegno alle rivendicazioni indigene: “Ma la violenza rende falsa la causa più giusta”
di Andrea Tornielli
«Francisco,
amigo, el pueblo està contigo!». Centociquantamila persone abbracciano
il Papa a Temuco, in Araucania, la regione degli indios Mapuche.
Francesco ha lasciato la capitale Santiago per incontrare «l’altro
Cile», ripetendo il gesto di Giovanni Paolo II nel 1987. Il Papa
appoggia le rivendicazioni degli indigeni, invoca il rispetto dei loro
diritti, prega per le vittime dell’ingiustizia. Ma chiede di ripudiare
la violenza.
All’alba, poco prima dell’arrivo del Pontefice, nelle
zone rurali diverse chiese sono state incendiate, sono stati dati alle
fiamme tre elicotteri della forestale e un carabiniere è stato ferito da
una pallottola. Gli autori degli attentati sono ignoti, ma è noto che
ci sono piccoli gruppi che si stanno radicalizzando. Nelle stesse ore il
portavoce mapuche del «Consejo de Todas las Tierras» Aucán Huilcamán
dichiara: «Vogliamo attribuire al capo dello Stato del Vaticano e della
Chiesa cattolica la responsabilità per il genocidio commesso nel sud del
Cile e dell’Argentina, perché gli spagnoli hanno potuto contare con
l’appoggio di questa Chiesa». «Speriamo che la visita del Papa possa
portare la pace e che i Mapuche siano ascoltati dai cileni», auspica
Rosa Namuncurá, leader mapuche dell’associazione «Lonco calfucura».
Qui,
dove hanno vissuto nei primi del Novecento i premi Nobel, Gabriela
Mistral e Pablo Neruda, più del 26 per cento della popolazione vive in
povertà. I Mapuche - l’unico popolo aborigeno dell’America Latina che
cresce numericamente - rivendicano la restituzione delle terre che il
governo aveva confiscate dandole ai latifondisti. Per decenni la parola
«mapuche» è stata usata in modo spregiativo, sinonimo di analfabeta per i
cileni ricchi e colti. Dopo la fine della dittatura, nel 1993 la nuova
«legge indigena» del governo democratico aveva stabilito indennizzi e
restituzione delle terre, ma molte promesse sono rimaste sulla carta.
Nel 2013, durante le proteste, alcuni sconosciuti hanno incendiato la
casa di un vecchio imprenditore, Wemer Luchsinger che è morto nel rogo
con la moglie Vivienne.
La celebrazione papale si svolge
all’aerodromo Maquehue, luogo tristemente noto perché durante la
dittatura di Pinochet qui venivano reclusi e torturati gli indios. Il
popolo variopinto che accoglie Francesco ha già fatto la sua scelta non
violenta. All’inizio della messa un gruppo di indios in abiti
tradizionali prega e canta accompagnati dal suono di tamburi e corni.
Francesco
indossa paramenti bordati di rosso con motivi dell’arta india e usa la
lingua autoctona per iniziare l’omelia augurando «la pace sia con voi»,
«Küme tünngün ta niemün!». Saluta anche i rappresentanti degli altri
popoli indigeni, Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama.
Nell’omelia cita, tra gli applausi, la cantautrice e poetessa cilena
Violeta Parra: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono
ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere». Ricorda che in
questo aerodromo «si sono verificate gravi violazioni di diritti umani».
Quindi chiede un minuto di silenzio per ricordare le vittime. Spiega
che «abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e
dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture
superiori o inferiori».
«L’arte dell’unità – spiega - esige e
richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze».
L’unità di chi si ascolta e si rispetta è «l’unica arma che abbiamo
contro la “deforestazione” della speranza». Francesco critica gli
«accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi». E chiede infine
di respingere la tentazione della violenza, perché «non si può chiedere
il riconoscimento annientando l’altro». «La violenza – dice – finisce
per rendere falsa la causa più giusta».