La Stampa 15.1.18
I paradossi nascosti nelle urne
di Bill Emmot
A
ogni appuntamento con il voto, c’è un crescendo di enfasi: politiche,
di partiti, di personalità. I sistemi elettorali in vigore negli Stati
Uniti, in Gran Bretagna o in Francia, dove chi vince conquista la
maggioranza assoluta, tendono a favorire le personalità, e solo in
seconda istanza i partiti, mentre quelli con rappresentanza
proporzionale, come in Germania o nei Paesi Bassi, favoriscono i partiti
e poi le politiche. La stranezza dell’Italia, nel 2018 come nelle
precedenti elezioni, è che, nonostante il sistema sia per lo più
proporzionale, le personalità con ogni evidenza predominano.
Questo,
da una prospettiva internazionale, a un osservatore non italiano appare
bizzarro. Ma qualsiasi lettore di un quotidiano italiano sa già che la
politica nell’Italia moderna è, ed è sempre stata, principalmente un
gioco di personalità, e che la logica della fedeltà al partito è buona
seconda e con grande distacco.
Tuttavia, il risvolto strano e
spiacevole di tutto questo, e che ogni analista, economista o
giornalista sa, è che ciò di cui il Paese ha bisogno per porre fine ai
suoi vent’anni di sottosviluppo economico rispetto ai vicini dell’Europa
occidentale è una politica migliore. Quindi sarebbe auspicabile vedere
una competizione volta a costruire il consenso, e di conseguenza le
coalizioni, attorno a politiche che servano a riformare l’Italia e a
cambiarla in meglio.
In una certa misura, è ciò che sta accadendo.
Ma mi pare ci siano tre grandi ostacoli: in primo luogo il grande
rumore mediatico generato dalle due personalità dominanti: Silvio
Berlusconi e Matteo Renzi; in secondo luogo l’associazione delle
politiche più innovative con un approccio euroscettico e conflittuale a
Berlino, Francoforte e Bruxelles; infine, il fatto che mentre le singole
politiche appaiono radicali e innovative, i partiti le accompagnano con
un incoerente pacchetto di altre iniziative che minano la loro
credibilità complessiva.
Prendiamo le due proposte politiche che,
da straniero, mi sembra abbiano un autentico potenziale per fare una
grande differenza per l’Italia nel lungo periodo. Una è l’imposta sul
reddito forfettaria, promossa dalla Lega Nord e ora adottata da tutto il
centrodestra. L’altra è la proposta dei Cinque stelle per un nuovo
«reddito minimo di dignità» rivolto a persone che necessitano di
riqualificazione e sostegno nella ricerca di nuovi posti di lavoro.
Penso
da anni che l’idea di un’imposta sul reddito semplificata con una sola
aliquota pagata da chiunque guadagni oltre un determinato importo, nota
come imposta forfettaria, si addica molto all’Italia. La battaglia
infinita del Paese contro l’evasione fiscale e l’enorme economia
illegale rendono una soluzione del genere piuttosto naturale.
L’incentivo
all’evasione fiscale dev’essere ridotto. La finzione della tassazione
progressiva in un contesto ad alto tasso di evasione deve finire.
L’attuale situazione, in cui un onere fiscale iniquo ricade sui
poveretti che non sono in grado di evadere le tasse - il che significa
milioni di semplici impiegati e salariati - è ingiusta e improduttiva.
Inoltre
il corollario logico e necessario alla riforma del diritto del lavoro,
il Jobs Act di Matteo Renzi, sarebbe un sistema di tutela contro la
disoccupazione in grado di aiutare i dipendenti che hanno perso il posto
a trovare un nuovo lavoro, come proposto dai Cinque Stelle. Questa
combinazione di nuove leggi sull’occupazione e aiuto per l’adeguamento
del lavoro è esattamente ciò che il presidente Emmanuel Macron ha
promesso durante la sua campagna elettorale in Francia l’anno scorso, e
che i Paesi scandinavi come la Danimarca utilizzano già con molto
successo.
Quindi, a prima vista, a questo non italiano sembra che
le opzioni politiche più pratiche e interessanti siano proposte da
partiti ampiamente considerati agli estremi della politica. Una vittoria
dei Cinque Stelle o della Lega Nord sarebbe considerata, soprattutto
dai mercati finanziari internazionali, come una ricetta per
l’instabilità. Il risultato «stabile» sarebbe una grande coalizione
centrista mediata da Berlusconi e Renzi.
Eppure una tale
«stabilità» implica che l’Italia continui ad avere performance
economiche insufficienti: anche oggi, con il più rapido tasso di
crescita economica del Paese dalla crisi finanziaria del 2008, l’Italia
sta crescendo più lentamente di qualsiasi altro Paese dell’eurozona a
parte la Grecia. Solo la Grecia e la Spagna hanno tassi di
disoccupazione più elevati rispetto all’Italia, e con una crescita
spagnola del 3% all’anno attualmente due volte quella italiana, a breve
il tasso di disoccupazione in Spagna, attualmente al 16,7%, potrebbe
scendere al di sotto di quello dell’Italia (11%).
Quindi l’Italia
ha bisogno di innovazione politica e di riforme. Il governo Renzi del
2014-2016 ha deluso perché, nonostante abbia annunciato a gran voce le
riforme, ha concluso troppo poco. Idee come la tassa forfettaria e il
reddito di cittadinanza sono logiche eredi degli scarsi risultati
ottenuti da Renzi con il Jobs Act, l’aiuto alle start-up e incentivi per
gli investimenti in tecnologia avanzata.
Lasciatevelo dire da
questo cittadino di un Paese come la Gran Bretagna che ha scelto la
Brexit: la via peggiore e più seducente è l’euroscetticismo. Sì, tanto i
Cinque Stelle come la Lega hanno attenuato le loro posizioni sull’euro.
Tuttavia, entrambi continuano a fare affidamento su questo presunto
potenziale per costringere la Germania e la Commissione europea a
allentare i vincoli sulla politica fiscale italiana; probabilmente non è
una strategia di successo, ma non è comunque sensato per un Paese con
un debito pubblico superiore al 130% del Pil e un sistema bancario
ancora vulnerabile. L’Italia ha bisogno di amici a Bruxelles, Berlino e
Francoforte, non di nemici.
E poi ci sono i pensionati. Berlusconi
sembra Trump quando parla di modificare la legge Fornero del 2012. Ma
questo è l’opposto di ciò che serve a un Paese che per le pensioni
pubbliche spende, in percentuale sul Pil, più soldi dei contribuenti (il
16%) di qualsiasi altra grande nazione europea, e cioè quattro volte di
più che per l’istruzione e la formazione. L’età pensionabile è troppo
bassa, non troppo alta: il 76% degli svedesi di età compresa tra i 55 e i
64 anni è in attività rispetto al 52% degli italiani (e al 51% dei
francesi).
Promettere una politica pensionistica così sconsiderata
e generosa significa minare la credibilità dell’imposta sul reddito
forfettaria; promettere uno scontro con Bruxelles sulla politica fiscale
significa minare la credibilità delle promesse di un’assistenza sociale
in stile scandinavo.
Tutto ciò ci riconduce al discorso sulle
personalità. Il sistema elettorale del Rosatellum offre un forte
vantaggio a chiunque sia in grado di formare coalizioni, sia prima del
voto per vincere in una gran parte dei collegi elettorali uninominali,
sia successivamente, a meno che un miracolo non doni la maggioranza
assoluta a un singolo partito o a una coalizione.
Ecco perché il
grande architetto di coalizioni, Silvio Berlusconi, è tornato al centro
della scena. Contrariamente a quanto i suoi giornali hanno scritto su di
me, lo considero ancora «inadatto» a guidare l’Italia come lo era nel
2001, quando noi di The Economist gli dedicammo la nostra famigerata
copertina. Ma probabilmente il 5 marzo avrà ancora un ruolo cruciale -
sfortunatamente.
Traduzione di Carla Reschia