giovedì 18 gennaio 2018

Il Fatto 18.1.18
Ai cileni la scusa papale sui pedofili non basta
“Vergogna” - Il mea culpa di Bergoglio non placa le critiche sui prelati scelti per gestire lo scandalo
di Guido Gazzoli


“Provo dolore e vergogna per il danno irreparabile causato ai bambini vittime di abusi sessuali da parte di componenti del clero cileno”, così nel discorso nella Sala degli Aranci nel palazzo presidenziale della Moneda, a Santiago del Cile, il Santo Padre ha toccato l’argomento che costituisce il problema più grave dell’operato della Chiesa in Cile. Nazione che, nell’ambito di un cattolicissimo continente latino-americano, costituisce una eccezione dato che si tratta del Paese con il minor numero di fedeli. Sebbene le parole di Bergoglio siano state seguite da un forte e spontaneo applauso, la situazione rimane difficile. E non solo perché contemporaneamente sia a Santiago che a Concepcion ci sono state manifestazioni contro la sua visita: la problematica esiste da tempo e, più che scuse e pentimenti, la gente si attende una condanna netta e un’espulsione dei responsabili dalla Chiesa. Sono circa 80 prelati e suore accusati di abusi sessuali, secondo i dati dell’organizzazione Bishop Accountability. A tutto ciò bisogna aggiungere che i laici della diocesi di Osorno chiedono da mesi la destituzione del vescovo Juan Barros che, nominato da Bergoglio, è accusato di legami e copertura degli abusi sessuali perpetrati dal sacerdote Fernando Karadima, accusato nel 2011 dal Vaticano dichiarato colpevole e solo condannato a una vita di preghiera e penitenza.
Ma i problemi per Bergoglio vengono anche dalla sua Argentina: quello che sembrava un pettegolezzo tanguero e una faccenda interna inizia a interessare la stampa internazionale, che si chiede come mai Papa Francesco, nonostante i quasi 5 anni di pontificato e le continue visite in America Latina, ancora non sia approdato nella sua patria. Sulla questione, che ha scatenato un mare di polemiche nella sua terra natale, si sono espressi diversi “amici” argentini del Papa spacciandosi come suoi portavoce e attribuendo il fatto a una antipatia di Bergoglio nei confronti del governo Macri, prontamente smentiti dalle autorità Vaticane. Però il tanto atteso messaggio profondo e interessante, promesso durante il sorvolo del territorio Argentino sulla rotta verso il Cile, si è poi rivelato un anonimo e diplomatico telegramma di saluto e nulla più, provocando una delusione cocente e particolarmente sentita in Argentina, che attende da troppo tempo un segnale chiaro e diretto sulle ragioni di questa mancanza, ma continua a non riceverlo.

La Stampa 18.1.18
Fra chiese bruciate ed elicotteri distrutti
il Papa prova a conquistare i mapuche
Sostegno alle rivendicazioni indigene: “Ma la violenza rende falsa la causa più giusta”
di Andrea Tornielli


«Francisco, amigo, el pueblo està contigo!». Centociquantamila persone abbracciano il Papa a Temuco, in Araucania, la regione degli indios Mapuche. Francesco ha lasciato la capitale Santiago per incontrare «l’altro Cile», ripetendo il gesto di Giovanni Paolo II nel 1987. Il Papa appoggia le rivendicazioni degli indigeni, invoca il rispetto dei loro diritti, prega per le vittime dell’ingiustizia. Ma chiede di ripudiare la violenza.
All’alba, poco prima dell’arrivo del Pontefice, nelle zone rurali diverse chiese sono state incendiate, sono stati dati alle fiamme tre elicotteri della forestale e un carabiniere è stato ferito da una pallottola. Gli autori degli attentati sono ignoti, ma è noto che ci sono piccoli gruppi che si stanno radicalizzando. Nelle stesse ore il portavoce mapuche del «Consejo de Todas las Tierras» Aucán Huilcamán dichiara: «Vogliamo attribuire al capo dello Stato del Vaticano e della Chiesa cattolica la responsabilità per il genocidio commesso nel sud del Cile e dell’Argentina, perché gli spagnoli hanno potuto contare con l’appoggio di questa Chiesa». «Speriamo che la visita del Papa possa portare la pace e che i Mapuche siano ascoltati dai cileni», auspica Rosa Namuncurá, leader mapuche dell’associazione «Lonco calfucura».
Qui, dove hanno vissuto nei primi del Novecento i premi Nobel, Gabriela Mistral e Pablo Neruda, più del 26 per cento della popolazione vive in povertà. I Mapuche - l’unico popolo aborigeno dell’America Latina che cresce numericamente - rivendicano la restituzione delle terre che il governo aveva confiscate dandole ai latifondisti. Per decenni la parola «mapuche» è stata usata in modo spregiativo, sinonimo di analfabeta per i cileni ricchi e colti. Dopo la fine della dittatura, nel 1993 la nuova «legge indigena» del governo democratico aveva stabilito indennizzi e restituzione delle terre, ma molte promesse sono rimaste sulla carta. Nel 2013, durante le proteste, alcuni sconosciuti hanno incendiato la casa di un vecchio imprenditore, Wemer Luchsinger che è morto nel rogo con la moglie Vivienne.
La celebrazione papale si svolge all’aerodromo Maquehue, luogo tristemente noto perché durante la dittatura di Pinochet qui venivano reclusi e torturati gli indios. Il popolo variopinto che accoglie Francesco ha già fatto la sua scelta non violenta. All’inizio della messa un gruppo di indios in abiti tradizionali prega e canta accompagnati dal suono di tamburi e corni.
Francesco indossa paramenti bordati di rosso con motivi dell’arta india e usa la lingua autoctona per iniziare l’omelia augurando «la pace sia con voi», «Küme tünngün ta niemün!». Saluta anche i rappresentanti degli altri popoli indigeni, Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama. Nell’omelia cita, tra gli applausi, la cantautrice e poetessa cilena Violeta Parra: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere». Ricorda che in questo aerodromo «si sono verificate gravi violazioni di diritti umani». Quindi chiede un minuto di silenzio per ricordare le vittime. Spiega che «abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori».
«L’arte dell’unità – spiega - esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze». L’unità di chi si ascolta e si rispetta è «l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza». Francesco critica gli «accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi». E chiede infine di respingere la tentazione della violenza, perché «non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro». «La violenza – dice – finisce per rendere falsa la causa più giusta».

La Stampa 18.1.18
Cina, la Rivoluzione culturale di Mao è scomparsa dai libri di scuola
Pechino approva una legge contro la diffamazione dei “martiri comunisti”


Che si tratti della carestia provocata dal Grande Balzo in Avanti, della guerra sino-giapponese o della tragedia della Tiananmen, la storia rimane uno dei temi politicamente più delicati per la leadership di Pechino. L’ultimo esempio è arrivato nei giorni scorsi, quando la Cina è stata accusata di aver rimaneggiato gli eventi della Rivoluzione Culturale in un libro di testo per le scuole medie. Stando alle immagini comparse sui social, un intero capitolo della prima versione del manuale era dedicato al movimento che sconvolse la Repubblica Popolare tra gli anni ’60 e ’70. Nella nuova edizione lo spazio era stato ridotto a pochi paragrafi. Per introdurre la Rivoluzione Culturale, la prima versione del libro recitava «Mao Zedong credeva erroneamente che la leadership centrale del Partito avesse un problema di revisionismo e che il paese si trovasse di fronte al rischio della restaurazione del capitalismo». Nella nuova edizione, la scelta del Grande Timoniere non era più accompagnata dall’avverbio «erroneamente» ed era sparito il riferimento al Partito Comunista. «Un paese che non riesce a fare i conti con il passato, non può avere un futuro luminoso», si notava su Weibo. Dopo giorni di dibattito, l’editore - la People’s Education Press del Ministero dell’Istruzione - chiariva che nel libro di testo che entrerà nelle aule a primavera, sarà spiegato «background, storia e traumi» degli anni tumultuosi della Rivoluzione Culturale. Un periodo di caos politico in cui Mao Zedong sfruttò l’entusiasmo e l’ingenuità delle Guardie Rosse - giovanissimi studenti del liceo e delle università - per riaffermare il proprio controllo sul Partito Comunista. «Ribellarsi è giusto» diceva il Grande Timoniere. Uno slogan che ebbe molta eco nelle università europee. Dal maggio 1966, in milioni furono messi alla gogna e patirono torture perché considerati «elementi di destra». Nella furia iconoclasta furono abbattuti i simboli della «decadenza borghese», rasi al suolo edifici storici, chiuse le università. Quando Mao capì che la situazione era andata fuori controllo e che le Guardie Rosse minacciavano anche il suo potere, mandò i giovani nelle campagne per «essere rieducati». L’economia uscì in ginocchio dalla Rivoluzione Culturale e si stima che i morti furono quasi due milioni. Anche figure di spicco della Cina caddero vittima di quegli eccessi. Tra loro, Deng Xiaoping e Xi Zhongxun, padre dell’attuale presidente cinese. La leadership di Pechino è consapevole che oltre ai successi economici, la legittimità del Partito Comunista poggia ancora sulla retorica romantico-rivoluzionaria della fondazione della Repubblica Popolare e della sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Appena assunta la leadership del Partito Comunista, Xi Jinping ha così messo in guardia dal «nichilismo storico». «Perché l’Unione Sovietica è collassata?», si chiedeva il leader cinese. «Perché ha rigettato il ruolo del Partito Comunista Sovietico, così come le figure di Lenin e Stalin», rispondeva Xi. La Cina ha così recentemente approvato una legge che punisce la diffamazione degli eroi e dei martiri comunisti. Una linea che punta anche a mantenere l’unità del Partito. Nel maggio 2016 – 50esimo anniversario della Rivoluzione Culturale – l’unico commento ufficiale è stato affidato a un editoriale del Quotidiano del Popolo. Dopo la morte del Grande Timoniere, la Rivoluzione Culturale è stata definita «una catastrofe», anche se Deng Xiaoping non ha voluto annerire troppo la sua eredità. Mao è stato accusato di essersi «gradualmente distaccato dalla realtà e dal popolo», ma le principali responsabilità per gli eccessi di quel decennio furono addossate alla Banda dei Quattro, una «piccola cricca controrivoluzionaria» guidata dalla moglie di Mao, Jiang Qing. All’inizio degli anni ’80, il giudizio storico su Mao Zedong è stato cristallizzato nella formula «70% giusto, 30% sbagliato». Una sottigliezza che ha consentito alla leadership cinese di preservare intatta la storia rivoluzionaria del Partito Comunista e l’eredità del fondatore della Repubblica Popolare. Anche per questo il ritratto del Grande Timoniere continua a incombere sull’ingresso della Città Proibita, nel cuore di Pechino.

La Stampa 18.1.18
L’educazione civica sarà portata nei penitenziari
di Dav. Les.


Portare la cultura e l’educazione civica negli istituti penitenziari italiani. È questo l’obiettivo dell’iniziativa promossa dalla Fondazione Nicola Irti che sarà presentata oggi a Roma nella sede dell’Accademia dei Lincei. Con la collaborazione del ministero della Giustizia e del Consiglio superiore della magistratura, la Fondazione ha lavorato a un programma annuale rivolto ai detenuti che spazia su più fronti: dallo studio della Costituzione alla tutela ambientale, passando per l’economia e l’educazione musicale. Il protocollo d’intesa parte da un principio costituzionale, quello per cui le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». «Ma la rieducazione - spiegano i firmatari - non consiste solo nell’apprendimento di un lavoro, ma anche nel ridestare la coscienza civile e culturale del condannato». Ecco perché si è deciso di dare inizio a questo programma didattico che sarà sperimentato negli istituti di Sulmona, Rebibbia e Regina Coeli. Alla presentazione di oggi con il presidente della fondazione Natalino Irti, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, saranno presenti il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi, l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte e i professori Massimo Cacciari e Tullio Gregory.

il manifesto 18.1.18
Niger arriviamo: sì della Camera alla nuova missione militare nel Sahel
di Leo Lancari


Tutto come previsto e del resto nessuno si aspettava sorprese dell’ultimo minuto. La risoluzione del governo che prolunga anche nel 2018 le missioni internazionali e ne vara tre nuove in Tunisia, Niger e e Repubblica Centrafricana ha avuto ieri lo scontato via libera da parte della Camera. Con il Pd hanno votato a favore anche Forza Italia, Fratelli d’Italia e Ap, contrari LeU e M5S mentre alla fine la Lega si è astenuta. «Da Afghanistan a Iraq, da Libano a Kosovo, da Libia a Niger forze armate e cooperazione italiana lavorano per la pace, lo sviluppo e la stabilità, contro il terrorismo e il traffico di esseri umani», ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
E’ previsto una riduzione dei contingenti oggi presenti in Iraq e Afghanistan mentre tra le novità più importanti c’è l’invio i Niger di iniziali 120 soldati (470 a regime) in Niger con attività di training delle forze di sicurezza nigerine. Tra le altre cose dovranno addestrarle nel controllo del confine con la Libia in modo da rendere sempre più difficile il passaggio delle carovane di migranti dirette in Europa.
L’area geografica interessata sarà quella di Niger, Mauritania, Nigeria e Benin. Verranno utilizzati 130 mezzi terrestri e due mezzi aerei per una spesa prevista di 30 milioni di euro fino al 30 settembre prossimo.
In Tunisia sono invece destinati 60 soldati in sostegno della missione Nato per lo sviluppo delle capacità delle Forze Armate del Paese e avranno il compito di rafforzare la capacita’ di pianificazione e condotta di operazioni interforze, in particolare nelle attività di controllo delle frontiere e di lotta al terrorismo. Per questa missione sono stati stanziati 4,91 milioni fino alla fine di settembre. Duro il commento espresso da Pax Christi: «L’arte di oggi è quella di fare le guerre e chiamarle missioni umanitarie», ha detto i coordinatore del movimento, don Renato Sacco. «Passano gli anni e sembra non cambiare nulla: il 17 gennaio 1991 la prima guerra del golfo e oggi 17 gennaio 2018 i militari in Niger. Lì ci sono in gioco grandi interessi, non possiamo pretendere di usare la scusa del terrorismo – ha proseguito don Sacco -. Lì c’è bisogno di maestri e non di militari».

il manifesto 18.1.18
Niger, missione nell’urna
di Tommaso Di Francesco


A legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro».
Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo» nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista «costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo.
Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli – sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo – con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione «le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo.
E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara.
Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.
Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.).
Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni.
In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra.
Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti.
Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq?
Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia».
Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi.
Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale».
La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati.
Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale.
Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante.

Repubblica 18.1.18
Caldo, sabbia e terroristi in Niger missione ad alto rischio
La Camera dà via libera ai militari italiani: faranno formazione ma anche sorveglianza Le incognite maggiori sono le condizioni climatiche estreme e la presenza dei jihadisti
di Gianluca Di Feo


Roma «Nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra… » . Nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini. E adesso che la missione italiana in Niger ha ottenuto il voto della Camera è bene non dimenticare questo avvertimento. La parola guerra non fa paura ai nostri militari: è dallo sbarco a Mogadiscio del 1993 che vanno nei posti più pericolosi del pianeta. In un quarto di secolo si sono guadagnati sul campo il rispetto di alleati e avversari. Ma negli atti ufficiali tutte le operazioni continuano a restare sempre avvolte nell’ambiguità.
Sia ben chiaro: l’Italia non ha disegni bellici né coloniali, che d’altronde non si potrebbero realizzare con un contingente di 470 fanti in un Paese di oltre un milione di chilometri quadrati. E non c’è neppure l’intenzione di accodarci a Parigi: la nostra missione sarà autonoma. Tutti i ministri hanno però sottolineato come in Niger ci occuperemo solo di formare le forze locali, mentre nella relazione al Parlamento si cita anche un altro compito: «Concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio » . Ossia agire in armi per fermare trafficanti e terroristi. Negli scorsi anni i francesi si sono concentrati solo sulla seconda minaccia, che è sempre più forte: l’offensiva jihadista sta aumentando nelle regioni a cavallo del confine tra Mali e Algeria, con altri fuochi in prossimità della Nigeria infestata da Boko Haram. Noi però andremo altrove. Alle porte della capitale Niamey, per fare scuola alle reclute nigerine. E a Madama, l’ultimo fortino della Legione Straniera nel deserto prima di arrivare in Libia, crocevia di ogni traffico e della strada percorsa da mezzo milione di migranti. Anche i terroristi passano da quella rotta, cercando di evitare i controlli: gli serve per trasferire uomini e armi in Libia, sfruttando depositi di benzina nascosti tra le dune e rifugi nelle caverne a ridosso dell’Algeria. I francesi li hanno presi di mira con pochi raid di parà, lanciati di notte contro questi presidi. I piani della spedizione italiana non sono stati dettagliati, ma è difficile che i nostri incursori rinuncino a questa “ attività di sorveglianza del territorio”. La stessa che la Task Force 45 tricolore ha condotto nel segreto totale in Afghanistan per sei anni, catturando o uccidendo leader e artificieri dei Taliban in azioni ad alto rischio.
L’incognita maggiore sono le condizioni climatiche, veramente estreme: ad aprile si superano sempre i 40 gradi. Il caldo infernale non spaventa i soldati italiani. A Nassiriya si andava in pattuglia per otto ore con il termometro a 50 gradi: uomini e donne partivano chiusi in blindati senza climatizzazione, con addosso giubbotti antiproiettile pesanti 8 chili e un fucile da 4 chili. Bisognava bere 7 litri di acqua al giorno per evitare la disidratazione. Il record risale però al Mozambico: nel 1993 gli alpini, piemontesi e aostani di leva, rimasero in servizio per un mese a 60 gradi. Li guidava Claudio Graziano, oggi comandante in capo delle Forze armate che ha insistito per migliorare gli equipaggiamenti: peso dimezzato, aria condizionata sui veicoli, gli strumenti che permettono di agire nell’afa di Mosul. Ma nel deserto rosso del Niger è più pericolosa la sabbia, che limita le prestazioni dei motori e soprattutto degli elicotteri. Ostacoli che vengono studiati da tempo e saranno risolti con hangar gonfiabili per la manutenzione, già sperimentati in Iraq.
Sul terreno, il contingente italiano dovrà coordinarsi con i francesi, con gli americani – che lì hanno appena ottenuto il permesso di usare droni dotati di missili – e nel futuro con altre truppe europee. La crescente presenza straniera comincia ad essere accolta con diffidenza, un malcontento cavalcato dall’opposizione, anche quella di matrice islamica. A fine ottobre la capitale Niamey è stata scossa dalle proteste contro le misure economiche del governo, accusato di pensare solo ai ricchi, senza che gli aiuti internazionali raggiungano la popolazione.
La vera sfida è questa. Non solo limitare le carovane di migranti, che nell’ultimo anno si sono già drasticamente ridotte, e combattere il terrorismo: l’obiettivo principale presentato dal premier è quello di creare le condizioni per lo sviluppo della regione, con un grande piano di investimenti, distribuiti a pioggia e non incamerati dalla cleptocrazia locale. Un disegno molto più ambizioso, complesso e costoso dell’invio di un battaglione. Si tratta di un impegno che si può realizzare soltanto con un accordo europeo: quello che è stato raggiunto da Gentiloni con Macron e Merkel, ottenendo le risorse dalla Ue. E che starà al prossimo governo portare avanti.

Corriere 18.1.18
L’intervista Massimo D’Alema
«Che succede il 5 marzo? Un governo del presidente. E al Pd vorrei dire: non facciamoci del male»
di Aldo Cazzullo


L’ex premier: creiamo le condizioni per un dialogo futuro
D’ Alema, Grasso le chiede un passo di lato.
«Sono estremamente laterale. Faccio campagna in uno dei collegi uninominali più laterali del Paese, il Basso Salento, che fa parte di una collegio proporzionale considerato perdente. Ciò avviene su indicazione unanime dell’assemblea regionale dei militanti e dei simpatizzanti. Quindi, sono un candidato locale. Non partecipo a negoziati per posti sicuri. Do una mano».
Quanto prenderete voi di Liberi e uguali?
«Per abitudine e per cultura parto da una valutazione su cosa potrà accadere all’Italia dopo una campagna elettorale devastante, anche a causa di una legge che ha tutti i difetti di un falso maggioritario e tutti i difetti di un proporzionale senza libertà di scelta. Non comportando vincoli né sulla leadership né sul programma, favorisce confuse ammucchiate; e spinge anche i partiti che si mettono insieme a litigare tra loro».
Voi non vi siete messi insieme al Pd. Perché?
«Siamo persone serie. Non ci sono le condizioni politiche e programmatiche. Noi non partecipiamo ad ammucchiate. Le ragioni di dissenso sono molte, inclusa la legge elettorale di cui porta una grave responsabilità il gruppo dirigente del Partito democratico, e il governo Gentiloni che ha messo 5 volte la fiducia. L’unica iniziativa seriamente unitaria l’abbiamo presa noi e l’ha cancellata il Pd».
Quale?
«Speranza propose il voto disgiunto: per consentire agli elettori di valutare distintamente il candidato del collegio uninominale e quelli del proporzionale; e permettere desistenze per ridurre il conflitto dentro la sinistra. Ci fu sbattuta la porta in faccia con un’arroganza irresponsabile. Quello era il momento degli appelli; ma non ne ricordo. Fummo bombardati come se fossimo un gruppo di matti. Pur di danneggiare i 5 Stelle e schiacciare noi, il Pd ha danneggiato se stesso e favorito la destra. Per colpa di quella scelta scellerata, non possiamo che presentare candidati in tutti i collegi».
Con l’unico obiettivo di far perdere Renzi.
«Per far perdere Renzi non era necessario fare un partito; bastava lasciarlo fare da solo. Il Pd ha perso tutte le elezioni, con noi o senza di noi, da Roma a Torino a Genova. Noi non nasciamo per provocare la sconfitta che c’è già stata, ma come conseguenza della sconfitta; con l’obiettivo di riconquistare un pezzo dell’elettorato che non vota, o vota 5 Stelle, o persino Lega. Consiglierei al Pd di adottare una certa prudenza, anziché continuare ad attaccarci».
Perché non dovrebbe?
«Perché attaccare noi non porta voti a loro, ma ai 5 Stelle. L’uso strumentale del voto utile per schiacciarci non funziona, ed è controproducente. Com’è accaduto in Sicilia, dove il candidato dem ha preso l’8% in meno delle liste che lo sostenevano: molti, convinti dal Pd della necessità del voto utile, hanno votato 5 Stelle o destra. La competizione maggioritaria in gran parte del Paese avrà questi due protagonisti. Il gruppo dirigente del Pd colleziona autogol: tra la legge elettorale, la commissione sulle banche, la campagna per il voto utile, dà l’impressione di una certa mancanza di saggezza. Vorrei dire loro: non facciamoci del male; creiamo le condizioni per un dialogo futuro. Dopo il 4 marzo, viene il 5 marzo. Il Pd dovrebbe semmai dedicare la sua campagna a contrastare la destra».
Non lo sta facendo?
«Mi ha colpito che sia Berlusconi sia Renzi, facendosi eco come spesso accade, abbiano presentato le elezioni come uno scontro tra loro e i 5 Stelle, ognuno rivendicando il ruolo di argine al populismo. Dicono le stesse cose, ma Berlusconi è più credibile: la destra è oltre il 35%, il Pd al 23; se si deve creare un bipolarismo, è più fondato che lo possa dire Berlusconi piuttosto che Renzi. Il leader di quello che è stato il maggior partito di centrosinistra dovrebbe preoccuparsi di una destra aggressiva come non mai. La Lega di Salvini non è la Lega di Bossi, che manteneva una venatura popolare. Non dimentico che Bossi sfidò i fischi per venire in piazza il 25 aprile...».
La Lega «costola della sinistra».
«Lo dissi come motivo di allarme, citando una ricerca della Fiom secondo cui in alcune province lombarde la maggioranza degli iscritti votava Lega; venne tradotto come se avessi detto che la Lega era di sinistra. Le fake news erano già state inventate. Del resto, quasi tutte le frasi celebri che mi vengono attribuite sono forzature o invenzioni. È una demonizzazione costruita a tavolino. Ma non mi dispiace: c’è gente che pensa che io sia cattivo, mentre in passato sono stato semmai ingenuo; ma così mi rispetta di più».
Salvini, allora?
«La sua Lega ha venature di estremismo di destra di tipo neofascista. Tra la difesa della razza e la riapertura dei bordelli, il programma pare il ritorno agli anni 30. Mi pare curioso, di fronte a questo, sostenere che il pericolo siano i 5 Stelle».
Qual è il vostro rapporto con loro? La Boldrini esclude accordi, Grasso no.
«Io non li demonizzo, ma non li ritengo in grado di governare il Paese. Considero il dibattito sulle alleanze del tutto inutile. È evidente che nell’indicazione comune di Berlusconi e Renzi a guardare ai 5 Stelle come nemico principale emerge un disegno politico».
Le larghe intese?
«Il mio amico Padoan, che ha grande cultura economica ma poca esperienza politica, lo ha candidamente riconosciuto. Gli do atto della sua sincerità. Anche le tecnocrazie europee spingono in questa direzione: come se Berlusconi fosse la Merkel e il Pd fosse l’Spd».
Lei mi pare meno entusiasta.
«La considero un’idea disastrosa e velleitaria. Non credo che Pd e Berlusconi avranno i numeri, e il sistema elettorale rende difficile a Forza Italia sganciarsi dalla Lega».
Cosa succederà il 5 marzo?
«La classe dirigente ha il dovere di dire la verità al Paese: questa legge è congegnata perché nessuno abbia la maggioranza. Occorrerà lo sforzo di garantire una ragionevole governabilità, mentre il Parlamento avrà un compito costituente, a cominciare da una nuova legge elettorale. Il Paese pagherà un prezzo alto al fallimento del renzismo, al modo disastroso, superficiale e arrogante con cui ha affrontato questioni delicatissime come le riforme».
Un governo del presidente?
«Per forza: una convergenza di tanti partiti diversi attorno a obiettivi molto limitati. E noi, che siamo una forza radicata nei valori democratici della Costituzione della solidarietà, dell’uguaglianza, del lavoro, daremo il nostro contributo, ponendo discriminanti di carattere programmatico per noi irrinunciabili».
Quali?
«Ci sono enormi istanze sociali non rappresentate. Sono cresciute le disuguaglianze, i frutti della ripresa vanno a pochi. La tragedia di Milano ci ricorda il tema drammatico della tutela della sicurezza dei lavoratori. Le scelte del governo Renzi volte a ridurre la forza contrattuale dei lavoratori li hanno indeboliti anche su questo fronte. Per un lavoratore che può essere licenziato senza giusta causa è più difficile alzare la voce per difendersi».
Il Jobs act è pensato anche per ridurre la precarietà.
«E ha fallito. Ha creato lavoro precario e sottopagato. Serve un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori».
Lei nel Salento, Bassolino a Napoli, Bersani in Emilia, Errani in Romagna, Zanonato a Padova: siete un partito di anziani notabili?
«Vedremo chi sarà candidato. Che ci siano alcune personalità storiche della sinistra mi pare opportuno. Nel Pd non c’è la meglio gioventù, anche il mio amico Fassino ha la sua storia. La grande maggioranza dei nostri candidati saranno giovani o comunque nuovi alla politica. Né Grasso, né la Boldrini sono esempi della politica tradizionale. Come non lo sono l’ex presidente di Legambiente Rossella Muroni, il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, la promotrice dei Comitati del No Anna Falcone. A Foggia candidiamo una direttrice d’orchestra».
A Genova c’è Cofferati, con cui in passato lei ha molto discusso.
«Ho sempre avuto rispetto per lui. Nella storia del movimento operaio italiano Sergio Cofferati ha lasciato un’impronta più marcata di Bonifazi o Lotti; con cui non saprei di cosa discutere».
Che leader è Grasso?
«È se stesso: una persona seria. Certo è più difficile conquistare la scena, se uno non partecipa a questa grottesca gara a chi la spara più grossa, cui sono impegnati a pari titolo il grande maestro Berlusconi e il suo giovane allievo Renzi. Tra poco li sentiremo promettere come Lucio Dalla che sarà tre volte Natale. Ma se il Paese ha bisogno di onestà, di legalità e di giustizia sociale, questi valori Grasso non li dichiara, li incarna; e questo fa di lui un leader».
Quanto prendete allora?
«Non mettiamo limiti alla divina provvidenza. Credo poco ai sondaggi che si fanno senza candidati, soprattutto nel Sud. Una forza politica deve muoversi con ambizione. Fin dall’inizio ho detto che l’obiettivo è arrivare a due cifre. Se si parte con pochi candidati sicuri di vincere e molti sicuri di perdere, si demotivano gli uni e gli altri. Servono tanti candidati incerti, pronti a battersi. Io sarò uno di loro».

il manifesto 18.1.18
Il Pd erede del partito azienda
di Alfio Mastropaolo


A leggere le cronache della campagna elettorale il fondamentale problema del paese pare sia un possibile successo del Movimento 5 Stelle. Ben più attenzione, e preoccupazione, meriterebbero tre episodi che hanno testé interessato la nostra vita pubblica. L’ultimo, in ordine di tempo, è una dichiarazione dell’ingegner De Benedetti, che, ascoltato dalla Consob in tema di insider trading, si sarebbe con orgoglio autodefinito: «L’ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia», in grado perciò di dare del «cazzone» a Matteo Renzi. Qualche giorno prima era giunta notizia che De Benedetti e Renzi si erano intrattenuti a palazzo Chigi, in presenza di un alto funzionario di Bankitalia, sulla prevista riforma delle banche popolari. A seguito dell’incontro, De Benedetti avrebbe effettuato un cospicuo e lucroso investimento borsistico sulle banche popolari.
Un secondo episodio è non già la richiesta di proroga delle indagini sul caso Consip avanzata dalla procura di Roma, ma un fatto citato nella richiesta: una cena in cui il comandante della legione Toscana dell’arma dei Carabinieri si sarebbe ritrovato col Renzi padre, consigliandogli chi era opportuno incontrare. Quante volte al mondo è successo che il papà del capo del governo andasse a cena con un alto ufficiale e trattasse simili argomenti?
Del terzo episodio non mette neanche conto parlare. È la vicenda Boschi. Banca Etruria: un membro del governo, senza alcuna cautela, ha attivamente intrigato a beneficio di una banca in cui sono coinvolti padre e fratello.
Che si tratti o meno di casi di corruzione spetta dirlo ai magistrati. Ma sono tutte inequivocabili prove del drammatico degrado della vita pubblica. Per molto tempo osservatori assai qualificati hanno segnalato la trasformazione di quest’ultima usando la formula del partito «personale»: inventato da Berlusconi, esasperando la tendenza alla personalizzazione della contesa politica, a sua volta favorita dai media. Nel partito personale il leader si fabbrica il partito a sua misura. In realtà, il tratto più originale del caso Berlusconi non è questo. Sta nel fatto che un grande imprenditore ha massicciamente investito risorse private nella contesa politica ricavandone a un tempo profitti politici e profitti privati. Detto altrimenti: Berlusconi ha inaugurato il partito-impresa, che opera trasversalmente tra politica e mercato.
Pareva un’anomalia legata alla biografia di Berlusconi. Gli episodi prima citati dimostrano invece che il Pd forse è divenuto un partito personale, ma ha di sicuro perfezionato il partito-impresa, volto contemporaneamente a condurre affari privati e a vincere le elezioni.
La tendenza si conferma osservando la sfera locale. L’imperativo gestionale che stringe alla gola gli amministratori, l’esigenza di gestire con profitto spazi urbani, servizi pubblici, servizi sociali, ha favorito l’insorgere di una miriade di partiti-impresa locali, che poi, secondo contingenti convenienze, si raccordano ai partiti nazionali. Per chi voglia approfondire l’argomento si segnala un numero recente (2017) della rivista Meridiana dedicato a Mafia capitale. Sono tutte vistose trasgressioni a un principio fondamentale per i regimi democratici, a suo tempo sottolineato da Michael Walzer: risorse politiche e risorse economiche non vanno cumulate.
Torniamo così, se è permesso, ai 5 Stelle. I quali non sono il maggior problema del paese, ma semmai l’anticorpo, mediocre, che il paese è riuscito a secernere. L’anticorpo ha una genealogia. L’idea del «partito degli onesti» la ebbero nel 1991 Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa. Malgrado il promettente decollo, l’iniziativa finì male. Ci ha riprovato Di Pietro nel 1998 con Italia dei valori. È andata peggio. Ci si è messo infine Grillo, miscelando, un po’ a casaccio, tre ingredienti: l’irrisione, che è antica e illustre tecnica di resistenza al potere; il rinnovamento senza compromessi del personale politico; l’esoterismo, affidato a Casaleggio, che in tempi di crisi ha sempre successo.
La miscela è indigesta e democraticamente discutibile. Le amministrazioni a 5 Stelle danno prova di considerevole dilettantismo e sconcertante arroganza. Tocca però riconoscere che i grandi media e gli altri partiti conducono contro di loro una guerra senza quartiere e che esse hanno ereditato situazioni difficilissime. Quella di Roma è arcinota, ma anche attribuire ad Appendino la responsabilità di quella torinese è poco credibile. Gli elettori perciò non ci cascano e i sondaggi danno 5 Stelle col vento in poppa. A pagar pegno è soprattutto il Pd.
L’impresa Berlusconi-Salvini sta radunando la destra appellandosi agli umori più torbidi che allignano nel paese. Per contro, il partito-impresa Renzi-De Benedetti sta creando gravi sofferenze al suo elettorato, che in tema di moralità pubblica è piuttosto esigente. Ed è inutile provarsi a rassicurarlo additandogli l’incompetenza di Di Maio. Anche in materia, alla luce dell’esperienza dei governi Renzi e Gentiloni, il pulpito donde viene la predica ha poco di cui predicare

La Stampa 18.1.18
I diciottenni rifiutano le urne: a uno su due non interessa la politica
Il sondaggio: Pd primo partito tra i neomaggiorenni, bene anche i Cinque Stelle I valori che i ragazzi cercano nei candidati? L’onestà e la vicinanza ai cittadini
di Nicola Piepoli


Quest’anno, per la prima volta, voteranno i ragazzi che sono nati nel nuovo millennio. Cosa voteranno? Come si pongono rispetto alla politica? Ne sono attratti, non lo sono, e perché? Cosa potrebbe portare, coloro che sono poco interessati al mondo della politica, più vicino alla vita civile e politica?
Procediamo con ordine.
I 18enni risultano essere lievemente meno interessati alla politica rispetto all’opinione pubblica in generale: poco meno della metà dei ragazzi si dichiara interessato alla politica, contro quasi 3 italiani su 5 appartenenti alle altre età.
Attratti dalla politica
Quali sono dunque le motivazioni che avvicinano o allontanano i ragazzi dalla politica?
La motivazione principale che tiene i ragazzi, più che gli italiani nel loro complesso, vicini al mondo politico è la volontà di essere informati sulle questioni della politica. Il dovere civico e la scelta del partito o del candidato da votare sono invece due motivazioni importanti ma che non differenziano i 18enni dal resto della popolazione elettorale.
Poco attratti
Coloro che si dichiarano poco interessati alla politica, sia a livello del totale del campione, sia tra i giovani, hanno poca fiducia nei partiti e soprattutto nei politici, perché ritengono, in maniera stereotipata, che questi facciano soltanto i loro interessi e non quelli della popolazione nel suo complesso.
In particolare va notato che la corruzione del mondo politico è molto più presente nelle menti dei ragazzi che in quelle dell’opinione pubblica in generale.
Cosa potrebbe allora, partendo da queste motivazioni, avvicinare i ragazzi alla politica? Innanzitutto l’onestà, oltre ovviamente una maggior attenzione ai problemi dei cittadini. Per i giovani inoltre servono politici più competenti che utilizzino un linguaggio simile a quello dei giovani, cioè più chiaro e diretto.
In generale, per 6 italiani su 10, la possibilità di esprimere il proprio voto permette innanzitutto di manifestare la propria fiducia verso un partito o un candidato: la volontà di protestare risulta, in generale, in secondo piano nella vita civile degli italiani. Più della metà dei 18enni e quasi 7 italiani su 10 affermano infatti di non aver partecipato, negli ultimi due anni, a nessuna manifestazione sindacale, politica o di protesta.
Le intenzioni di voto
In definitiva cosa votano i ragazzi? Ci sono delle differenze rispetto agli italiani nel loro complesso? Ebbene i ragazzi tendono a puntare maggiormente sul centro sinistra, in particolare sul Pd, più del totale dell’opinione pubblica. Così come puntano maggiormente sul Movimento 5 Stelle, mentre il centro destra nel suo complesso non supera il 32%, cioè nettamente più basso rispetto al resto dell’elettorato.
Personaggi in vista
E i leader politici?
Come ogni settimana abbiamo testato la loro attrattività e qui vediamo se ci sono stati cambiamenti rispetto alla precedente di gennaio. Nell’insieme si tratta di modifiche marginali: il «rimo della classe» è sempre Luigi Di Maio che sale di un punto rispetto alla rilevazione precedente. Il secondo in classifica è Matteo Salvini, inseguito dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Quarto risulta il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, inseguito a sua volta, a qualche punto di distanza, da Giorgia Meloni.

Corriere 18.1.18
Ormai la bassa partecipazione è diventata una patologia
di Massimo Franco


L’ombra dell’astensionismo grava sul voto del 4 marzo come un presagio di ulteriore instabilità. Più la campagna elettorale si incanaglisce, più cresce il timore che una parte dei votanti possa decidere, delusa, di non andare alle urne. Il problema, ormai, non è la percentuale che prenderanno i singoli partiti. Semmai, è quanto l’astensione potrà modificare e distorcere i risultati. I casi recenti della Sicilia e di Ostia sono stati ulteriori avvisaglie dell’incapacità delle forze politiche di attrarre gli elettori. Da questo punto di vista, nemmeno il Movimento 5 Stelle si è mostrato capace di invertire questa dinamica. E le incognite si accumulano.
Le tesi che circolavano fino a qualche anno fa, secondo le quali un abbassamento del numero dei votanti era l’adattamento fisiologico alla partecipazione nelle democrazie anglosassoni, si sono rivelate fuorvianti. La rapidità e le proporzioni del crollo hanno assunto contorni patologici. E costringono a osservare la realtà con maggiore consapevolezza. L’unico dato incoraggiante, in termini di partecipazione, è quello al referendum costituzionale del 4 dicembre del 2016. Non sorprende, dunque, che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, additi il pericolo di un «impoverimento della democrazia».
Ma nell’appello a esercitare il diritto di voto si avverte anche il timore che l’astensionismo rifletta qualcosa di più profondo della delusione verso i partiti. Diventa il simbolo di una società slabbrata e conflittuale. E può aprire la strada a quanti alimentano questo malessere per costruire il proprio successo. Limitare il fenomeno al Movimento 5 Stelle sarebbe riduttivo. La deriva viene da molto più lontano. Ma quanto l’irruzione di Beppe Grillo e della Rete abbia cambiato le coordinate si coglie nel modo in cui Silvio Berlusconi si erge a difensore dell’Europa contro di loro. Eppure è il premier e capo del centrodestra che nel 2011 fu affondato dai contrasti con Bruxelles.
Berlusconi sembra dar ragione al commissario Pierre Moscovici che ha evocato un’Italia a rischio instabilità, con un attaco controverso a Lega e M5S. «È naturale che l’Ue guardi con preoccupazione a ciò che succederà in Italia», dice Berlusconi. «Se cadesse in mano a una forza populista come il M5S, rischieremmo di restare isolati». Il leader di FI glissa pudicamente sui giudizi di Moscovici contro la xenofobia dei leghisti, suoi alleati. Si capisce che vuole sottolineare la pericolosità dei Cinque Stelle e del non voto. «Sono disgustato anche io da quanto è successo. Ma il rimedio non è votare M5S».
Per Berlusconi, un astensionismo alto porterebbe di rimbalzo a un aumento delle percentuali grilline; e renderebbe difficile un governo ben accolto in Europa. Lo schema berlusconiano segnala peraltro una novità. Finora, i seguaci di Grillo erano considerati un argine, se non un antidoto all’astensionismo. Si sono vantati di avere incanalato una protesta che altrimenti poteva diventare eversione. Ora, invece, il non voto di centrodestra e centrosinistra è visto da Berlusconi come propellente del grillismo. Visione oggettivamente amara, perché ha il sapore di un’involontaria autocritica.

Corriere 18.1.18
Woodcock e Sciarelli, nessun reato


N essuna rivelazione del segreto di ufficio, nessun falso. Il gip di Roma Alessandra Boffi ha archiviato, così come chiesto dalla Procura nell’ottobre scorso, le posizioni del pm di Napoli, Henry John Woodcock e della giornalista di Rai Tre, Federica Sciarelli. I due erano finiti nel registro degli indagati in uno dei filoni della maxinchiesta sul caso Consip. L’iscrizione del magistrato e della giornalista nel registro degli indagati era legata alla pubblicazione nel dicembre del 2016 su Il Fatto Quotidiano , di un articolo riguardante la fuga di notizie attraverso la quale i vertici di Consip sarebbero venuti a conoscenza dell’inchiesta avviata dai pm napoletani, prima che fosse trasferita a Roma per competenza territoriale.

Il Fatto 18.1.18
Solitudine, un ministero per 9 milioni di inglesi tristi
di Sa. Pro.


Almeno qui ne prendono atto: la solitudine di massa è, sempre più, un problema politico e sociale delle società contemporanee. Nel Regno Unito le persone, giovani e anziane, con gravi problemi di isolamento sono, secondo la Croce Rossa Britannica, circa 9 milioni, due dei quali oltre i 75 anni. Da ieri ad occuparsi di loro c’è un sottosegretario dedicato, il primo, ma forse non l’ultimo, “Ministro della Solitudine” al mondo.
È Tracey Crouch, 42 anni, parlamentare conservatrice, già sottosegretario allo Sport e Società civile, che ha già parlato di “sfida generazionale”.
“Per troppe persone, la solitudine è una triste realtà della vita moderna – ha dichiarato ieri Theresa May – voglio affrontare questa sfida e agire contro la solitudine sopportata in particolare dagli anziani e da chi ha perso i propri cari ”.
La nomina segue la pubblicazione di un report della Jo Cox Commission, creata dalla giovane deputata del Partito Laburista uccisa da un estremista di destra subito prima del referendum su Brexit, il 16 giugno 2016. Una morte che aveva scosso il paese, specie quando erano emersi la generosità e l’impegno politico della Cox. Ieri, il governo le ha reso omaggio rendendo concreto un progetto a cui lei si era dedicata, dichiarando: “Non intendo vivere in un paese dove migliaia di persone vivono sole, dimenticate da tutti noi”.
Il neo sottosegretario lavorerà con la commissione Cox, con charities e privati per mettere a punto una strategia governativa, grazie anche alla creazione di un fondo di diversi milioni di sterline.
Iniziativa incoraggiante, che lascia però margini di polemica. La solitudine si contrasta anche con attività e centri di ritrovo locali, come librerie e luoghi per anziani. Tutti pesantemente toccati dai tagli imposti dagli ultimi governi conservatori.

Repubblica 18.1.18
Stili di vita
Niente amici né parenti
La solitudine al potere per aiutare i single
di Enrico Franceschini


LONDRA Sembra un progetto uscito dal realismo magico dei romanzi di Garcia Marquez, invece è maturato fra i burocrati di Downing street: ma anche i politici, ogni tanto, hanno idee poetiche. Il primo ministro Theresa May ha nominato ieri un “ministro della Solitudine”. Tracey Crouch, 42enne deputata conservatrice, avrà l’incarico di affrontare quella che il governo definisce “una piaga nazionale”: l’amaro regno dei “single”, intesi non soltanto come persone non sposate ma come uomini e donne disperatamente soli.
Un problema non certo soltanto britannico: nell’era in cui quasi tutti vantano centinaia o migliaia di “amici” sui social media, sempre più gente non ha compagnia sufficiente nella vita di tutti i giorni. E il fenomeno non ha conseguenze solamente sull’umore: dalla depressione a disturbi di ogni tipo è anche una questione di salute pubblica, causa di malattie che pesano sul bilancio dello stato.
L’iniziativa, riconosce la premier dei Tories, viene da una proposta di Jo Cox, la deputata laburista assassinata un anno e mezzo fa da un fanatico di estrema destra alla vigilia del referendum sulla Brexit, fra le prime a occuparsi della solitudine come di un’epidemia sociale.
Le cifre dicono che nel Regno Unito 9 milioni di persone vivono “in forte stato di isolamento”, ovvero con scarsi e rari contatti interpersonali; 2 milioni di persone abitano sole; 200 mila – per lo più anziani – passano settimane senza vedere nessuno.
L’Office for National Statistics ha altri dati illuminanti: in Inghilterra e Galles il 51 per cento della popolazione si definiva “single”, il che non significa necessariamente senza un partner ma soltanto non coniugato. È comunque la prima volta, da quando esiste il censimento, che i “single” superano gli sposati. E in tutto il Paese, dunque comprendendo anche Scozia e Irlanda del Nord, su 26 milioni e mezzo di abitazioni, il 28 per cento contiene soltanto un inquilino. “Se avete paura della solitudine, non sposatevi”, ammoniva Oscar Wilde: ma è comunque il quadro di una nazione cambiata, dove si passa sempre più tempo da soli.
In Italia la situazione è analoga, come riflette il rapporto Istat 2017: i “single”, ovvero coloro che vivono da singoli, sono ormai un terzo del totale dei nuclei familiari, con pochi bambini che nascono e un numero in continua ascesa di vecchi.
La neo-ministra Crouch ha ricevuto carta bianca per formulare in tempi rapidi una strategia d’azione. Ma la prima reazione del Labour è accusare i conservatori di avere contribuito loro stessi ad accrescere la solitudine nazionale, con tagli alla spesa pubblica che hanno portato alla chiusura di biblioteche e centri sociali.
Può sembrare curioso che siano proprio i Tories a voler farsi carico di simili malesseri.
David Cameron, predecessore di Theresa May, aveva indetto un “indice della felicità”, sostenendo che non basta conoscere il reddito medio, bisogna anche sapere se i cittadini sono felici. Ora la sua erede si preoccupa che non soffrano di solitudine.
In realtà l’uno e l’altra, con la loro politica di austerity, hanno certamente fatto aumentare gli infelici e gli isolati: viene il sospetto che Cameron e May si diano da fare perché hanno la coda di paglia.
“I tagli al budget e la chiusura di biblioteche o centri sociali influiscono”, ammette la ministra della Solitudine, “ma il problema dipende da tanti fattori, non esiste un’unica soluzione”. E questo è vero. C’è da augurarle che, ministro senza un ministero alle spalle, nella sua impresa non finisca per sentirsi troppo sola.


il manifesto 18.1.18
Nell’era della postverità
Codici aperti. Il teorico del diritto statunitense Cass R. Sunstein e il filosofo italiano Maurizio Ferraris, nei loro rispettivi libri, si interrogano su fake news, produzione di informazione e opinione pubblica. E soprattutto, sull'esercizio della democrazia al tempo dei social media
di Benedetto Vecchi


Le fake news non sono solo falsità, bensì il simbolo di trasformazioni ben più rilevanti nella formazione dell’opinione pubblica e nel modo di produzione dell’informazione.
A sostenere questo invito a studiare con attenzione la diffusione seriale e virale delle «bufale» sono due filosofi che operano in contesti economici, politici e culturali diversi, ma con molti punti in comune. Sono il teorico del diritto statunitense Cass R. Sunstein e il filosofo italiano Maurizio Ferraris.
Cass R. Sunstein è un liberal che ha collaborato a lungo con Barack Obama; negli ultimi dieci anni, ha concentrato la sua attenzione sugli effetti non sempre positivi della comunicazione on line e dei social media nell’esercizio della democrazia politica.
Per il giurista statunitense, la Rete consente sì ai singoli di prendere la parola e di esprimere il proprio punto di vista rivolgendosi a un pubblico indifferenziato e potenzialmente di massa senza passare attraverso la «mediazione» di tv, radio e carta stampata, ma questo non coincide quasi mai con la formazione di una opinione pubblica informata capace di discernere il vero dal falso.
Allo stesso tempo, la comunicazione dei molti ai molti (tipica della Rete) non è sinonimo di un confronto anche aspro tra punti di vista diversificati e differenti, bensì ha determinato la costituzione di «comunità di simili» che sfuggono a ogni occasione di confronto.
Chi fa parte di una comunità di simili partecipa così al rumore di fondo di echo chambers dove tutto è finalizzato a riprodurre e convalidare un punto di vista.
Oppure a dare il via a cybercascades segnate da odio e disprezzo per chi è individuato come un nemico.
LE ECHO CHAMBERS sono fondamentali per diffondere la propria verità, invadendo così i nodi della rete giusto il tempo per diffondere la propria verità. L’informazione è dunque un flusso che può essere modificato, interrotto, deviato, ma mai sovvertito, contestato, criticato. In altri termini, per Sunstein l’uso dei social network e dei social media alimentano la propaganda e riducono la democrazia al conflitto tra opinioni espresse senza nessuna verifica dei contenuti che esprimono.
Sono tesi che lo studioso americano ha proposto in vari libri, l’ultimo dei quali è #republic (il Mulino, pp. 329, euro 22), terzo capitolo di una serie che ha accompagnato lo sviluppo e la diffusione della Rete (i titoli degli altri due volumi sono Republic.com e Republic.com 2.0) .
Un libro, questo, che prende però atto che la Rete è ormai un «medium universale» e che Facebook, Twitter, la blogsfera sono ormai a tutti gli effetti dei media che non solo si affiancano a quelli tradizionali, ma rivelano la capacità egemonica della Rete nella formazione dell’opinione pubblica.
In altri termini, secondo Sunstein, tanto la televisione che la radio che i giornali cartacei scimmiottano ormai la Rete nel produrre e diffondere informazioni. Non c’è dunque un fuori dalla Rete e chi propone di sconnettersi da Internet non fa che rafforzare l’ordine del discorso dominante.
COMPLEMENTARE a questo saggio è il libro di Maurizio Ferraris Postverità e altri enigmi (Laterza, pp. 181, euro 13). Il filosofo italiano, con un incedere apodittico, non ha dubbi: la Rete più che uno strumento democratico manifesta una attitudine autoritaria, anche se questo non significa cancellare la libertà di espressione, bensì di definire la cornice – dunque i confini del legittimo e dell’illegittimo – dove può essere ammessa comunicazione.
Per questo, non è più rilevante la distinzione tra verità e falso, bensì decriptare la nuova era qualificata come «postverità». Figura emblematica e triviale della postverità è il personaggio di Maurizio Crozza che ha scelto come nickname Dinamite, perché pensa che i movimenti compulsivi del mouse e il ticchettìo dei tasti della tastiere facciano esplodere un mondo percepito come ostile e nemico.
LE FAKE NEWS non sono perciò solo «bufale» che possono essere contestate facendo leva su quell’agire comunicativo fondato sulla razionalità e sulla verifica dei fatti, bensì sono l’emblema radicale di quell’affermazione postmoderna in base alla quale non ci sono «fatti ma solo interpretazioni».
I social network e i social media sono cioè il braccio tecnologico di quel postmoderno dato per morto, ma ancora in servizio permanente ed effettivo nell’«era della documedialità», cioè nel regno del documento, della scrittura che diventa testo teso a qualificare, meglio nominare la realtà.
La differenza tra l’epoca contemporanea e le precedenti, che hanno visto anch’esse i documenti come lettura, interpretazione, rappresentazione della realtà, sta nell’adagio hegeliano della quantità che si trasforma in qualità.
Inoltre, e questo è l’elemento ben più rilevante, la documedialità attesta il fatto che ogni testo, foto, video che viene diffuso abbia una funzione mediatica, cioè corrisponda a una rappresentazione della realtà che è destinata a rimanere memorizzata nella cloud della comunicazione on line. Da qui, la certezza della postverità come orizzonte della comunicazione en general.
LA CRITICA ALLA POSTVERITÀ non può dunque che partire dalla comprensione della documedialità, asserisce Maurizio Ferraris. Ma più che una via d’uscita dalla postverità sembra di trovarsi di fronte a un circolo vizioso.
Come attestare la veridicità dei documenti memorizzati nella Rete; come distinguere il vero dal falso? Sembra un gioco dell’oca dove la casella della documedialità impone di tornare alle origini del pensiero filosofico e a quella distinzione tra opinione e verità suggellata da Aristotele e Platone come fondamento della filosofia.
Vale la pena allora soffermarsi su come nascono e si diffondono le opinioni.
Senza tirare in ballo lo studio seminale sull’opinione pubblica di Jürgen Habermas, occorre volgere lo sguardo sugli «imprenditori degli hashstag», cioè chi definisce le parole chiave della frammentazione del pubblico, e su personaggi come Mark Zuckerberg che non nascondono le ambizioni di costruire una comunità globale che attraverso la rete definisca i criteri per rendere compatibile un punto di vista con l’interesse generale di quella stessa comunità globale.
Zuckerberg dà per scontata la frammentazione degli utenti della rete in una miriade di comunità elettive, ma ritiene che un atteggiamento politicamente corretto codificato in policy, che dia ai proprietari del social network il potere di bloccare l’accesso agli haters, possa evitare la formazione di imprenditori dell’odio razziale, sessista e ideologico.
È UNA POSIZIONE questa che continua a immaginare le funzioni normative degli intermediari (i media, gli imprenditori della comunicazione e gli intellettuali), come fossero guardiani del «vero». Solo attraverso la loro azione può essere contrastato lo sminuzzamento del pubblico, che si rifugia, frammento per frammento, nelle echo chambers preferite, e temporanee, va da sé, per paura dell’incontro con le diversità.
E se i media ritrovano così un ruolo «progressivo», capace di salvare la democrazia dai suoi limiti e della sua tendenza a trasformarsi nel potere degli oligarchi, gli intellettuali possono ambire a illuminare le caverne dove uomini e donne sono condannati a vivere in assenza dei sapienti.
Nostalgia del passato, di un mondo precedente a Internet, non c’è dubbio, ma ignorare la denuncia della sistematica manipolazione dell’opinione pubblica significherebbe agire come gli struzzi: nascondere la testa nella sabbia perché il pericolo si avvicina.
LA MANIPOLAZIONE dell’opinione pubblica è un dato di fatto. E se in passato accadeva per consolidare rapporti sociali e di potere, nell’era della #republic questo avviene anche per consolidare modelli di business, perché la produzione dell’opinione pubblica è diventata un settore economico di tutto rispetto.
Facebook produce e riproduce opinione pubblica: attraverso di essa ha definito il proprio modello di business. Lo stesso si può dire per Twitter, Google, Amazon, le cloud computing delle imprese operanti dentro e fuori la Rete.
Certo, ciò significa che il pubblico è immaginato e manipolato come un aggregato di consumatori, parcellizzati a seconda di particolari affinità elettive. È questo lo sfondo, il contesto delle proposte di Zuckerberg, che vede gli utenti della Rete come consumatori di contenuti.
Rompere la gabbia del consumo di informazione è certo un primo passo, ma quel che più conta è sviluppare una critica all’economia politica dell’opinione pubblica, dove produzione, consumo e distribuzione funzionano come un vortice che «cattura», risucchiandoli, i desideri, i pensieri, le aspirazioni, l’intelligenza presenti nella comunicazione.
E poi c’è la cooperazione sociale.
È solo attraverso una accorta e efficace critica dell’economia politica dell’opinione pubblica che si può immaginare una democrazia radicale che non tracimi nell’oligarchia, come ripetevano i classici della filosofia politica.
Altrimenti ci si può salvare l’anima evocando un mondo che non c’è più, magari rinchiudendosi in una consolatoria echo chamber dove si assiste con terrore al flusso di informazioni e al loro rumore di fondo scandito da fake news, denunciando la degenerazione della democrazia in un spazio dominato dal consumo e dalla postverità.

La Stampa 18.1.18
Le risposte ultime di Giametta
di Federico Vercellone


Alla domanda se la filosofia abbia da fare con gli interrogativi concernenti il senso ultimo delle cose molti, a caldo, risponderebbero di sì. Non va dimenticato però che la filosofia non né è una forma di saggezza, né una terapia dell’anima e scambiarla con esse sarebbe una mistificazione. È questo un discrimine fondamentale. Abbiamo a che fare con un metodo di indagine rigoroso e razionale che certamente tocca problemi fondamentali come la natura, Dio, la libertà, l’evoluzione, e così via.
Tuttavia, nell’affrontarli, la filosofia non restituisce una soluzione esistenziale ai singoli ma una mente più educata all’indagine rigorosa e metodicamente orientata. Ciò non toglie che vi siano filosofie che esprimono nostalgia nei confronti della sapienza (come è insito, del resto, nell’etimologia della parola filo-sofia). Il pensiero di Sossio Giametta, così come si riflette anche in quest’ultimo libro recentemente edito da Bompiani, Grandi problemi risolti in piccoli spazi, appartiene all’area delle filosofie che hanno memoria di una originaria destinazione sapienziale del pensiero filosofico.
Anche in quest’opera, che dà seguito alla Trilogia sull’essenzialismo, Giametta dimostra un’acuta sensibilità nei confronti delle domande ultime. La questione che sovrasta tute le altre è: chi è Dio? Dio è solo il bene, come afferma Papa Francesco? Secondo Giametta in Dio sono contenuti sia il bene sia il male. Ma il male si sviluppa oltre Dio. Il male ha un’ineludibile autonoma consistenza. Esso è deposto nella natura naturata, quella che deriva da Dio e che è scaturigine della finitezza e dunque dell’alea angosciosa che avvolge la nostra esistenza, ma anche dei nostri entusiasmi, delle nostre passioni.
Non è il cristianesimo, oramai obsoleto agli occhi di Giametta, a poter fornire una risposta ai problemi posti dalla condizione umana. E neppure lo scetticismo. Dobbiamo piuttosto maturare un’adeguata consapevolezza circa la pienezza possibile dell’umano nella sua condizione finita.

La Stampa 18.1.18
L’ira di Abu Mazen
“Noi a Gerusalemme prima degli ebrei”
Il leader dell’Anp: i palestinesi discendono dai cananei
di Giordano Stabile


La doppia mossa di Donald Trump ha messo nell’angolo il vecchio raiss. Abu Mazen ha reagito con rabbia. A ogni discorso i toni, da increduli, sono diventati sempre più duri. Un salto indietro di trent’anni, fino alla ricusazione degli accordi di Oslo, del riconoscimento dello Stato ebraico.
Ieri al Cairo, il presidente palestinese è tornato su una vecchia tesi, quella della discendenza dei palestinesi dai cananei, che vivevano a Gerusalemme «anche prima degli ebrei». Un muro posto davanti a qualsiasi compromesso sulla Città Santa, riconosciuta dalla Casa Bianca come capitale di Israele.
Abu Mazen, 83 anni il prossimo 26 marzo, è in un angolo. I maggiori alleati arabi, e Egitto e Arabia Saudita, agiscono in accordo con gli Stati Uniti, anche se non lo dicono.
Fra Hamas e Israele
Il nuovo piano di pace prevede la rinuncia a Gerusalemme, e come capitale palestinese il sobborgo di Abu Dis. I regimi filo-occidentali lavorano per convincere l’opinione pubblica, e per il raiss sarebbe un suicidio buttarsi nelle braccia di Iran o Turchia, sponsor dei suoi mortali rivali, prima di tutto Hamas. I finanziamenti americani, come si è visto con il dimezzamento dei fondi all’Unrwa, restano decisivi per la sopravvivenza dei palestinesi: un terzo arrivano dagli Usa, un sesto da Riad.
Domenica a Ramallah Abu Mazen ha denunciato il piano saudita e le decisioni di Trump come «un schiaffo in faccia». Ma l’alternativa è ormai cedere a Israele o cedere ad Hamas, avvallare la «Terza Intifada». Ieri al Cairo il raiss ha cercato di uscire dall’angolo, ha denunciato «l’ipocrisia» dei presidenti americani che fingono di «maledire i loro predecessori, promettono, ma non danno nulla» e non sono più «mediatori credibili». L’alternativa non si vede, una «conferenza di pace internazionale» che sostituisca i negoziati bilaterali resta un miraggio.
Abu Mazen ha bollato come un «peccato» il trasferimento dell’ambasciata americana. Il richiamo alla sacralità di Gerusalemme non riesce però a mobilitare le masse palestinesi, figuriamoci arabe. Un altro «schiaffo» Abu Mazen lo ha ricevuto alla riunione della Lega araba ad Amman, quando il ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo ha accusato di non essere in grado di «difendere» la Città Santa. Pesa il consenso, ormai bassissimo, per l’Autorità nazionale, accusata dai giovani sempre più disillusi di corruzione e nepotismo, e di collaborare con lo Shin Bet israeliano.
L’intesa sulla sicurezza
Il punto è: finché regge l’intesa israelo-palestinese sulla sicurezza, la Casa Bianca può osare. La rinuncia all’accordo sul controllo del territorio metterebbe a rischio la stessa Autorità nazionale palestinese, minacciata dagli islamisti. Nonostante i toni da guerra Abu Mazen alla fine ha ribadito che la violenza non è un’opzione per far valere i diritti dei palestinesi e che la «nostra posizione resta la richiesta di uno Stato nei confini del 1967».
La narrativa può tornare pure agli Anni Ottanta, ma secondo la Casa Bianca, rivela l’analista del Washington Institute David Makovsky, «è soltanto un raid preventivo», volto ad arginare le mosse di Washington e sperare di un cambio della guardia in Israele nelle elezioni del 2019.

il manifesto 18.1.18
Nel nome di Allah, storie millenarie scalzate da regimi
Nel libro per Neri Pozza, l’algerino Boualem Sansal indaga l’islamismo radicale
Rad Rouben, Graffiti
di Chiara Cruciati


L’ascesa vorticosa dell’islamismo nel mondo arabo è fonte di dibattito da Occidente a Oriente. Il dissolvimento di Stati nazione, le «primavere arabe» – rivoluzioni popolari e spontanee da molti considerati parentesi conclusa, ma la cui spinta propulsiva cova sotto la cenere della repressione –, il terrorismo jihadista in Medio Oriente, Africa e Europa hanno aperto a descrizioni del fenomeno spesso limitate.
Cos’è l’islam, cos’è il jihadismo: domande a cui cerca di dare una risposta lo scrittore algerino Boualem Sansal in Nel nome di Allah. Origine e storia del totalitarismo islamista (Neri Pozza, pp. 160, euro 15). Critico dell’islamismo radicale, allontanato dal suo posto di lavoro al ministero dell’Industria di Algeri per la disapprovazione verso il regime, è autore di numerosi libri tra cui 2084, romanzo distopico che gli è valso il Grand Prix du roman 2015 dell’Académie française.
NELLA SUA ULTIMA OPERA, Sansal parte dal suo paese, esempio dell’avanzata dell’islamismo radicale nelle stanze dei bottoni e tra le masse, all’indomani della crisi dello Stato dell’indipendenza: uno scontro brutale che ha trascinato l’Algeria in una sanguinosa guerra civile, una stagione di attentati che ha costellato gli anni Novanta e i primi Duemila e sotterrata sotto una coltre di falsa amnistia mai tradotta in reale pacificazione.
Le stesse dinamiche si sono sviluppate nel resto del mondo arabo e Sansal ne dà resoconto accurato. Tra i meriti del libro, l’attenzione storica e il fine didattico: la descrizione delle correnti dell’islam, dalle principali (sunnismo e sciismo) alle minoritarie (dagli alawiti ai sufi), permette di dare le coordinate e tracciare i confini di una realtà variegata. Il tutto all’interno di un percorso storico dall’Islam dalle origini all’opera ideologica dei più influenti intellettuali e imam.
Fino all’oggi: Sansal entra nella questione statuale dell’Islam politico, a partire dall’analisi dei paesi (Iran e Arabia saudita) che sono spartiacque tra le epoche antica e moderna ricche di fedi e correnti – per gran parte in grado di convivere – e una contemporaneità in cui la religione è strumento di strategia politica e interesse economico. In tale contesto le masse scompaiono nel mare magnum delle ragioni di Stato, schiacciate dai regimi laici o religiosi che siano, nazionalisti e socialisti prima e islamisti poi. Una marginalizzazione che è narrativa oltre che socio-economica, una trappola in cui lo stesso Sansal cade.
Se l’autore tocca il ruolo progressista di giovani e donne e quello dirimente della miseria e dell’esclusione come humus su cui l’islamismo fa crescere un consenso di fatto estorto, finisce poi per imboccare la stessa via senza uscita: nella sua analisi le società arabe diventano un monolite, un unicum indefinito, succube passivo di profeti e visioni unilaterali e naturalmente votato al jihad, che sia questo obiettivo da realizzare con mezzi pacifici e di conversione o con strumenti di morte e imposizione.
SCOMPARE LA QUOTIDIANITÀ pacifica e assolutamente maggioritaria della religiosità musulmana e il ruolo incontrovertibile della colonizzazione europea che ha provocato un ritorno alla religione come forma di affermazione dell’identità. Scompare la differenziazione – assolutamente necessaria per non cadere in stereotipi islamofobi – tra il jihadismo radicale del Fis algerino, di al Qaeda o dell’Isis e l’Islam politico (e nonviolento per la quasi totalità della loro attività) dei Fratelli Musulmani. E scompare il massiccio intervento di Arabia saudita e Golfo in termini di finanziamento di gruppi estremisti e di diffusione di teorie radicali (il wahhabismo su tutti) tramite la capillare apertura di scuole e moschee di ispirazione salafita.
L’appiattimento non rende giustizia al composito mondo musulmano e alle spinte naturali dei popoli verso la laicità. E non rende giustizia al lavoro stesso dell’autore, capace di fornire al lettore gli spunti per approfondire la storia millenaria di popoli che hanno regalato al mondo cultura, arte e scienza, quei «lumi» cari a Sansal oggi soffocati da regimi sostenuti dalla comunità internazionale e da falsi profeti di una prigione travestita da liberazione.

La Stampa 18.1.18
“In nome di Allah” la fine del mondo è già arrivata
Il nuovo libro di Boualem Sansal è una radiografia del totalitarismo islamista. E fa più paura della realtà immaginata nel suo romanzo distopico2084
di Domenico Quirico


Boualem Sansal è algerino. I jihadisti, gli invasati della guerra santa li conosce, eccome. Addirittura dagli Anni 60. Dovremmo prestare più attenzione ai testimoni diretti della brulicante e sanguinaria mormorazione islamista, a chi li ha ascoltati dal vivo predicare, li ha visti uccidere, ne ha provato sulla pelle l’incomposto furore. Ci affidiamo invece alle fiabe di menti teoriche, sviate e imperterrite, intelletti leggeri che al più li conoscono, male, sui libri: l’islamismo, assicurano, è solo un rifugio per marginali delinquenti o per ignoranti di religione e di storia che si appigliano alla più orribile delle controculture a disposizione, li fermeremo con le promesse eterne dei centri commerciali…
A quell’epoca, dopo otto terribili anni di guerra contro i francesi tinti di massacro, Algeri era un luogo in rigogliosa e ideologica espansione, matrice vulcanicamente feconda di rivolte, trame, congiure, insurrezioni. All’aeroporto incontravi Che Guevara e i barbudos in bulimica ricerca di altre rivoluzioni da innescare, il generale Giap che aveva schiantato il colonialismo, Nasser, le americane Pantere nere e Malcolm X che lì chiamavano Malek el Shabbaz. Un tipo che si proponeva di polverizzare - niente meno! - l’imperialismo americano.
La Mecca delle rivoluzioni
Per la verità (ma questi non passavano nell’area dei vip della rivoluzione) potevi incrociare anche Carlos «lo sciacallo» professionista del terrore in cerca di clienti; e gruppi di irlandesi molto, molto discreti; e baschi che riconoscevi solo dall’intraducibile dialetto. Erano i messi dell’Ira e dell’Eta. Ripartivano con denaro esplosivi armi. Benvenuti ad Algeri la Mecca delle rivoluzioni! Tutta gente pericolosa ma laica, il loro sogno era il denaro o la palingenesi di popoli senza Stato che volevano diventare nazioni. I muezzin lanciavano appelli alla preghiera ma nessuno ci badava, non c’era tempo, bisognava affaccendarsi nella rivoluzione mondiale.
Eppure i profeti dell’altra rivoluzione, quella islamica, eran già lì. Arrivavano dal Medio Oriente, con barbe mosaiche, barracani, ciabatte, occhi spiritati, voci possenti. Erano soprattutto Fratelli musulmani, un po’ setta, un po’ partito, un po’ banda armata: in Egitto, in Siria, in Iraq, in Yemen (lì addirittura i governanti si proclamavano marxisti, altro che Allah!) faticavano a sfuggire alle galere, alla tortura, alle esecuzioni. Dio non era certo di moda nel mondo arabo, anzi mostragli una affezione esclusiva poteva, allora, costare danni e la vita.
In Algeria, racconta Sansal, non li presero sul serio, erano simpatici in fondo con le loro litanie coraniche e le minacce di castighi inappellabili per apostati e infedeli. Sembravano innocui, démodé. Li lasciarono predicare - suvvia, che potevano combinare in un Paese socialista dove le ragazze mettevano la minigonna e facevano il servizio militare? Dove dall’Europa tornavano gli emigrati per vedere e vivere la rivoluzione, quelli che chiamavano i «pieds rouges» che sostituivano i «pieds noirs», coloni partiti per la terribile scelta: o la valigia o la bara.
Venti anni, soltanto venti anni dopo... Che cosa sono venti anni nella Storia? Niente. Ebbene, osservate: il socialismo burocratico, marcio di corruzione e inefficienza, era già in frantumi. I bigotti, quei bigotti un po’ buffi, davano l’assalto al potere, avevano sostituito lo Stato nei servizi caritatevoli, portato l’ordine nei quartieri giustiziando i delinquenti, sfidavano ogni giorno lo Stato nelle strade con cortei, imponevano la virtù - chi fumava per esempio aveva le labbra tagliate. Fu quella la Primavera algerina, con venti anni di anticipo e la bandiera del profeta. Il potere pensò di stroncarla con un atto di forza e fu allora la guerra barbara che ha divorato vite innumerevoli. E sì, ad Algeri avevano davvero l’impressione di vivere la fine del mondo a porte chiuse.
Settant’anni di anticipo
Di Sansal è stato pubblicato in Italia nel 2016 da Neri Pozza un efficace e spietato romanzo sul futuro, 2084 la fine del mondo. Metafora dichiaratamente orwelliana in cui si immagina una teocrazia totalitaria che ha vinto: nell’Abistan sono cancellate tutte le miscredenze e vegeta l’uomo nuovo islamico. Lo stesso editore manda oggi in libreria un altro libro di Sansal, In nome di Allah, che non è romanzo, ma «riflessione di un testimone», meticolosa, quasi scolastica radiografia delle sfaccettature del fenomeno islamista. Ho letto i due libri: e mi sono accorto che fa più paura il resoconto della realtà che la utopica ricostruzione romanzesca. È come se Sansal, guardandosi attorno, si accorgesse che 2084 la fine del mondo si è già realizzata, con settant’anni di anticipo!
Come hanno fatto? Come hanno fatto a passare dalle galere e dalla marginalità di ottusi nostalgici del Medioevo a fondatori di califfati e eversori della geopolitica in vaste parti del mondo? Come fanno, mentre la cronaca diffonde ovunque di loro una immagine ripugnante, a conquistare sempre nuovi seguaci, ad ammaliare giovani, pastori uzbeki e laureati britannici, spacciatori maghrebini e pii alunni di madrasse pakistane, con l’epopea rivoluzionaria e le promesse di eternità, qui e ora? L’islamismo controlla e amministra milioni di uomini in varie parti del mondo. Signori! L’Abistan esiste già. Hanno conquistato il potere o sotto le vesti di califfato totalitario, con il kalashnikov e la jallabia, o sotto le spoglie di rassicurante islam conservatore, in giacca e cravatta. In Algeria li chiamano «Jekyll & Hyde».
All’ombra delle spade
Perché questa è la lezione di Sansal: il segreto dell’islamismo è il suo carattere maleficamente proteiforme o se volete politicamente duttile. I predicatori dell’apocalisse sanno essere ipocriti, si adattano a luoghi, tempi, circostanze e avversari con rabdomantica sottigliezza. Brandivano il pugnale o lo nascondono per diventare interlocutori affidabili, spariscono nella moschea per pregare e li ritrovi armati su un pick-up nel deserto. Come tutti i nemici della libertà sanno incatenare il pensiero. Costruiscono una moschea e quella diventa terra di islam, attorno sparisce subito tutto quello che per loro è proibito. In Algeria dove impugnavano negli Anni 90 il Corano gridando «per questo viviamo e per questo periremo», sconfitti sul campo, hanno firmato un patto segreto con gli oligarchi del potere petrolifero. I boia in nome di Allah camminano liberi per le strade guardando negli occhi i parenti delle loro vittime. E l’Algeria dei martiri laici del terzomondismo si è senza chiasso islamizzata.
Il segreto degli islamisti è quello che gli psicologi sociali chiamano la fusione di identità: mescolare quello che io sono con l’identità collettiva, quello che noi siamo. Questa fusione totale porta a una sensazione di invincibilità e alla volontà di sacrificarsi per gli altri. Sappiate che il paradiso è, purtroppo, all’ombra delle spade.

il manifesto 18.1.18
Interni neri d’Austria
Contro il governo nero-blu. Attenzionati dai servizi segreti, produttori di fake news per screditare reporter e antirazzisti, con le cicatrici in faccia dei riti neo nazi: sono alcuni degli uomini al potere oggi a Vienna
di Angela Mayr


VIENNA Così tanto a destra da far esplodere la protesta di massa nella tranquilla Vienna: piazza degli Eroi dove giusto 80 anni fa Hitler celebrò l’annessione dell’Austria alla Germania nazista era gremita di gente che scandiva «Widerstand», resistenza. A decine di migliaia, sabato scorso, sono sfilati in corteo contro il razzismo e i tagli sociali del governo Kurz-Strache, che ha promosso una massiccia scalata nei gangli del potere di ex neonazisti.
GENTE DI OGNI ETÀ, associazioni, cittadini singoli, studenti, sindacalisti, politici verdi e socialdemocratici, «nonne contro la destra». «È stata come la manifestazione Welcome refugees del 2015, del resto la rete di solidarietà intorno ai rifugiati che si era formata allora è rimasta sempre in piedi», ci dice Michael Genner di Asyl in Not, emergenza asilo, tra gli organizzatori della manifestazione insieme a Offensiva contro la destra e Coordinamento di sinistra radicale.
A portare molte persone in piazza è stato il ministro degli Interni Herbert Kickl, considerato il cervello di Heinz-Christian Strache, nuovo vice cancelliere. Illustrando giovedì scorso i piani del governo sui richiedenti asilo da radunare in megastrutture fuori città l’ideologo della Fpoe ha detto che bisognava «tenere i richiedenti asilo in modo concentrato in un luogo». Una dizione che ha scatenato una tempesta, visto anche lo sfondo storico della Fpoe, nata come partito degli ex nazisti.
KICKL ha insistito sul fatto che non intendeva affatto rievocare campi di concentramento accusando di provocazione il volerglielo attribuire. «Concentra te stesso, testa di ….», hanno intimato al ministro, sabato, i manifestanti. Stefan Petzner, consulente di comunicazione che conosce da vicino l’humus della destra, già assistente del defunto Joerg Haider e suo ex compagno di vita, ritiene che si trattava di un uso intenzionale di quella parola, come segnale alla frangia dei più irriducibili, e per distogliere l’attenzione dai tagli sociali in arrivo. Una reprimenda è arrivato dal presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen, mentre al cancelliere Sebastian Kurz sono bastate le spiegazioni di Kickl.
Sono 13mila i richiedenti asilo che vivono a Vienna in case private. Riuscirà il governo a cacciarli, a «tenerli in modo concentrato in un luogo», come annunciato da Kickl?, chiediamo a Genner. «Se noi lo permetteremo, lo faranno, ma noi non lo permetteremo. Considera che il primo governo nero-azzurro, nel 2000, per i primi 4 anni non riuscì a inasprire le leggi sull’asilo, per la forte opposizione civile che c’era allora e per le sanzioni europee».
UN CARTELLO retto da un manifestante recitava una citazione di T.W. Adorno: «Non temo il ritorno dei fascisti con la maschera dei fascisti, ma temo il ritorno dei fascisti con la maschera dei democratici». Il partito della libertà (Fpoe), compagno di gruppo di Salvini e Marine Le Pen a Strasburgo, gioca su entrambe le modalità. Sbarcata al governo, la pattuglia di Strache non ha assunto una veste più istituzionale, moderando i toni, come molti pensavano e come del resto aveva già fatto in campagna elettorale.
Al contrario, appena insediati al potere, i ministri della Fpoe si sono scatenati portando nel cuore dello Stato gli esponenti più estremi delle Burschenschaften, le corporazioni studentesche combattenti, organismi chiusi, semisegreti, di ideologia pangermanica che considerano l’Austria una propaggine tedesca, negandola come nazione, seppure gli adepti ne agitano costantemente le bandiere. Molti dei nuovi inquilini dei ministeri hanno un taglio in faccia , effetto della «Mensur», il duello di iniziazione. Come già noto, tutto il potere armato e di controllo dello Stato è nelle mani della Fpoe, con i due ministeri chiave, Interni e Difesa. Strache più volte ha ripetuto come sia importante assumersi la responsabilità per i crimini nazisti.
POI CI SONO I SUOI UOMINI, che ora occupano i ministeri. Al ministero degli Interni il capo della comunicazione è Alexander Hoeferl, una funzione che prima svolgeva per la Fpoe. È noto come produttore di fake news, autore di campagne denigratorie verso giornalisti e immigrati. Ha gestito il sito di propaganda di estrema destra unzensuriert.at, la versione austriaca del Breitbart americano. Fino a oggi è stato sotto osservazione del Verfassungsschutz, l’agenzia di intelligence interna che documenta le tendenze estremiste nel Paese.
L’intelligence, sottoposta al ministero degli Interni, ha definito il canale on line «di destra e nazionalista, di contenuti estremamente xenofobi e di tendenza antisemita. Propugnatore di teorie complottiste, di ideologia pro russa». Ora l’agenzia è caduta direttamente nelle mani di quelli che fino a oggi sono stati l’oggetto delle sue investigazioni. Il capo gabinetto dello stesso ministero è Roland Teufel, membro della Brixia Innsbruck, una Burschenschaft, una confraternita che secondo il Centro di documentazione della resistenza austriaca (Doew) «va collocata nel nucleo duro della scena di estrema destra».
NON È PIÙ RASSICURANTE il ministero delle Infrastrutture dove ora regna Norbert Hofer, il candidato sconfitto alle presidenziali. Suo capogabinetto è Rene Schimanek che da giovane (20 anni fa) frequentava un gruppo finito fuori legge chiamato Vapo, legato a Gottfried Kuessel, pluricondannato per attività neonaziste, a tutt’oggi in galera in Austria. Il portavoce di Hofer è Herwig Goetschober, funzionario di alto rango nelle Burschenschaften combattenti, noto per i suoi contatti con ambienti neonazisti. Un video degli anni ’80 lo mostra con Kuessel e il suo gruppo a cantare canzoni che incitano all’ uccisione di ebrei.
L’ELENCO potrebbe continuare uguale per tutti i ministeri occupati dalla Fpoe eccetto gli Esteri dove è stato nominata una studiosa di arabismo indipendente, ritenuta l’unica esponente competente della pattuglia governativa.
Nel corteo di sabato pieno di cartelli selfmade un monito per il cancelliere Kurz era «Basti (suo soprannome) smettila di abbracciare i Burschen, metti in pericolo l’Austria».

Repubblica 18.1.18
I diritti umani
La resistenza contro i populismi
di Kenneth Roth


Un anno fa, mentre Trump entrava alla Casa Bianca, l’ondata globale di populisti autoritari sembrava inarrestabile. I politici che dichiaravano di parlare per “il popolo” costruivano il consenso attraverso la demonizzazione delle minoranze, attaccando i principi dei diritti umani e alimentando la sfiducia verso le istituzioni democratiche. Oggi, in molti Paesi, la resistenza ha reso il futuro dei populisti più incerto. Dove la reazione è stata forte, l’avanzata dei populisti è stata contenuta. Ma là dove ci si arrende al loro messaggio di odio, i populisti prosperano.
La Francia ha incarnato la svolta più evidente. In altri Paesi europei, come l’Austria e l’Olanda, il centrodestra si è battuto contro i populisti imitandone le posizioni, ma ha rafforzato il loro messaggio. Macron, al contrario, ha sconfitto il Fronte Nazionale con una difesa vigorosa dei principi democratici.
Negli Usa c’è stata una riaffermazione dei diritti umani da parte di gruppi civici, giornalisti, avvocati, giudici e gente comune. Trump è riuscito comunque ad attuare misure retrograde, ma la reazione ha contenuto i danni.
La Germania ha fatto notizia quando l’Afd è entrato nel Bundestag. Ma l’Afd ha ottenuto voti nella ricca Baviera, dove l’alleato di governo di Angela Merkel, la Csu, ha adottato più posizioni contrarie all’immigrazione della Cdu di Merkel.
Un confronto basato sui principi, anziché l’emulazione, si è dimostrato più efficace.
Le manifestazioni e la minaccia di azioni legali dell’Ue hanno messo alla prova i tentativi della Polonia di indebolire l’indipendenza giudiziaria e lo stato di diritto e hanno ostacolato i piani dell’Ungheria. Anche in Venezuela i manifestanti sono scesi in strada mentre l’incompetente governo autocratico di Maduro distruggeva l’economia. In Africa hanno invocato il nazionalismo tentando di uscire in blocco dalla Corte penale internazionale. Ma il tentativo è fallito grazie ai gruppi civici.
In alcuni casi, quando Paesi più potenti hanno fatto ostruzionismo, Paesi più piccoli hanno guidato la difesa dei diritti.
Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha aperto un’indagine sugli abusi commessi nel conflitto in Yemen grazie all’Olanda. L’Assemblea generale dell’Onu ha aggirato il veto della Russia e ha nominato un procuratore per crimini di guerra in Siria grazie al Liechtenstein.
Nessuna forma di resistenza garantisce il successo. Gli autocrati sfruttano il potere dello Stato. Ma la resistenza dimostra che una vera battaglia è in atto. Diversamente, là dove la resistenza nazionale viene soppressa e l’interesse internazionale langue, prosperano i populisti e le forze contrarie ai diritti umani. Erdogan ha smantellato il sistema democratico turco mentre l’Ue si è preoccupata del suo aiuto per bloccare il flusso di rifugiati. Al Sisi ha schiacciato il dissenso in Egitto, convincendo i governi occidentali che stava combattendo il terrorismo. Putin e Xi Jinping hanno represso gli oppositori con una reazione limitata dell’Occidente.
Il nuovo principe ereditario dell’Arabia Saudita, facendo leva sui timori dell’Iran, ha guidato una coalizione araba che ha bombardato lo Yemen, provocando un disastro umanitario. L’esercito della Birmania ha intrapreso una pulizia etnica contro i musulmani Rohingya, mentre gli occidentali erano riluttanti a fare pressioni.
La lezione fondamentale è che i diritti umani possono essere difesi dalla sfida populista e autocratica. Ciò che serve è una difesa di principio anziché una resa, l’impegno anziché la disperazione.

La Stampa 18.1.18
Bunker, coperte e fiammiferi
La Svezia si prepara alla guerra
Il governo preoccupato per le continue provocazioni militari russe A 4,7 milioni di famiglie un opuscolo su come sopravvivere al conflitto
di Monica Perosino


La Svezia invierà a 4,7 milioni di famiglie un opuscolo di istruzioni in caso di guerra, catastrofe nucleare o conflitto armato.
Erano quasi 60 anni che non succedeva. Da quell’ultima edizione del 1961 di «Om kriget kommer», se arriva la guerra, considerata ormai inutile dagli svedesi e percepita come un «catalogo per l’Armageddon» che non aveva più senso in tempo di pace. Nel 1991 cessò anche la diffusione delle versioni pubblicate per uso interno dal governo. «Om kriget kommer» era il simbolo della Guerra Fredda, e se il muro era caduto allora anche la guida poteva finire nel cestino.
Ma ora qualcosa è cambiato. Le preoccupazioni del governo socialdemocratico dopo l’escalation di provocazioni militari russe ai suoi confini, le ingerenze di Mosca nelle elezioni Usa e il dibattito sull’adesione o meno alla Nato, con cui per ora la Svezia ha solo un accordo di collaborazione, hanno spinto la Swedish Civil Contingencies Agency (Msb), l’agenzia statale per le emergenze civili, a spiegare agli svedesi come partecipare alla «difesa totale» del Paese in caso di guerra, nonché suggerimenti alla popolazione su come assicurarsi beni di prima necessità (cibo, acqua e riscaldamento); gli altri temi trattati sono come reagire ad attentati terroristici, a cyber-attacchi o a una crisi provocata dai cambiamenti climatici.
«Tutta la società deve essere preparata alla guerra, non solo i militari - ha spiegato Christina Andersson dell’Msb all’Aftonbladet.
Dalla fine della Guerra Fredda Stoccolma ha intrapreso un processo di demilitarizzazione del Paese, con tagli alle spese militari e alla Difesa e il progressivo smantellamento delle basi e dei presidi dell’esercito sul territorio nazionale. La tendenza ha subito un’ inversione dal 2014, con l’annessione russa della Crimea: le spese militari sono tornate ad aumentare, è stata reintrodotta la leva e sono state piazzate truppe permanenti sull’isola di Gotland nel Mar Baltico. Negli ultimi 8 mesi è partito un censimento dei bunker presenti nel Paese e sul loro stato di conservazione. Non solo: l’anno scorso si è tenuta la più grande esercitazione militare degli ultimi 23 anni.
E ora l’opuscolo, dal titolo provvisorio - ed evocativo - «Se arriva la guerra», che raggiungerà le case degli svedesi a partire da giugno. «Quel che era impensabile cinque anni fa non è più impensabile – spiega Martin Kragh, Istituto svedese per gli affari internazionali – anche se è ancora improbabile». La brochure si concentra in particolare su tre temi: i rifornimenti di cibo ed energia in caso di uno o più attacchi ai porti centrali o altre infrastrutture critiche, le azioni in caso di ferite, traumi, trasporto di malati o le azioni da mettere in atto in caso di lesioni di massa, il coordinamento di funzioni socialmente importanti in caso guerra o attacchi chimici. Tra tutte spicca l’attenzione riservata ai cyber attacchi, alla disinformazione e alla manipolazione di massa, una chiara allusione al timore di inferenze «terze», accresciuto dalle elezioni del prossimo settembre. Il premier Löfven ha annunciato la creazione di una nuova autorità incentrata sulla «difesa psicologica» per contrastare la disinformazione: «Una versione moderna della difesa totale deve essere in grado di proteggere il Paese da tentativi esterni di influenzare la società democratica».

La Stampa 18.1.18
L’Fbi arresta la spia che ha tradito la rete degli 007 americani in Cina
di Paolo Mastrolilli


La fuga di Jerry Chun Shing Lee è finita lunedì all’aeroporto Kennedy di New York, quando l’Fbi lo ha arrestato, chiudendo così la caccia alla spia più sanguinosa del dopo Guerra Fredda. Almeno una dozzina di agenti e informatori americani hanno perso la vita, perché lui li ha venduti alla Cina, nella sfida per il dominio globale che Pechino ha ormai lanciato da tempo contro Washington.
Era il 2010, quando alla Cia era scattato l’allarme: la rete di spionaggio nella Repubblica popolare stava crollando. All’inizio era sembrato un caso isolato, quando i primi collaboratori erano scomparsi, ma poi l’attacco era diventato sistematico. Uno dopo l’altro, tutti gli informatori più preziosi dei servizi segreti Usa erano spariti, e la loro fine era stata drammatica. Alcuni erano stati rinchiusi in prigione, ma la maggior parte era stata giustiziata. Non si trattava di cittadini americani, ma di cinesi reclutati sul posto.
L’emergenza aveva provocato uno scontro tra la Cia e l’Fbi, perché Langley pensava che Pechino avesse penetrato i sistemi di comunicazione dell’agenzia, mentre il Bureau sospettava l’esistenza di una talpa. Poco alla volta, la verità era emersa. I sospetti si erano concentrati su Lee, un cinese naturalizzato americano, che dal 1982 al 1986 aveva servito nell’esercito, e nel 1994 era entrato nella Cia. Nel 2007 aveva lasciato l’agenzia, trasferendosi ad Hong Kong, e secondo i colleghi era risentito perché la sua carriera si era arenata. Quindi poteva esser motivato dal desiderio di rivalsa.
Nel 2012 l’Fbi lo aveva attirato negli Usa, con la falsa promessa di fargli ottenere un nuovo contratto con la Cia. Mentre era in albergo con la famiglia alle Hawaii, e poi in Virginia, gli agenti avevano perquisito i suoi bagagli, scoprendo due libri in cui aveva annotato i nomi e i contatti degli informatori scomparsi nella Repubblica popolare. Gli inquirenti avevano interrogato Jerry cinque volte, tra il maggio e il giugno del 2013, ma per qualche ragione che non è mai stata chiarita avevano deciso di non arrestarlo. Forse perché sospettavano che avesse dei complici, o speravano che li aiutasse a smascherare i suoi manovratori. Comunque Lee, che ora ha 53 anni, era rimasto libero e aveva potuto tornare con la sua famiglia ad Hong Kong, dove era protetto dalle autorità cinesi.
Per motivi che l’Fbi non ha rivelato, nei giorni scorsi Jerry è tornato negli Usa, e stavolta è scattata la trappola. Secondo l’antispionaggio, il suo è stato il tradimento più grave e sanguinoso dai casi di Aldrich Ames e Robert Hanssen, venduti a Mosca. Ma soprattutto conferma che la Cina è diventata l’avversario strategico più determinato e pericoloso per gli Usa.

Corriere 18.1.18
Web e social: il ritorno di Gabanelli
di Alessandro Fulloni


Video di 3 minuti, essenziali e asciutti, su Corriere.it. Milena Gabanelli riparte lunedì dal Corriere della Sera , dai social e dall’online con una striscia web: numeri e dati per spiegare argomenti complessi in pochi minuti. La rubrica si chiama «Dataroom» e inizia il 22 gennaio.
«Riparto dal Corriere della Sera , dai social e dall’ onlin e con una striscia pensata apposta: vale a dire un racconto complesso, tradotto in numeri, illustrato in tre minuti. Dal 22 gennaio». Un video di 30 secondi, essenziale e asciutto, su Corriere.it inquadra Milena Gabanelli che spiega la sua nuova sfida giornalistica. Si chiama «Dataroom », una rubrica, anzi una videostriscia, che quattro volte alla settimana comparirà sul nostro sito, inchieste di 180 secondi che affronteranno temi che riguardano chiunque: dall’«industria» della contraffazione sul web (sarà il primo approfondimento) a come scegliere il corso di studi più indicato per il lavoro. Sino ai danni — «in corso, ma non si vedono» — provocati dai test nucleari del leader nordcoreano Kim Jong-un. La novità è che Dataroom sarà pensata per il web, rimbalzando poi sulle pagine di carta del Corriere .
Che una firma e un volto celebre del giornalismo d’inchiesta si confronti con i risvolti della scomoda navigazione dell’ online succede già, ma non in Italia. Milena Gabanelli, 63 anni, che nel 1997 su RaiTre ha inventato «R eport », trasmissione spartiacque nell’informazione investigativa, elenca alcune esperienze: «C’è FT View di Robert Armstrong sul Financial Times , ci sono le analisi di Five Thirty Eight di Nate Silver, le inchieste della Zeit online , c’è Quartz e il Visual Journalism data projects della Bbc ». Quello che stavolta c’è in più rispetto all’estero, «è che è un prodotto informativo “pensato” per i social». Una volta alla settimana, infatti, il pezzo sarà nativo su Facebook: la videoinchiesta comparirà prima sul social — sul profilo «Dataroom di Milena Gabanelli» — per poi approdare su Corriere.it .
«Ho deciso di uscire dal grande schermo per entrare in uno più piccolo, ma molto più vivo e più trafficato — spiega la giornalista — utilizzato da una popolazione che conosco meno e con la quale voglio confrontarmi. Lascerò una specie di area protetta, con dei fedeli telespettatori, per esporre le viscere in un confronto che può essere molto brutale». L’approccio, però, sarà sempre lo stesso, «quello di tanti anni di giornalismo d’inchiesta tv, grazie al quale spero di aumentare la consapevolezza di quel che succede intorno a noi. Anche la mia. Un video completo di tre minuti, oltre al testo, andrà all’estrema sintesi ma senza semplificare troppo, dando la possibilità al lettore di trovare i rimandi per le fonti . Era quello che avrei voluto fare in Rai , ma non è stato possibile, e non ho mai capito perché».
Social e web sono anche l’ambiente preferito delle fake news, «riguardo le quali penso questo: troppo facile passare il tempo a parlare di notizie false, più utile ed efficace utilizzare il tempo per cercare e verificare quelle vere. Il nostro nemico è la fretta, la mancanza di tempo… Che combatteremo con le armi dell’inchiesta e del data journalism». Si parte lunedì mattina, su Corriere.it .

Repubblica 18.1.18
Bandiera di pace per le Coree la favola olimpica vince ancora
Ai Giochi invernali Seul e Pyongyang sfileranno insieme con un vessillo bianco Ma la tregua sportiva potrebbe non risolvere tutto: la crisi rischia di essere solo rinviata
di Vittorio Zucconi


Washington Dolce favola che ci raccontiamo ogni due anni, sotto i cinque cerchi e le fiaccole accese per un paio di settimane, anche le Olimpiadi invernali di PyeongChang torneranno a offrirci la rappresentazione della pace, con la sfilata comune fra le due Coree. Niente, della realtà che vede la guerra appesa alla volontà di un autocrate bambino che controlla centinaia di cannoni e ora missili con testate nucleari a pochi chilometri dalla capitale del Sud e di un Presidente americano che minaccia “ furia e fuoco” per fermarlo, cambierà.
Il 25 febbraio, quando la cerimonia di chiusura archivierà anche questa edizione invernale della fiaba olimpica che si apre il 9 febbraio, tutto cambierà: la piaga aperta da ormai quasi 70 anni sul 38esimo parallelo tornerà a imporsi, e le speranze aperte da quella bandiera bianca con la silhouette della penisola coreana cederanno la scena alla decisione, ormai irreversibile, di fare della Corea del Nord una mini-potenza nucleare.
L’illusione dello sport come espressione di gioia e di onesta competizione atletica separata dalla politica fu sbriciolata definitivamente 82 anni or sono dalle Olimpiadi di Berlino, volute da Adolf Hitler come vetrina del nazismo, e poi ripetutamente smascherata da Giochi pensati e voluti come attestati di trionfi di regimi: i sovietici nel 1980 e i cinesi nel 2008. Basta rivedere i giornali degli anni ‘30 per ricordare come ogni successo atletico fosse salutato come un tributo al Duce, dal calcio all’atletica leggera, o al Führer.
Ma in rare occasioni, quasi sempre fuori dalla retorica e dalla pomposità di cerimonie inaugurali sempre più faraoniche, lo sport, specialmente quello minore e dunque meno sottoposto all’attenzione esasperata dei media, ha dato qualche contributo alla rottura di tensioni che la politica, le armi e la diplomazia non riuscivano ad allentare.
La “ Missione Ping Pong” attribuita all’allora segretario di Stato Henry Kissinger che all’inizio degli anni ‘ 70 inviò una squadra di giocatori di tennis da tavolo nella Cina comunista che gli Stati Uniti non volevano riconoscere, o gli incontri di lotta libera fra americani e iraniani dopo l’avvento dell’ayatollah Khomeini in Iran, furono piccoli segnali che era ancora possibile tenere vivi canali di relazioni fra nemici inconciliabili.
Questa gelida tregua fra Nord e Sud Corea che sarà simboleggiata dalla bandiera comune, da allenamenti misti e da squadre binazionali, sono una di quelle rappresentazioni che possono passare senza lasciare alcun segno o spezzare la truculenta ostilità che divide un popolo in due nazioni, due sistemi, totalmente incompatibili. E mettere l’acqua bollente di una crisi insoluta almeno a bagnomaria, per poco.
Non è infatti questa la prima volta che i coreani sui due versanti del 38esimo parallelo sfoggiano l’illusione dell’unità: già vista, tra l’altro, anche alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006, dopo le quali la tensione riprese a bollire fino al punto di esplosione raggiunto alla fine del 2017 e raccontato, in maniera tragicamente ridicola, con il doppio falso allarme attacco lanciato prima alle Hawaii e poi in Giappone. Due occasioni nelle quali i missili in arrivo erano inesistenti, ma il terrore era reale, per dimostrare quanto poco credibile sia, nonostante le bandiere, il “ Nuovo Kim” ammansito dagli ideali di Olimpia.
Ma la favola, che pure sappiamo essere, appunto, favola, ha comunque un suo valore reale e offre l’occasione per respirare, anche se soltanto per un paio di settimane. Era ovvio che nell’estate del 1980, mentre l’agonizzante regime sovietico tentava di far dimenticare in un gigantesco “ Villaggio Potëmkin” il proprio disfacimento e il disastro dell’invasione dell’Afghanistan, tutti noi sapevamo che durante anche quella Olimpiade mutilata il Cremlino non avrebbe lanciato altri attacchi. Così, anche il Piccolo Padre di Pyongyang eviterà certamente di testate altri missili balistici e far esplodere altri ordigni nucleari fino al 25 febbraio, giorno di chiusura e se un mese sembra poco, è già qualcosa rispetto alla sensazione, acuta ancora poche settimane or sono, che ogni giorno potesse partire il tweet trumpiano o il razzo coreano capace di accendere la miccia. Se paura ancora circonda le Olimpiadi, questa non è la guerra fra nazioni, ma i morsi del terrorismo che le osserva come ghiotte prede.
Non possiamo affidare a pattinatrici, slalomisti, giocatori di hockey problemi che i governanti non sanno risolvere, ma è qualcosa sapere che per qualche giorno non dovremmo svegliarci temendo che sia partita la Terza Guerra Mondiale. Una tregua di ghiaccio è preferibile a una guerra calda.

Repubblica 18.1.18
La nota del rettore
Regeni fa paura a Cambridge
di Carlo Bonini


Ex cathedra e con una nota ufficiale dalla sorprendente violenza verbale, pari solo alla sua allusività e genericità, il vice- chancellor dell’università di Cambridge (figura assimilabile a quella del nostro rettore), Stephen J. Toope, accusa la Procura di Roma e la stampa italiana (entrambe mai citate) della più miserabile delle operazioni nella vicenda Regeni. Di aver cioè orchestrato «una vergognosa campagna di denigrazione, alimentata da convenienze politiche» nei confronti di Maha Abdelrahman, «onorata ed eminente studiosa», tutor di Giulio, al solo scopo di distrarre l’opinione pubblica da «un’apparente mancanza di progressi investigativi». Operazione questa resa ancora più «inquietante » perché la docente egiziana è «vittima di quelli che appaiono sforzi concertati per implicarla direttamente » nel caso. Con «pubbliche congetture» «imprecise, dannose e potenzialmente pericolose » , basate su una fondamentale « mancanza di comprensione della natura della ricerca accademica » e dei suoi « metodi » . Con il modo «distorto» con cui, «violando platealmente la confidenzialità del procedimento giudiziario», è stato ricostruito l’interrogatorio della docente.
Infine, l’argomento di chiusura, il kick- off. Che, a ben vedere, offre un qualche indizio sulla mossa. E che spiega il perché la nota sia stata inviata per e- mail anche a tutti gli ex studenti dell’Ateneo in giro per il mondo perché si attivino, controbilanciando la sgangherata stampa italiana e, viene da dire, quei furbacchioni dei magistrati della Procura di Roma. Cambridge – si legge - «continuerà ad assistere le autorità nella ricerca della verità, ma anche a difendere il “diritto alla ricerca”».
Ecco il punto, dunque. Il « diritto alla ricerca » . Diciamo la verità. Della morte di Giulio Regeni, delle circostanze in cui è maturata, delle premesse che hanno concorso, va da sé senza dolo, a ingrassare la paranoia del regime egiziano, non frega in realtà un bel niente. Regeni è morto, pace all’anima sua (a Cambridge lo ricorda solo una piccola foto). Evidentemente, danno collaterale (accettabile) di un lavoro e di un’industria – quella della formazione permanente di eccellenza – che muove centinaia di milioni di euro e di dollari ogni anno. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Europa. Alimentato dalle tasse di chi paga ( gli studenti, le loro famiglie), da qualche raro mecenate, e, in modo decisivo, dal cosiddetto “soft money”, i contributi privati di fondazioni, fondi sovrani, enti, uomini d’affari. Senza i quali i dipartimenti non funzionano. I professori non possono essere messi a contratto. La ricerca non marcia. E che, proprio per questo, « oggettivamente », finiscono per condizionare quella ricerca che si vuole per definizione « libera » , ma che libera non è. Perché finanziariamente non autosufficiente. Tanto per dire: è legittimo domandare alla Abdelrahman e a Cambridge per quale motivo, nella griglia di domande che Giulio sottoponeva ai sindacalisti nella sua ricerca, ritornassero ossessivamente quesiti che avevano a che fare con la polizia e la repressione degli apparati egiziani? È un modo per «coinvolgerla» nell’omicidio? È stato un attentato alla sua libertà di insegnamento attendersi che facesse ciò che fecero spontaneamente il giorno dei funerali gli ex compagni e amici di Giulio: consegnare telefoni e pc? E ancora: è legittimo chiedere a Cambridge chi ha finanziato le ricerche in Egitto? O interrogarsi sul confine sottilissimo che, in alcune aree del mondo, rischia di far confondere la ricerca con l’attivismo e dunque indebolirne l’intangibilità? Giulio ha perso la vita per fare ricerca. Si fidava della sua professoressa che oggi non ricorda neppure di aver ricevuto da lui un libro in regalo. Cos’è più inquietante? Chi si interroga sul perché di tanti non ricordo? O chi, cinicamente, è così spregiudicato da scomodare il diritto alla ricerca solo perché non ha la forza di discuterne le implicazioni con il coraggio della “verità”, ma solo con la supponente arroganza delle consorterie?

Repubblica 18.1.18
Cappato e dj Fabo
La dignità fino alla fine
di Michela Marzano


Se il valore cardine della nostra Costituzione è la dignità umana, allora Marco Cappato non ha fatto altro che incarnare alla lettera lo spirito del nostro Paese. Che difende la vita e la dignità del vivere, certo — è il cuore stesso della Costituzione. Ma che, proprio per questo, non chiede a nessuno di giudicare cosa possa essere o meno degno per un’altra persona. Al contrario. Pretende che nessuno si permetta di farlo, privando così la persona in questione dei suoi diritti individuali. Cosa sarebbe d’altronde la dignità umana se non ci fosse poi anche la libertà di esercitarla, e quindi senza la possibilità, per ciascuno di noi, di autodeterminarsi e di decidere sempre e comunque, dall’inizio della propria esistenza fino alla fine, come vivere e come morire?
Dignità, autodeterminazione, libertà. È attorno a queste tre parole chiave che la pm di Milano, Tiziana Siciliano, ha costruito ieri la sua requisitoria durante il processo a Cappato per la morte assistita di dj Fabo, chiedendone l’assoluzione. Il fatto non sussiste, ha dichiarato insieme alla collega Sara Arduini. Anche semplicemente perché il tesoriere dell’Associazione Coscioni non ha affatto rafforzato il proposito suicidario di dj Fabo; non ha fatto altro che rispettarne la volontà, prendendo sul serio il suo desiderio di morire. Come avrebbe potuto d’altronde agire diversamente? È proprio il rispetto della volontà altrui che rappresenta l’essenza stessa della dignità umana.
« Dobbiamo chiederci a quale vita facciamo riferimento », ha detto Tiziana Siciliano spiegando il senso dell’articolo 580 del codice penale che punisce ogni forma di istigazione al suicidio, e interrogandosi quindi sul senso stesso del termine «vita». «Ho visto polmoni respirare da soli su un tavolo, macchine che sostituiscono cuori… ma è vita questa? » ha continuato, mostrando a che punto sia talvolta artificiale l’esistenza che alcuni insistono a voler difendere a qualunque costo, senza rendersi così conto che la realtà, spesso, ci costringe a fare i conti con i resti di una vita impastata solo di sofferenza e di assenza di speranza e di futuro.
Il nucleo del ragionamento di Tiziana Siciliano e di Sara Arduini è profondamente umano, ma anche solidamente filosofico: dopo la rivoluzione kantiana che ha messo al centro della morale il principio di autonomia, non ha più senso rivendicarsi di un’etica eteronoma e paternalista, secondo la quale spetterebbe ad altri definire gli scopi e le priorità della propria esistenza. Non perché debbano trionfare il relativismo, l’individualismo o il “tutto si equivale”, ma perché riconoscere il valore intrinseco di ogni essere umano, e quindi la sua intrinseca dignità, significa rispettarne le scelte, i desideri e i valori anche quando non li si condivide affatto e si vorrebbe che fossero diversi, talvolta anche opposti. È il prezzo del rispetto, che ci costringe sempre e comunque a comporre con l’irriducibile e insormontabile alterità degli altri, riconoscendone, appunto, la piena dignità.
Il diritto alla vita e il diritto alla dignità della vita non sono in contrasto tra di loro, anzi, si bilanciano, soprattutto quando ci si ritrova immobilizzati in «una notte senza fine», come disse un giorno dj Fabo, o prigionieri di « un inferno su questa terra » , come disse un giorno Beppino Englaro parlando di sua figlia Eluana. Perché ostinarsi allora a difendere la vita anche quando l’esistenza sembra aver perso ogni dignità e si desidera solo che tutto possa terminare al più presto?
Lottare, cadere, rialzarsi, vincere, perdere di nuovo, ricominciare. La vita è fatta di tante piccole e grandi cose che non vanno sempre per il verso giusto, ma è così per tutti, fa parte del gioco, come i rifiuti e le frustrazioni che talvolta ci costringono a fare i conti con l’impossibilità di realizzare tanti nostri desideri, talvolta proprio quelli cui teniamo di più. Ma non è di questo che si parla quando non c’è più niente da fare, i giochi si sono definitivamente chiusi, e ci si ritrova, appunto, in una notte senza fine. In quei momenti, ci resta solo il diritto di dire «io», almeno per un’ultima volta: « io voglio » , « io non voglio » , « io desidero » , « io non desidero » . Rispettare la dignità della persona umana, che è forse l’unico valore veramente universale, significa non privare nessuno dell’ultima possibilità che ha di affermare la propria soggettività. Farlo, in nome di un’astratta concezione della vita e della sua sacralità, significa cancellare proprio quella dignità nel nome della quale tutti noi diciamo di batterci. Non è solo il principio di umanità a vietarcelo. È l’etica stessa che ce lo proibisce.