mercoledì 17 gennaio 2018

Il Fatto 17.1.18
“La pace è morta”, e anche l’Olp non si sente tanto bene
Una leadership senza ricambio, il presidente dell’Anp Abu Mazen in declino: cresce lo scollamento con la popolazione
Abu Mazen: Israele ha messo fine agli accordi di Oslo
di Fabio Scuto


Le strade della Capitale de facto dei palestinesi sono battute da un vento freddo, piove a tratti. Manca nelle strade quella confusione che contraddistingue tutti i centri urbani arabi. Poca gente in giro e poca voglia di parlare della fine del processo di pace, “della morte degli accordi di Oslo”, come ha annunciato il presidente palestinese Abu Mazen nel suo discorso in replica alle decisioni assunte dalla Casa Bianca su Gerusalemme, dove presto gli Usa apriranno la loro ambasciata. Un discorso di rara durezza quello del presidente dell’Anp che ha assalito con rabbia l’Amministrazione Trump per la gestione del conflitto e ha annunciato di voler escludere la leadership americana da eventuali colloqui di pace. L’accordo che propongono gli americani “è lo schiaffo del secolo”, ha detto l’anziano raìs ai 90 partecipanti agli Stati generale dell’Olp. Abu Mazen non ha preso in considerazione una possibile alternativa alla “soluzione dei due Stati”, idea nella quale ha creduto anche la diplomazia internazionale ma che dopo 20 anni si dimostra quasi impossibile da attuare sul terreno, anche se ci fosse la volontà politica che invece manca.
Le sue parole sono state l’addio di un leader alla fine del suo percorso politico. A marzo Abu Mazen festeggerà il suo 83° compleanno, sarà un festa triste senza un solo risultato raggiunto. Senza una soluzione politica con Israele all’orizzonte e senza un vero accordo con Hamas, che controlla sempre la Striscia di Gaza che affoga nella disperazione economica.
La frustrazione dei delegati al Consiglio centrale dell’Olp era palpabile. Guardando i loro volti era evidente quanto l’Olp e Fatah – il partito del presidente – in questi anni si siano rifiutati di cambiare o riformare dirigenti e quadri. I leader di oggi sono gli stessi che hanno guidato l’Olp negli anni 80 in Libano e in Cisgiordania. Inoltre Abu Mazen negli anni ha ignorato le richieste di riforma e soffocato ogni tipo di critica, isolando ed epurando i suoi oppositori, da Marwan Barghouti a Mohammed Dahlan, all’ex premier Salam Fayyad. Il presidente palestinese sa che non sta andando bene nei sondaggi e che ha toccato un minimo senza precedenti. Le giovani generazioni, che non credono in questa leadership, sono deluse e rabbiose, pronte a scattare. Nonostante le sue parole dure, Abu Mazen ha ripetuto più volte che l’unica strada è il negoziato e l’unica resistenza palestinese è pacifica, non armata. Ha tracciato una linea rossa: sì alla disperazione, no a una intifada armata. La tenaglia diplomatica però si sta stringendo. L’Amministrazione Trump ha imposto una drastica riduzione dei fondi per l’Agenzia di aiuto ai profughi (Unrwa) e minaccia di ridurre l’assistenza all’Anp se non si piega ai suoi ordini.
Tra l’altro anche il sostegno arabo si sta gradualmente incrinando mentre l’Arabia Saudita si unisce all’Alleanza israelo-americana con la richiesta ad Abu Mazen di rinunciare ai principi fondamentali del nazionalismo palestinese: Gerusalemme Est come Capitale, confini del 1967, diritto al ritorno dei profughi.
È chiaro che uno Stato palestinese non nascerà a fianco di Israele. Ma cosa accadrà quando Abu Mazen non siederà più nella Mukata di Ramallah? Israele è intenzionato a preservare la situazione attuale, oppure annetterà l’area della Cisgiordania che controlla – per il 60% – e concederà l’autonomia alle città palestinesi? E il successore di Abu Mazen sarà anch’egli convinto che la soluzione sia pacifica e negoziale? Sarebbe un errore disastroso attendere. In assenza di un orizzonte diplomatico, aumenta il potere dei gruppi religiosi e dei laici secolari, il terrorismo rischia di diventare l’alternativa e la possibilità di uno scontro armato si espande, specie lungo i confini di Gaza. Come ha scritto Haaretz nel suo editoriale ieri “la disperazione palestinese non è un vantaggio per Israele”.
Abu Mazen ha annunciato di respingere la mediazione americana nel prossimo futuro, ma “nessun altro Paese può sostituire gli Stati Uniti” spiega Ghassan Khatib, analista politico di Ramallah, “quindi, non ci sarà nessun processo diplomatico nel prossimo futuro”. La prospettiva di una indipendenza si allontana ma i palestinesi faticano a riconoscere la necessità di un cambiamento di linea, come di svecchiare i quadri. “Molte parole e pochi fatti”, riassume Diana Buttu, che di Abu Mazen fu capo di gabinetto e oggi è tra i suoi critici più accesi. “Il presidente ha 83 anni e gran parte della leadership appartiene alla stessa generazione: è ora di cambiare, un movimento rivoluzionario non può avere alla guida persone che hanno superato l’età della pensione”.