venerdì 19 gennaio 2018

Corriere 19.1.18
Filosofia
L’universo, l’infinito e la conoscenza del pensatore nel saggio di Nuccio Ordine (La nave di Teseo)
Umano, troppo umano era l’asino di Giordano Bruno
di Giulio Giorello


«Chi desidera filosofare, dubitando all’inizio di tutte le cose, non assuma alcuna posizione prima di aver ascoltato le parti in dibattito... e decida non per sentito dire, secondo l’opinione dei più, ma sulla base della persuasività di una dottrina organica e aderente alla realtà, nonché di una verità che si comprenda alla luce della ragione». Così Giordano Bruno da Nola in uno dei suoi dialoghi latini, Il triplice minimo e la misura (1590). L’atteggiamento scettico — questo dubitare senza dogmi e pregiudizi — è per così dire il chiarore che illumina la luce della ragione: all’inizio può sembrare puramente distruttiva, ma l’opera di progressivo rischiaramento riesce a portarci più vicini a una migliore comprensione delle cose del mondo.
È questa duplicità di tutto l’approccio bruniano che Nuccio Ordine mette a fuoco nel suo La cabala dell’asino (La nave di Teseo), frutto di un decennale lavoro di ripensamento di una tesi che gli è stata a lungo cara.
Come ha osservato Ilya Prigogine nella sua appassionata premessa, l’autore riesce a collegare cosmologia e letteratura: «La concezione bruniana dell’infinito distrugge ogni gerarchia sul piano cosmologico», poiché ciascun aggregato di atomi ha la stessa importanza su ogni scala, «entro un universo il cui centro può essere ovunque». Analogamente Bruno, nella questione della lingua, «va al di là di una sintassi e di un vocabolario fondati sul formalismo di grammatici e pedanti… per ricondurre la letteratura alla varietà e alla ricchezza che dominano la natura». È una mossa antiautoritaria contro chi vorrebbe imporre come leggere i «caratteruzzi» (per dirla con Galileo) che compongono il grande libro del mondo o quelli che formano il nostro linguaggio.
Solo apparentemente è paradossale che a guidare Ordine in questa sua «caccia irresistibile» sia la figura dell’asino. Rappresentante di una «santa asinità» incurante della struttura del cosmo e desiderosa di rimanere «con mani giunte e in ginocchio», o forse custode di enigmi che non vuole o non può rivelare ai più? Quella che Bruno vedeva incarnarsi nell’asino è la tensione essenziale fra il mistero e una laica rivelazione, anch’essa umana, anzi fin troppo umana: risultato delle molteplici operazioni di cui è capace il nostro intelletto. Come notava Eugenio Garin a proposito della vasta e approfondita ricerca di Ordine sulle icone e le idee utilizzate dal Nolano, conoscenza e asinità si compensano a vicenda, senza mai dimenticare «l’altra faccia della condizione terrena: la dolorosa ma feconda fatica del lavoro fisico, l’urlo disperato ma terrificante che mette in fuga anche i giganti».
Cercando asine, racconta la Bibbia (1 Samuele 9,2-20), Saul figlio di Cis trovò il regno d’Israele: è questa l’immagine della duplicità asinina che Giordano Bruno ci consegna nella Cena de le Ceneri (1584). Un’ambivalenza — suggerisce Ordine, chiudendo il libro — che percorre l’opera e la vita del Nolano, implacabile cercatore di verità. «Far conoscere che cosa sia veramente il cielo, che cosa siano i pianeti e astri tutti, come non sia impossibile ma necessario un infinito spazio; come convenga tal infinito effetto all’infinita causa», era l’ambizione di Bruno in De l’infinito, universo e mondi (1584). Rinnovamento letterario e cosmologico sono due facce di una medaglia che a lui, il 17 febbraio del 1600, sarebbe costata particolarmente cara, su quel rogo in Campo dei Fiori a Roma.