Corriere 18.1.18
L’intervista Massimo D’Alema
«Che succede il 5 marzo? Un governo del presidente. E al Pd vorrei dire: non facciamoci del male»
di Aldo Cazzullo
L’ex premier: creiamo le condizioni per un dialogo futuro
D’ Alema, Grasso le chiede un passo di lato.
«Sono
estremamente laterale. Faccio campagna in uno dei collegi uninominali
più laterali del Paese, il Basso Salento, che fa parte di una collegio
proporzionale considerato perdente. Ciò avviene su indicazione unanime
dell’assemblea regionale dei militanti e dei simpatizzanti. Quindi, sono
un candidato locale. Non partecipo a negoziati per posti sicuri. Do una
mano».
Quanto prenderete voi di Liberi e uguali?
«Per
abitudine e per cultura parto da una valutazione su cosa potrà accadere
all’Italia dopo una campagna elettorale devastante, anche a causa di una
legge che ha tutti i difetti di un falso maggioritario e tutti i
difetti di un proporzionale senza libertà di scelta. Non comportando
vincoli né sulla leadership né sul programma, favorisce confuse
ammucchiate; e spinge anche i partiti che si mettono insieme a litigare
tra loro».
Voi non vi siete messi insieme al Pd. Perché?
«Siamo
persone serie. Non ci sono le condizioni politiche e programmatiche.
Noi non partecipiamo ad ammucchiate. Le ragioni di dissenso sono molte,
inclusa la legge elettorale di cui porta una grave responsabilità il
gruppo dirigente del Partito democratico, e il governo Gentiloni che ha
messo 5 volte la fiducia. L’unica iniziativa seriamente unitaria
l’abbiamo presa noi e l’ha cancellata il Pd».
Quale?
«Speranza
propose il voto disgiunto: per consentire agli elettori di valutare
distintamente il candidato del collegio uninominale e quelli del
proporzionale; e permettere desistenze per ridurre il conflitto dentro
la sinistra. Ci fu sbattuta la porta in faccia con un’arroganza
irresponsabile. Quello era il momento degli appelli; ma non ne ricordo.
Fummo bombardati come se fossimo un gruppo di matti. Pur di danneggiare i
5 Stelle e schiacciare noi, il Pd ha danneggiato se stesso e favorito
la destra. Per colpa di quella scelta scellerata, non possiamo che
presentare candidati in tutti i collegi».
Con l’unico obiettivo di far perdere Renzi.
«Per
far perdere Renzi non era necessario fare un partito; bastava lasciarlo
fare da solo. Il Pd ha perso tutte le elezioni, con noi o senza di noi,
da Roma a Torino a Genova. Noi non nasciamo per provocare la sconfitta
che c’è già stata, ma come conseguenza della sconfitta; con l’obiettivo
di riconquistare un pezzo dell’elettorato che non vota, o vota 5 Stelle,
o persino Lega. Consiglierei al Pd di adottare una certa prudenza,
anziché continuare ad attaccarci».
Perché non dovrebbe?
«Perché
attaccare noi non porta voti a loro, ma ai 5 Stelle. L’uso strumentale
del voto utile per schiacciarci non funziona, ed è controproducente.
Com’è accaduto in Sicilia, dove il candidato dem ha preso l’8% in meno
delle liste che lo sostenevano: molti, convinti dal Pd della necessità
del voto utile, hanno votato 5 Stelle o destra. La competizione
maggioritaria in gran parte del Paese avrà questi due protagonisti. Il
gruppo dirigente del Pd colleziona autogol: tra la legge elettorale, la
commissione sulle banche, la campagna per il voto utile, dà
l’impressione di una certa mancanza di saggezza. Vorrei dire loro: non
facciamoci del male; creiamo le condizioni per un dialogo futuro. Dopo
il 4 marzo, viene il 5 marzo. Il Pd dovrebbe semmai dedicare la sua
campagna a contrastare la destra».
Non lo sta facendo?
«Mi
ha colpito che sia Berlusconi sia Renzi, facendosi eco come spesso
accade, abbiano presentato le elezioni come uno scontro tra loro e i 5
Stelle, ognuno rivendicando il ruolo di argine al populismo. Dicono le
stesse cose, ma Berlusconi è più credibile: la destra è oltre il 35%, il
Pd al 23; se si deve creare un bipolarismo, è più fondato che lo possa
dire Berlusconi piuttosto che Renzi. Il leader di quello che è stato il
maggior partito di centrosinistra dovrebbe preoccuparsi di una destra
aggressiva come non mai. La Lega di Salvini non è la Lega di Bossi, che
manteneva una venatura popolare. Non dimentico che Bossi sfidò i fischi
per venire in piazza il 25 aprile...».
La Lega «costola della sinistra».
«Lo
dissi come motivo di allarme, citando una ricerca della Fiom secondo
cui in alcune province lombarde la maggioranza degli iscritti votava
Lega; venne tradotto come se avessi detto che la Lega era di sinistra.
Le fake news erano già state inventate. Del resto, quasi tutte le frasi
celebri che mi vengono attribuite sono forzature o invenzioni. È una
demonizzazione costruita a tavolino. Ma non mi dispiace: c’è gente che
pensa che io sia cattivo, mentre in passato sono stato semmai ingenuo;
ma così mi rispetta di più».
Salvini, allora?
«La sua Lega
ha venature di estremismo di destra di tipo neofascista. Tra la difesa
della razza e la riapertura dei bordelli, il programma pare il ritorno
agli anni 30. Mi pare curioso, di fronte a questo, sostenere che il
pericolo siano i 5 Stelle».
Qual è il vostro rapporto con loro? La Boldrini esclude accordi, Grasso no.
«Io
non li demonizzo, ma non li ritengo in grado di governare il Paese.
Considero il dibattito sulle alleanze del tutto inutile. È evidente che
nell’indicazione comune di Berlusconi e Renzi a guardare ai 5 Stelle
come nemico principale emerge un disegno politico».
Le larghe intese?
«Il
mio amico Padoan, che ha grande cultura economica ma poca esperienza
politica, lo ha candidamente riconosciuto. Gli do atto della sua
sincerità. Anche le tecnocrazie europee spingono in questa direzione:
come se Berlusconi fosse la Merkel e il Pd fosse l’Spd».
Lei mi pare meno entusiasta.
«La
considero un’idea disastrosa e velleitaria. Non credo che Pd e
Berlusconi avranno i numeri, e il sistema elettorale rende difficile a
Forza Italia sganciarsi dalla Lega».
Cosa succederà il 5 marzo?
«La
classe dirigente ha il dovere di dire la verità al Paese: questa legge è
congegnata perché nessuno abbia la maggioranza. Occorrerà lo sforzo di
garantire una ragionevole governabilità, mentre il Parlamento avrà un
compito costituente, a cominciare da una nuova legge elettorale. Il
Paese pagherà un prezzo alto al fallimento del renzismo, al modo
disastroso, superficiale e arrogante con cui ha affrontato questioni
delicatissime come le riforme».
Un governo del presidente?
«Per
forza: una convergenza di tanti partiti diversi attorno a obiettivi
molto limitati. E noi, che siamo una forza radicata nei valori
democratici della Costituzione della solidarietà, dell’uguaglianza, del
lavoro, daremo il nostro contributo, ponendo discriminanti di carattere
programmatico per noi irrinunciabili».
Quali?
«Ci sono
enormi istanze sociali non rappresentate. Sono cresciute le
disuguaglianze, i frutti della ripresa vanno a pochi. La tragedia di
Milano ci ricorda il tema drammatico della tutela della sicurezza dei
lavoratori. Le scelte del governo Renzi volte a ridurre la forza
contrattuale dei lavoratori li hanno indeboliti anche su questo fronte.
Per un lavoratore che può essere licenziato senza giusta causa è più
difficile alzare la voce per difendersi».
Il Jobs act è pensato anche per ridurre la precarietà.
«E ha fallito. Ha creato lavoro precario e sottopagato. Serve un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori».
Lei
nel Salento, Bassolino a Napoli, Bersani in Emilia, Errani in Romagna,
Zanonato a Padova: siete un partito di anziani notabili?
«Vedremo
chi sarà candidato. Che ci siano alcune personalità storiche della
sinistra mi pare opportuno. Nel Pd non c’è la meglio gioventù, anche il
mio amico Fassino ha la sua storia. La grande maggioranza dei nostri
candidati saranno giovani o comunque nuovi alla politica. Né Grasso, né
la Boldrini sono esempi della politica tradizionale. Come non lo sono
l’ex presidente di Legambiente Rossella Muroni, il medico di Lampedusa
Pietro Bartolo, la promotrice dei Comitati del No Anna Falcone. A Foggia
candidiamo una direttrice d’orchestra».
A Genova c’è Cofferati, con cui in passato lei ha molto discusso.
«Ho
sempre avuto rispetto per lui. Nella storia del movimento operaio
italiano Sergio Cofferati ha lasciato un’impronta più marcata di
Bonifazi o Lotti; con cui non saprei di cosa discutere».
Che leader è Grasso?
«È
se stesso: una persona seria. Certo è più difficile conquistare la
scena, se uno non partecipa a questa grottesca gara a chi la spara più
grossa, cui sono impegnati a pari titolo il grande maestro Berlusconi e
il suo giovane allievo Renzi. Tra poco li sentiremo promettere come
Lucio Dalla che sarà tre volte Natale. Ma se il Paese ha bisogno di
onestà, di legalità e di giustizia sociale, questi valori Grasso non li
dichiara, li incarna; e questo fa di lui un leader».
Quanto prendete allora?
«Non
mettiamo limiti alla divina provvidenza. Credo poco ai sondaggi che si
fanno senza candidati, soprattutto nel Sud. Una forza politica deve
muoversi con ambizione. Fin dall’inizio ho detto che l’obiettivo è
arrivare a due cifre. Se si parte con pochi candidati sicuri di vincere e
molti sicuri di perdere, si demotivano gli uni e gli altri. Servono
tanti candidati incerti, pronti a battersi. Io sarò uno di loro».