sabato 16 dicembre 2017

il manifesto 16.12.17
Australia, migliaia di bambini abusati da sacerdoti e insegnanti cattolici
Minori. Conclusa l’inchiesta della Royal commission. Il premier Turnbull: «Tragedia nazionale»


«Decine di migliaia di bambini sono stati abusati sessualmente in molte istituzioni australiane, non sapremo mai il vero numero. Non si tratta di poche mele marce, le principali istituzioni della società hanno seriamente fallito». È la terribile conclusione a cui è giunta la Royal commission, istituita nel 2013 dal governo laburista di Julia Gillard per fare luce sugli abusi sessuali in Australia, dopo un’inchiesta quinquennale, articolata in 8.013 sessioni private e 57 udienze pubbliche, durante la quale sono state raccolte le testimonianze di oltre 8000 vittime, con più di 1200 testimoni ascoltati in 440 giorni. «La più alta forma di inchiesta pubblica australiana», la definisce la Bbc.
In 17 volumi che ha aggiunto 189 raccomandazioni alle 220 che erano già state rese pubbliche e che saranno ora esaminate dai legislatori, la relazione invita la Chiesa cattolica a rivedere le sue regole sul celibato. Perché secondo il rapporto la maggior parte degli abusi sono stati commessi – tra il 1950 e il 2015 – da ministri religiosi e insegnanti scolastici delle istituzioni cristiane: 4.400 abusi verificati solo nella chiesa cattolica, 1.115 denunce raccolte da quella anglicana, 1000 presunti molestatori nascosti dalla chiesa dei Testimoni di Geova.
Ma «non è un problema del passato», ha avvisato il presidente della commissione McClellan, perché dai sistemi di protezione dell’infanzia alla giustizia civile e la polizia, «molte istituzioni hanno tradito i nostri bambini». Il premier australiano, Malcolm Turnbull, ringraziando «i membri della commissione e coloro che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie», ha parlato di «tragedia nazionale».
Mentre Denis Hart, l’arcivescovo di Melbourne, ha dichiarato di aver preso «molto seriamente» i risultati dell’inchiesta, ha ribadito le «scuse incondizionate per questa sofferenza e il nostro impegno a garantire giustizia per le persone colpite», ma ha respinto la raccomandazione della commissione di rendere obbligatorie le denunce di molestie raccolte durante le confessioni religiose: «Voglio osservare la legge della terra – ha detto – ma la pena per ogni sacerdote che spezza il sigillo della confessione è la scomunica». Il Papa tace.

Corriere16.12.17
Delpini e il processo a don Galli: «Piena collaborazione»
Milano, il sacerdote accusato di abusi sessuali su un 15enne. La Curia: vicenda che suscita sofferenza
di Giampiero Rossi


MILANO Dopo molte false partenze si è di fatto aperto, martedì scorso, il processo a carico di don Mauro Galli, prete accusato di violenza sessuale ai danni di un quindicenne. Il dibattimento è stato nuovamente aggiornato al marzo 2018, ma come ogni precedente udienza consumata da questioni procedurali, anche questa volta il passaggio in tribunale della vicenda è stata occasione per allusioni e sospetti che puntano dritto al vertice della chiesa ambrosiana di quel periodo e, in particolare, all’attuale arcivescovo Mario Delpini — da settembre successore del cardinale Angelo Scola e in precedenza vicario generale — e all’attuale vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada. Al punto da suscitare, ieri, una replica della Curia.
I fatti sono ambientati a Rozzano, popoloso Comune dell’hinterland Sud di Milano, e risalgono al dicembre 2011, quando don Galli ospita, il ragazzino a dormire per una notte a casa propria. Successivamente salta fuori che il prete ha diviso con il quindicenne il suo letto a due piazze. Dal primo racconto non emerge alcun abuso — sottolinea oggi l’arcidiocesi — ma quello del sacerdote viene subito considerato un atteggiamento «gravemente imprudente» e per questo don Mauro «viene anzitutto affidato a un psicologo» e, nel marzo 2012, trasferito in via «cautelativa» a Legnano dall’allora vicario generale monsignor Carlo Redaelli.
Seguiranno altri trasferimenti e indagini da parte dei vertici ecclesiastici, fino alla sospensione dal ministero sacerdotale «e da ogni attività pastorale» del maggio 2015. Anche perché nel frattempo — nel luglio 2014 — arriva la denuncia per abusi sessuali da parte della famiglia del ragazzo. E da quel momento iniziano anche le accuse alla chiesa di aver «coperto» il caso, mosse soprattutto attraverso il sito Internet dell’«Associazione sopravvissuti agli abusi sessuali del clero». L’arcidiocesi sapeva, è in sostanza la tesi, ma avrebbe cercato di insabbiare attraverso trasferimenti che inizialmente avrebbero comunque lasciato don Mauro a contatto con i ragazzi.
Con l’apertura del dibattimento questa stessa tesi è stata ripresa, ieri, dal quotidiano Il Giornale , e a quel punto è arrivata la replica dell’arcidiocesi di Milano che, oltre a ribadire la piena collaborazione alle indagini, sottolinea di non essere coinvolta nel processo penale e di non essere più nemmeno responsabile civile, dopo revoca della costituzione di parte civile da parte del ragazzo. E, «nel dolore e nella sofferenza che questa vicenda continua a suscitare», la Curia ricorda anche di non aver «mai intrapreso azioni risarcitorie».
Il dibattimento ripartirà a marzo. Probabilmente con il suo strascico velenoso.

La Stampa 16.12.17
Sondaggisti unanimi. “La vicenda di Banca Etruria e della ministra Boschi peserà sul voto Pd”
di Andrea Carugati

qui

Corriere 16.12.17
Maria Elena Boschi e «l’interesse esclusivo della Nazione»
di Gian Antonio Stella


«Ma come, mettete in dubbio la mia parola?» Lo stupore che Maria Elena Boschi manifesta davanti all’imbarazzo crescente perfino tra i compagni di partito, lascia stupiti. Non solo perché lei stessa ammette oggi, con abissale ritardo, che l’elezione del padre a vicepresidente di Banca Etruria non è arrivata quasi «a sua insaputa» settanta giorni dopo che aveva avuto da Matteo Renzi la poltrona di ministro per le Riforme. Rileggiamo: «Parlando di banche, ho rappresentato a Vegas la possibilità che mio padre diventasse vicepresidente di Banca Etruria. Tutto qui. Sarebbe stato strano il contrario, visto il ruolo di Consob. Era una questione di trasparenza».
«Tutto qui?» Se si fosse trattato d’un ministro leghista, grillino o berlusconiano avrebbe usato davvero le stesse parole assolutorie? O si sarebbe piuttosto appellata all’opportunità che, per evitare ogni sospetto velenoso di un conflitto di interessi in questi tempi di populismo e demagogia, uno dei due, il padre o la figlia, rinunciasse all’istante al proprio incarico? Non fu invocata appunto l’opportunità per spingere all’addio Josefa Idem e Maurizio Lupi e Federica Guidi, per citare solo gli ultimi casi?
Al di là perfino delle contraddizioni rispetto al discorso tenuto dall’allora ministra alla Camera il 18 dicembre 2015 per difendere il padre in occasione della mozione di sfiducia individuale, però, c’è un secondo dettaglio sugli incontri con Giuseppe Vegas che non era ancora emerso in tutta la sua abbagliante chiarezza. «Abbiamo quindi parlato delle difficoltà in generale del sistema bancario italiano, anche quelle di Banca Etruria», ha rivelato la Boschi in un’intervista a Tommaso Ciriaco, «Mi sono limitata a rappresentare le preoccupazioni mie e del territorio aretino rispetto alla prospettiva di una aggregazione con la Popolare di Vicenza per il futuro del settore orafo».
Ma come? Insediandosi come ministro non aveva giurato con la formula di rito? «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». «Interesse esclusivo della Nazione», non di Arezzo, degli orafi aretini e del pascolo elettorale aretino. E gli interessi di Vicenza, degli orafi vicentini e del territorio vicentino? Venivano dopo? A prescindere dal diritto di Arezzo e degli orafi aretini di difendere i «propri» interessi e a prescindere dalla piega che stavano per prendere i destini della Popolare di Vicenza (lo scandalo sarebbe esploso in tutta la sua gravità l’anno dopo) con che squadra giocava Maria Elena Boschi: la squadra dell’Italia o della sua bottega aretina?

La Stampa 16.12.17
Visco e Ghizzoni altre due audizioni
spettro per Boschi
Il governatore di Bankitalia, appena riconfermato si prepara a parlare del ruolo di Matteo Renzi
di Fabio Martini


Nel palazzo di San Macuto, che a suo tempo ospitò i severissimi giudici dell’Inquisizione pontificia, martedì i microfoni della Commissione Banche torneranno a riaccendersi alle 10 in punto per un’audizione dagli esiti imprevedibili: sarà ascoltato il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. L’autorevolezza del protagonista e la qualità delle sue dichiarazioni potrebbero segnare una svolta nell’affaire-banche: in un senso o nell’altro. Certo, l’audizione si preannuncia a tutto campo, nello spirito di chi aveva visto nella Commissione un’occasione preziosa per far luce sugli intrecci, talora opachi e spesso conflittuali, nel sistema di vigilanza. Ma la mission della Commissione, di seduta in seduta, si è “arricchita” di intenzioni politiche ed elettoralistiche da parte di tutti i protagonisti.
E dunque, l’audizione del Governatore, pur ricca di interesse per le tante possibili sfaccettature, rischia di concentrarsi mediaticamente quasi unicamente sulla vicenda di Banca Etruria, consumatasi nel biennio 2014-2015 e che in questi giorni ha visto risalire alla ribalta, l’allora ministra Maria Elena Boschi. Che, davanti alle testimonianze che la chiamano in causa come interessata in prima persona al destino della Banca di cui era vicepresidente il padre, si è attestata su una linea “difensiva” incardinata su due punti. Primo: che male c’è per una parlamentare-ministra occuparsi del destino della banca della propria città? Secondo: Banca Etruria, come ha detto lei stessa in un’intervista a Lilli Gruber su “La7”, è stata commissariata dal governo e dunque sarebbe fugato il dubbio di qualsiasi conflitto di interessi.
In realtà la decisione di mettere la Banca aretina in amministrazione straordinaria nel 2015 non era stata del governo Renzi, ma di Banca d’Italia e l’esecutivo si era limitato a dare esecuzione ad una decisione dell’istituto di vigilanza. Ma proprio questo passaggio resta uno snodo delicato e finora trascurato dai riflettori: come si mosse dietro le quinte il governo, prima e dopo quella decisione di Banca d’Italia che destituiva i vertici dell’”amica” Etruria? Dal punto di vista formale evidentemente tutto è filato liscio, ma dal punto di vista sostanziale il presidente del Consiglio, che allora era Matteo Renzi, in che modo rispettò gli ambiti e le competenze? Cosa potrebbe dire al riguardo il Governatore Visco è impossibile prevederlo. Da via Nazionale nulla trapela, anche se chi ha parlato con il Governatore in questi giorni ne ha tratto la convinzione che con l’audizione di Visco si possa alzare il “livello” dei protagonisti politicamente chiamati in causa. Arrivando direttamente a Renzi.
Nessuno può dirlo esplicitamente, ma l’audizione di Visco viene “accompagnata” al Quirinale e a palazzo Chigi da un auspicio inconfessabile: fatto salvo il diritto di porre al Governatore le domande più scomode, si spera che nessuna delle forze politiche trasformi l’audizione in una scorciatoia per una delegittimazione indiretta di una scelta, quella di confermare Visco, che è stata presa soltanto poche settimane fa dai due presidenti. Il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Ieri protagonista a Bruxelles di una esternazione pro-Boschi tanto impegnativa quanto priva di patos. Un dettaglio che conferma il mood di Paolo Gentiloni: prima si sciolgono le Camere e meglio è.
Ma mercoledì, sempre in Commissione Banche, è in programma un’altra audizione ad alta tensione, che sembra destinata ad accendere nuove braci per il caso-Boschi. Verrà ascoltato l’allora amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni. Se l’ex ad dovesse confermare l’interessamento della Boschi per le sorti della Banca Etruria, come scritto in un suo libro Ferruccio De Bortoli, sarà interessante approfondire se quel raccomandarsi riguardasse diversi istituti di credito in difficoltà o soltanto quello caro alla ministra. Il tam-tam che accredita questa seconda versione è tutto da verificare, ma se davvero questa fosse la testimonianza di Ghizzoni, a quel punto, si visualizzerebbe simbolicamente una sorta di “giro d’Italia”, con protagonista Maria Elena Boschi, allo scopo di salvare la Banca guidata (anche) dal suo babbo.
Negli ultimi giorni infatti le audizioni del presidente della Consob Giuseppe Vegas e dall’ex ad di Veneto Banca Vincenzo Consoli hanno evidenziato un eloquente attivismo da parte dell’allora ministra delle Riforme. Secondo Vegas, Maria Elena Boschi, pur non esercitando pressioni, in un incontro a Milano nel febbraio 2014, manifestò le sue preoccupazioni circa un eventuale incorporazione di Etruria dentro la Banca di Vicenza. A sua volta Consoli ha raccontato che, stavolta ad Arezzo, la ministra ospitò un incontro con i vertici di Banca Etruria e di Veneto Banca. Restò alla riunione soltanto per un quarto d’ora, nulla disse, ma il luogo dell’incontro resta fortemente simbolico: casa Boschi. A queste due testimonianze, mercoledì se ne potrebbe aggiungere una terza. In questo caso si tratterebbe di un incontro, stavolta a Milano, sempre focalizzato al benessere di Etruria, con l’ad di Unicredit. Due sere fa, sempre nell’intervista televisiva, Maria Elena Boschi ha confermato che l’incontro con Ghizzoni ci fu, ma «non gli chiesi nulla». Per ora agli atti resta un trittico: tre diversi, importanti interlocutori, nessuno pressato. Ma tutti sensibilizzati, dalla ministra, alle sorti della banca così cara alla famiglia Boschi.

Il Fatto 16.12.17
Brevi note sul successo, e cioè il disastro, del duo renziano in tv
Meb & Matteo - Purtroppo per loro li hanno visti
Brevi note sul successo, e cioè il disastro, del duo renziano in tv
di Andrea Scanzi


Ieri Boschi e Renzi si sono esibiti in una maratona su La7. I dati Auditel li hanno premiati, gli spettatori (e dunque elettori) forse un po’ meno. Altre considerazioni.
1) La Boschi querela tutti quelli che non le credono. Quindi io le credo: Boschi nuova Rosa Luxemburg, Gozi Pallone d’Oro e Farinetti al Quirinale con agio.
2) Il fatto che la Boschi abbia accettato di parlare con Travaglio, che odia, e che Renzi sia tornato da Formigli, che detesta, sono buone notizie per la democrazia. Un politico non deve scegliere da chi farsi intervistare.
3) Quella di prima è una buona notizia per la democrazia, ma è anche una pessima notizia per Renzi e Boschi. Vuol dire che i sondaggi sono tremendi e che loro sono alla canna del gas, altrimenti non accetterebbero mai “duelli” difficili. È quel che accadde anche quando Renzi accettò di scontrarsi con Travaglio prima del 4 dicembre (sempre a Otto e mezzo). Evidentemente gli avevano detto che i sondaggi erano terrificanti. E poi si è visto.
4) La pochezza dialettica della Boschi è imbarazzante. Pare davvero la compagna di classe che stava al primo banco, non faceva mai sciopero, andava volontaria alle interrogazioni e recitava a pappagallo il libro senza averci capito granché. Anche ieri parlava in stampatello, scandendo le sillabe e ripetendo “insomma” (o “inzomma”, all’aretina), che è poi il tipico intercalare di chi dialetticamente vale quanto una ciabatta lisa a una sfilata di Louboutin. Più Travaglio parlava e più lei sbatteva gli occhi à la Fassino, deglutiva nervosamente e guardava terrorizzata Lilli Gruber. Se una persona volesse capire cosa non si deve fare in tivù, dovrebbe guardare la Boschi.
5) Quando un politico è in estrema difficoltà, comincia a sparare querele di qua e di là. Se poi il politico in estrema difficoltà è donna, tira pure fuori l’accusa di sessismo a caso. La Boschi, ieri, ha fatto entrambe le cose: ciao core.
6) Maria Elena Boschi può girarla come vuole, ma in Parlamento ha negato che ci siano state “corsie preferenziali”. Che invece sembrano proprio esserci state. Negarlo vuol dire essere ciechi o Andrearomano, che è poi lo stesso.
6 bis) Ieri ho riguardato Twitter dopo mesi. I commenti durante la diretta andavano da “Travaglio la sta massacrando” (se grillini) a “Boschi lo sta uccidendo” (se renziani). Detto che ieri il dislivello dialettico era tale da far sembrare la sfida un incontro tra Muhammad Ali e la Gegia, queste reazioni acritiche dimostrano come l’Italia sia un Paese di tifosi. E che per questo non abbia alcuna speranza.
7) Le opposizioni chiedono le dimissioni della Boschi: sbagliano. Più lei sta lì, più il Pd è (ancor più) attaccabile. Secondo alcuni sondaggisti, la Boschi vale un milione di voti: in meno, però. La Boschi è un Calimero vendicativo della politica. Sembra un trojan horse inoculato da M5S o Lega per indebolire ancor di più quel che resta del Pd. La Boschi è un vulnus che verrà sempre citato dai rivali, in campagna elettorale e non solo, per dimostrare quanto il Pd sia indifendibile. Più lei si imbullona alla poltrona, più gli elettori scappano: complimenti.
8) Il fatto che la Boschi, nonostante tutti i danni che ha fatto e fa, sia ancora lì, non è solo uno schiaffo in faccia alla decenza, alle promesse (non doveva smettere dopo il “no” del 4 dicembre?) e agli elettori: pare anche la prova di come questa donna sappia delle cose inenarrabili, che la rendono in qualche modo temutissima e (dunque) indispensabile. Altrimenti non si spiega come una che politicamente fa più danni della grandine sia ancora lì.
9) Quanto è stanco, Renzi. Non ha mai avuto granché da dire e il talento non lo ha mai intaccato, ma adesso è davvero l’ombra bolsa di se stesso. Anche da Formigli ha ripetuto le stesse cose, però al rallentatore. È affannato, appannato, sfuocato. Un pugile suonato. Non funziona quando fa le battute, non funziona quando prova a esser serio. Disastro.
10) Ieri Renzi ha recitato la parte del chiagnefottista triste, tornato a far politica non per gloria personale ma per il bene supremo di noi tutti (grazie). Ha indugiato sulle sue sofferenze, ha giocato al martire ottimista e ha cercato di commuovere gli astanti. È la sua faccia più insidiosa: prova a farti pena, tu abbassi la guardia e lui ti ha già fregato di nuovo. Se ci cascate un’altra volta, siete proprio pinoli.
10 e lode) Verso la fine dell’intervista a Piazzapulita, Renzi è parso più sereno. Addirittura gradevole. Poi Formigli gli ha chiesto se gli mancasse il potere. E lui, dopo una pausa teatralissima: “Per me il potere è un verbo, non un sostantivo”. Non c’è niente da fare: nelle sue vene non scorre sangue, ma supercazzole.

Corriere 16.12.17
I calcoli dei partiti
le illusioni sul voto di marzo
di Aldo Cazzullo


È un’allegria di naufragi, quella che pervade la politica italiana. L’idea che il voto di marzo conti poco, perché tanto fra tre mesi si rivota, è fuorviante e pericolosa. Proprio come l’illusione che si possa stare anche un anno senza governo, senza che nulla accada. Si parla del precedente spagnolo; che però non esiste, almeno non nel senso in cui lo si evoca in Italia. È vero che la Spagna è rimasta sei mesi, tra il Natale 2015 e il giugno 2016, con un esecutivo in carica solo per il disbrigo degli affari correnti, formula vaga che può voler dire niente o tutto. Ma il ritorno alle urne non ha dato al Paese una maggioranza, bensì un accordo. Rajoy non governa grazie a una maggioranza parlamentare che non ha, ma grazie al sostegno dei socialisti; che si è fatto più saldo da quando è insorta l’emergenza catalana.
Più che una grande coalizione legata dalla virtù e dall’interesse nazionale, la Spagna si regge su un’intesa dovuta alla necessità e all’interesse di partito: in eventuali elezioni anticipate si rafforzerebbe il premier, garante dell’unità nazionale, e il Psoe rischierebbe di scendere sotto quel 20% che pare ormai diventata la soglia dei partiti riformisti d’Europa.
Non si vede come in Italia una seconda campagna elettorale possa cambiare i rapporti di forza. Senza considerare che il presidente della Repubblica farà di tutto, non per sua personale ostinazione ma per fedeltà alla Carta costituzionale, pur di dare al Paese un governo.
E per motivi non altrettanto nobili anche i parlamentari che avranno strappato un seggio opporranno una vigorosa resistenza all’idea di rimetterlo in gioco dopo pochi mesi. Il miraggio di nuove elezioni in breve tempo è destinato quindi a rimanere tale; ma può comunque fare danni.
La disillusione non è mai stata tanto alta, la distanza tra elettori ed eletti mai tanto ampia. Ormai è difficile persino mobilitare i cittadini per la scelta del proprio sindaco; figurarsi per designare parlamentari di fatto scelti dalle segreterie dei partiti. Se passa l’idea che il voto di marzo sarà inutile o comunque destinato a essere ripetuto, cresceranno sia l’astensione, sia la frammentazione; e l’avvento di «quarte gambe», foglioline d’Ulivo e altri partitini non farà che rendere ancora più complicato assicurare la stabilità.
Il voto di marzo sarà invece molto importante; a ricordarlo basterebbe la presenza di un movimento antisistema vicino al 30%, cosa che non si è mai vista in una democrazia occidentale (Trump era sì un outsider , però aveva vinto le primarie di uno dei due grandi partiti su cui da secoli si regge il sistema politico americano). Le incognite sono molte e interessanti: c’è spazio per una forza alla sinistra del Pd? Renzi è stato solo una meteora? Il centrodestra può avere i numeri per governare da solo? E certo non sono in gioco soltanto interessi personali o di fazione.
L’Italia non è la Germania, per citare un grande Paese in mezzo al guado. E non è neppure la Spagna, che con la Germania intrattiene un rapporto privilegiato: il debito pubblico di Madrid è per buona parte in mani tedesche, e questo aiuta a capire il salvataggio delle banche spagnole con i denari europei, e pure l’appoggio ad Amsterdam per la sede dell’Agenzia del farmaco come da desiderio della Merkel. L’Italia ha un debito pubblico abnorme, che non può essere risanato solo con i tagli, ma richiede una crescita vigorosa: qualsiasi parametro calcolato sul Pil andrà male, fino a quando il Pil non risalirà in modo significativo. Il Paese sta riemergendo a fatica dal più grande depauperamento della storia repubblicana, paragonabile a una guerra perduta. Siamo sicuri che l’assenza di un esecutivo nel pieno dei suoi poteri, di una politica economica e industriale, di ministri in grado di trattare da pari a pari in Europa e sui tavoli internazionali, siano un toccasana per un Paese osservato speciale delle istituzioni finanziarie e dei mercati? Già una volta, nell’autunno 2011, l’Italia si trovò al centro di una tempesta speculativa. All’epoca dovette dimettersi un governo che non era mai stato sfiduciato dal Parlamento. E ora pensiamo di affrontare le burrasche prossime venture senza governo?

Il Fatto 16.12.17
Ancora venerdì di sangue in nome di Gerusalemme
Proteste generalizzate dei palestinesi nel giorno della collera contro Trump e l’ambasciata statunitense
di Cosimo Caridi


I vicoli deserti della Città Vecchia non sono di buon auspicio. Solitamente il venerdì, giorno di preghiera e riposo per l’Islam, le strade che salgono alla Spianata delle Moschee sono invase da bancarelle, pellegrini e fedeli. Non ieri. L’appuntamento è alla porta di Damasco attorno a mezzogiorno, ma sin dal mattino gruppetti di adolescenti palestinesi si siedono sui gradoni che guardano le mura della città e intonano canti. La presenza dei militari israeliani è massiccia. Un 16enne tira fuori una foto di Trump e tenta di bruciarla. Un militare israeliano gliela strappa dalle mani e con i guanti gli stringe il collo. In pochi secondi un altro poliziotto arriva alle spalle del palestinese, lo afferra e lo costringe a piegarsi. È il primo fermo della giornata.
Il ringhio dei cani-poliziotto, il tonfo delle pietre, il rumore sordo degli zoccoli dei cavalli dell’esercito, tutto si mischia. Ben presto anche per le vie della Città Vecchia scoppiano i tafferugli. Le proteste si espandono in tutta la Cisgiordania: Ramallah, Betlemme, Hebron, Nablus, Qalquilia. Nel primo pomeriggio un palestinese accoltella una guardia di frontiera israeliana, vicino alla colonia di Beit El, poco distante da Ramallah. Militari e palestinesi si stanno scontrando da oltre un’ora quando un giovane si avvicina a un soldato. Il militare viene accoltellato alla spalla due volte, solo ferite superficiali. Il tutto avviene in diretta tv. Mentre il palestinese tenta di allontanarsi viene raggiunto da due proiettili israeliani che lo uccideranno. Il giovane ha alla vita quella che sembra una cintura esplosiva. La detonazione non avviene e le autorità israeliane non hanno ancora rivelato se si trattasse di vero ordigno.
L’ultimo attacco suicida con una bomba palestinese risale all’aprile del 2016. In quel caso l’attentatore si fece esplodere su un bus a Gerusalemme. Il terrorista fu l’unico morto, ma 20 persone rimasero ferite in quello che fu poi rivendicato come un attacco di Hamas. Ad Anata, nei pressi della Città Santa è stato ucciso, dall’esercito israeliano, Bassel Ibrahim, 24 anni. Al momento non è ancora chiara la dinamica, ma il ministero della sanità di Ramallah ha fatto sapere che il palestinese è stato ucciso da colpi di arma da fuoco.
Dalla Striscia di Gaza arriva il bollettino più grave sugli scontri della giornata di ieri. Due palestinesi, Ibrahim Abu Tburaya e Yasser Sokkar, rispettivamente di 29 e 32 anni, sono morti durante le proteste: dalle prime ricostruzioni entrambi colpiti da proiettili israeliani. A Ibrahim Abu Tburaya erano state amputate le gambe a causa delle ferite riportate in un attacco israeliano. Da mercoledì 6 dicembre, giorno in cui Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, gli scontri a Gaza e in Cisgiordania hanno provocato 9 morti e oltre 1600 feriti, 270 nella giornata di ieri. I palestinesi arrestati a Gerusalemme Est sono oltre 80, mentre i fermi in Cisgiordania già oltre i 100. La risposta politica dell’Autorità nazionale palestinese sembra troppo debole per sedare le proteste. In una settimana, da Gaza, dove Hamas ha ancora formalmente il potere, sono stati sparati una decina di razzi Qassam: buona parte intercettati dal sistema antimissile Iron Dome, ma uno ha provocato un incidente stradale, con un ferito, vicino alla cittadina israeliana di Ashkelon. Tutte le notti i velivoli delle forze aeree israeliane si sono alzati in volo per compiere raid sulla Striscia.